In Italia l’acqua è pubblica?

Autore

Giuseppe Santagostino

Data

28 Ottobre 2022

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DATA

28 Ottobre 2022

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Le molte facce del problema idrico nella legislazione italiana post-unitaria

Il dubbio ricorrente a livello del cittadino comune che la centralità dell’approvvigionamento idrico solletichi privati appetiti non è del tutto peregrino, alimentato anche dalla scarsa comprensione del meccanismo di concessione previsto dalla gestione del nostro Sistema Idrico Integrato che, giustamente, non distingue i Concessionari vincitori sulla base della loro natura pubblica o privata, senza peraltro che la titolarità pubblica delle acque possa in qualche modo venir meno, così come il controllo degli ATO provinciali: per quanto il nostro sistema tariffario metta al riparo il cittadino da pratiche monopoliste estorsive è evidente che i margini di profittabilità del bene ‘acqua’ (ma anche gli importanti investimenti connessi) non possono sfuggire al mondo produttivo che, nei limiti consistenti previsti dalle leggi vigenti, preme per ottenere posizioni di rilievo nelle gestioni.

Di fatto la natura pubblica del bene acqua non è mai stata messa in discussione nella legislazione italiana, almeno a partire dall’Unità che ha tutt’al più conservato alcuni antichi privilegi, mentre è variato nel corso del tempo il punto di osservazione da cui derivare i disposti legislativi assecondando sostanzialmente le necessità degli equilibri economici ed ecologici via via emergenti: l’attuale legislazione che deriva dalla sistemazione organica del DLGS 152/2006 1 ha ad esempio una forte connotazione ecologista, inevitabilmente imposta dai disastri della industrializzazione post-bellica che hanno modificato drammaticamente le condizioni dei suoli, delle acque e dell’aria, imponendo di fatto una legislazione fortemente negativa oltre ad assoggettare il tutto ad una serie di obblighi e istituti di controllo.

Questa deriva negativa non era sin lì appartenuta al corpo legislativo riguardante le acque organizzato ancor oggi dal RD 1755/1933 2 che superava il precedente RD 2644/1884 3 a sua volta uno spin-off del RD 2248/1865 4 , ovvero la legge che ha sin qui governato l’ordinamento amministrativo dello Stato Unitario, in quanto tale legislazione precedente aveva sempre mostrato un forte orientamento nel garantire l’economicità e l’universalità del bene acqua, pur inquadrata in un ordinamento a rigido controllo centrale, non ultimo la delega di gran parte delle competenze alle Province in quanto sedi prefettizie.

Ciò che a prima vista appare oggi un bizzarro anacronismo, ovvero l’organizzazione provinciale in quanto emanazione militare del controllo statale secondo lo schema napoleonico vituperato da Einaudi sin dal 1944 5, ha riacquistato con il passaggio alle moderne reti di acquedotto, derivate in gran parte da acque sotterranee, una sua logica operativa razionale rispetto alla precedente prevalenza delle acque derivate da corsi superficiali, per loro stessa natura super-provinciali.

Ma andiamo con ordine nell’esaminare quanto il mutare delle convenienze pubbliche e private ha influito sulla legislazione e questa sull’organizzazione degli Enti preposti al Governo dell’Acqua posto che alla data odierna, almeno per quanto riguarda l’organizzazione idraulica della Pianura Padana, ovvero il 25% della popolazione italiana (che diventa il 45% se sommiamo anche le annesse parti montane del Nord) si evidenziano numerosi problemi legati allo scollamento operativo dei molteplici istituti che governano il regime idraulico del Paese.

Abbiamo visto che tutto trova ordinamento con la prima grande legge di insieme (RD 2248/1865), in parte vigente, che regolamenta l’organizzazione amministrativa italiana e con essa il Governo delle sue parti infrastrutturali principali (strade, ferrovie, ponti, porti e corsi d’acqua); in questa prima organizzazione sono predominanti le preoccupazioni legate all’approvvigionamento idrico di città e campagne, alla navigazione e al trasporto delle merci.

Le opere connesse al regime delle acque vengono ripartite in classi di cui le prime due sono di stretta pertinenza statale (la seconda classe ha competenze condivise con le Province), la terza e la quarta sono consortili secondo un regime di governo e di controllo provinciale, mentre la quinta attiene alle derivazioni private; non si fa cenno alle acque sotterranee sin qui prive di macchine idonee alla loro estrazione, mentre viene estesamente trattata una parte oggi abbastanza negletta che è la coltivazione a ridosso delle rive, il governo del territorio boschivo che insiste su fiumi e torrenti ed il trasporto di legname sugli stessi, con una modernissima attenzione all’equilibrio complessivo dell’ecosistema governato dalla stabilità e dalla conservazione delle opere idrauliche.

Su tutto governa l’articolo 2 dove si afferma che la legge è promulgata ‘allo scopo di semplificare la Pubblica Amministrazione e diminuirne le spese’.

Già nel 1884 il Regno d’Italia avverte la necessità di un ammodernamento dei disposti in merito al governo delle acque per il prevalere delle derivazioni ad uso industriale, sino a qui confinate nelle disposizioni per opifici e mulini dell’art.124 dell’allegato F, di quelle ad uso agricolo e per gli usi potabili stante la progressiva urbanizzazione: le precedenti preoccupazioni prevalenti riguardanti la navigazione ed il trasporto del legname verranno poi regolate dal RD 959/1913 6.

