Nel focalizzarsi sulle conseguenze dell’attività antropica sul clima si trascura a volte il fatto che la Natura, sia pure in modo erratico, si applica anche di suo: quando nel 1257 il vulcano Samalas nell’isola di Lombok (Indonesia) esplode, le sue ceneri oscurano per un anno l’intero orbe terracqueo, innalzando la temperatura degli oceani, causando inondazioni ininterrotte e divenendo così responsabili della scomparsa delle principali civiltà del Sud-Est asiatico e d’altra parte da sempre pestilenze e carestie, collegate queste ultime ad ondivaghi andamenti climatici, hanno tristemente viaggiato insieme per l’Europa.
Per di più la presunzione di arrivare ex-cathedra ad una immaginaria ‘naturalità’ dell’agire umano per mezzo del laissez faire dei fisiocratici (da cui nasce la scienza economica), proprio nella liberalizzazione del commercio dei grani verifica alla prima carestia il suo fallimento ideale (e il contestuale trionfo dell’Annona, figlia del Magazzino Centrale), giustamente sbertucciato in uno dei più grandiosi trattati di metodologia dell’analisi economica quale fu I Dialoghi sul commercio dei grani (1770) dell’abate Galiani.
In realtà l’atteggiamento operativo più sensato è sempre stato quello di prendere come dato di partenza lo stato di fatto delle cose trovandovi soluzioni operative, più o meno definitive: l’organizzazione attraverso i sistemi di canali delle piene mesopotamiche e di quelle del Nilo è all’origine della nostra civiltà agricola stanziale, mentre le piene del Tago non regimentato, formando le lezirias, le pianure alluvionali, ha spinto i più speculativi iberici verso l’allevamento di bovini e cavalli che su quelle terre fertilizzate dall’acqua traevano grandi quantità di foraggio a buon prezzo.
Così la siccità odierna, una reale e per nulla illusoria calamità per le coltivazioni come per i parchi e i giardini del Nord Italia, sarebbe opportuno venisse presa come un dato su cui ragionare in termini infrastrutturali, risultando l’attuale sistema palesemente carente nella conservazione e distribuzione razionale delle acque, senza dimenticare nel contempo di focalizzare l’attenzione sulle attuali tecniche irrigue agricole, ovvero l’altra faccia dell’attuale problema della Pianura Padana.
Circa l’arretratezza dei nostri sistemi irrigui rimando ad un ricordo che mi riguarda: qualche anno orsono giunse in visita da me (mi occupo anche di sistemi di irrigazione agricola) un tecnico della Plastro (ora Rivulis) che ha sede nel Kibbutz Gvat vicino a Nazareth nel nord di Israele e mentre eravamo affacciati sulla bellissima chiusa del Naviglio Pavese di Rozzano, allora non in asciutta, quello afferma che in tutto Israele non c’era così tanta acqua, significando così che per avere un’economia agricola di grande efficienza come la loro non conta avere tanta acqua quanto piuttosto usare bene quella che si ha a disposizione e ciò risulta possibile solo impiegando tecniche di microirrigazione e microaspersione che, a loro volta, richiedono assai meno acqua ma di qualità meccanica superiore, dovendo risultare il più possibile priva di elementi solidi.
Perché allora gli agricoltori padani con le loro campagne riarse e gli amministratori pubblici con i loro parchi bruciati per il secondo anno consecutivo e su cui non riescono a mettere mano coi loro mezzi, pare non abbiano altra alternativa che invocare interventi superiori?
La situazione è noto ha aspetti paradossali: la Pianura Padana nei suoi strati inferiori è un gigantesco accumulo di acque dolci di agevole disponibilità, specie dove la linea dei fontanili segna l’emersione delle acque dal sottosuolo, ma in generale, tranne che in prossimità del Delta del Po e dell’Adige dove le acque diventano salmastre, tutta la pianura ha acqua potenzialmente disponibile e illimitata, almeno per gli orizzonti attuali, potendo effettuarne il prelievo con pompaggi dal costo ampiamente sopportabile.
Ci troviamo pertanto di fronte al dato di fatto storicamente determinato che il combinato con i normali regimi di pioggia e neve delle stagioni autunnali/invernali, la fitta rete di canali derivati dai fiumi e l’abbondanza di acqua disponibile in emersione, ha consentito di derogare dalla preoccupazione che si potessero mai presentare problemi di approvvigionamento e quindi gli agricoltori usano da sempre in modo convulso le acque di irrigazione allagando i campi o aspergendoli con sistemi ad alta intensità: ciò comporta inoltre il fenomeno non secondario di maggiori necessità di fertilizzazione e di cura chimica dei suoli, proprio a causa delle grandi quantità di acqua impiegate, e questo a sua volta ha determinato il progressivo inquinamento dei suoli, costringendo così a prelevare le acque potabili da strati sempre più profondi.
La stessa bulimia consumistica da acqua a buon mercato affligge anche gli abitanti delle nostre città, tant’è che ad esempio Milano manifesta consumi di acque potabili superiori del 20% rispetto alle medie europee (220 lt giorno pro capite contro i 180 lt giorno pro capite europei).
Inutilmente le Regioni spingono verso sistemi di minor impatto idrico, inutilmente il mondo universitario e scientifico spiegano i vantaggi della razionalità idrica e chimica di una minor intensità nell’irrigazione ma non c’è verso: fintanto che i danni per i disastri naturali vengono indennizzati al mondo agricolo, che già gode del sistema assistenziale europeo delle PAC, e soprattutto fintanto che non si comprenderà a livello politico la necessità di nuove infrastrutture idrauliche che intercettino e riutilizzino sia in ambito urbano che extra urbano le acque di scarto oltre a quelle non potabili immediatamente disponibili e a quelle evacuate dai sistemi di difesa idraulica, ogni siccità apparirà un mostro insormontabile.
Lo stesso buco nero cognitivo attanaglia i Comuni che non hanno mai dato corso al disposto della legge 152/2006 dove si raccomanda loro di attivare reti duali di recupero delle acque non potabili per tutti gli usi non nobili (irrigazione, antincendio, usi tecnici vari sino agli scarichi dei bagni) e così oggi ci troviamo a irrigare i prati con acqua potabile (quando a non irrigarli affatto per carente manutenzione degli impianti) ma soprattutto, Milano in questo è in testa al gruppo, non abbiamo mai provato a riattivare le decine di pozzi dismessi in quanto non potabili ma ottimi per la bisogna irrigua, né mai abbiamo valutato di realizzare reti fra questi.
Come le associazioni agricole lamentano, il Nord risulta poi particolarmente privo di invasi disponibili nelle fasce prealpine e appenniniche destinati a intercettare parte delle piogge destinate al reintegro delle falde o allo scorrimento di fiumi e torrenti, invasi alternativi e complementari ai laghi che a loro volta alimentano i fiumi destinati infine a fornire l’acqua al sistema dei grandi canali lombardi: ciò vale particolarmente per le pianure più occidentali assai più drenanti e la cui agricoltura soffre in modo ancor più significativo la carenza attuale.
Ma è evidente che il vero problema è l’impiego delle tradizionali tecniche ad alto consumo d’acqua, specie se si considera che la microirrigazione, il cui costo di impianto è però doppio rispetto ai sistemi ad alta intensità, consuma quasi la metà di acqua, garantendo nel contempo rese superiori tra il 10 e il 20% avendo impiegato la metà della chimica oggi utilizzata: chiaramente l’approvvigionamento dal sottosuolo o la veicolazione delle acque provenienti dai cicli urbani e industriali richiede una partecipazione consistente in termini di infrastrutture da parte degli Enti Pubblici e dei Consorzi, non essendo ragionevole ipotizzare che la transizione avvenga a spese dei soli agricoltori.
Questa somma delle indolenze agricole e municipali, unita alla mancanza di visione e di operatività dell’apparato amministrativo rendono così poca giustizia alla lucida analisi del legislatore che segnalava i rimedi sin dal 2006 e di quella della comunità scientifica che sostiene da qualche lustro che occorra impiegare meno acqua e meno chimica, ma assai più razionalità nella conservazione e nella distribuzione dell’acqua.
Per dirla con Flaiano, la situazione attuale è grave ma non è seria.
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