I vent’anni trascorsi hanno imposto al centro della nuova regolamentazione anche gli usi industriali (opifici e mulini) stabilendone i canoni dovuti (art.1) allineando per tutte le classi a partire dalla seconda le esigenze legate a industria, agricoltura e usi civili (art.4), stabilendo una durata rinnovabile per le concessioni e avendo cura di privilegiare gli scoli, le restituzioni dopo l’uso e le bonifiche che risultano dalle derivazioni attraverso una politica tariffaria premiale.

Viene introdotta una tariffa a cavallo dinamico generato per gli usi industriali (art.14), dunque legata a quantità e salto, analoga alla quantità per ettaro applicata all’agricoltura, e la gratuità per gli usi potabili di Comuni e Opere Pie; viene istituito un Catasto per le acque derivate.

Il passaggio cruciale avviene con il RD 1755/1933 ovvero la legislazione che ancor oggi, sia pur variamente integrata, regola l’acqua nel nostro Paese, perché diventa prevalente l’impiego della risorsa idrica per la produzione di energia elettrica e, non secondario, si afferma l’utilizzo delle acque sotterranee, precedentemente non regolamentato.

Numerosi gli aspetti di gestione su cui viene posto un nuovo accento: viene definito un quantitativo che funge da discrimine fra piccole e grandi derivazioni esteso anche ai prelievi dal sottosuolo (100 lt-sec) destinato, come vedremo, ad assumere un notevole rilievo ai nostri giorni; viene privilegiata l’attività di bonifica e di realizzazione degli scoli delle acque; viene istituito il Servizio Idrografico destinato a raccogliere numeri e mappe dell’acqua alle dipendenze del Ministero dei LLPP; viene regolamentata l’emissione di obbligazioni per le opere idrauliche destinatarie di pubbliche sovvenzioni; viene ampiamente articolato il prelievo delle acque sotterranee derogando in un punto al principio della pubblicità del bene quando si consente l’uso privato per i fondi agricoli in deroga al regime di concessione, ma viene dichiarata nel contempo la pubblica utilità di tutti i prelievi su terreni privati quando il quantitativo trovato risulti  di pubblico interesse; viene infine istituito il Tribunale delle Acque presso le Corti di Appello e il relativo Tribunale Superiore presso la Corte di Cassazione.

Oltre metà della legge stabilisce le regole per il prelievo e lo stoccaggio delle acque per la produzione elettrica, inevitabilmente segnando i tempi autarchici in cui la legge viene promulgata in un Paese, allora come oggi, privo di altre risorse energetiche significative.

Cosa cambia nel secondo dopoguerra e dopo la crisi energetica degli anni ’70? 

Sostanzialmente accade che il bene acqua, sia nello scorrimento superficiale che nel prelievo delle acque sotterranee, si trova a fare i conti con l’inquinamento prodotto dalle attività industriali, da quelle agricole e dagli usi civili, ovvero i tre competitor della produzione idroelettrica nell’uso delle acque, e, fatto solo apparentemente collaterale, con il dissesto idrogeologico segnato da tre distinti fattori: l’abbandono dei pascoli montani che danneggia l’infrastrutturazione legata all’antropizzazione come le strade di accesso e gli scoli, l’urbanizzazione indiscriminata che porta a lastricature e tombinamenti con conseguente accentuazione dei fenomeni di allagamento urbano e la trasformazione agricola delle pianure che fa perdere di importanza al sistema dei canali ma nel contempo richiede quantità eccessive di acqua molto concentrate che a loro volta entrano in evidente conflitto con gli usi industriali oggi prevalenti, ovvero il raffreddamento delle centrali termoelettriche.

Tre snodi fondamentali: la Legge Merli 1976, la Legge Galli 1994 e infine il DLGS 152 che fornisce il quadro complessivo nella gestione delle risorse.

La Legge Merli 7 disciplina per la prima volta gli scarichi nei corpi idrici superficiali o sotterranei, nei suoli e nei sottosuoli, in mare e in fognatura sia direttamente che indirettamente; definisce i criteri di utilizzo delle acque e la qualità degli scarichi come competenza statale; attribuisce alle Regioni i piani di risanamento necessari mentre assegna alle Province i compiti di razionalizzare i sistemi di rilevazione e gestione e infine ai Comuni o a Consorzi Intercomunali la gestione di acquedotti e fognature, ridefinendo l’organizzazione dei servizi di acquedotto e depurazione aprendo la strada alla soluzione poi definita dalla successiva Legge Galli 8.

La Legge Galli si pone come costitutiva degli usi e riusi delle risorse idriche con uno sguardo di lungo periodo che tenga conto degli equilibri ecologici generali per la conservazione del patrimonio idrico.
Sempre in termini perentori stabilisce prioritario l’uso umano e residuali gli altri usi; stabilisce l’obbligo per le Autorità di bacino di conservare l’equilibrio idrico dell’ecosistema e regolare gli utilizzi della risorsa in funzione della conservazione della risorsa; mette al centro il risparmio idrico e impone la realizzazione di reti duali nei nuovi insediamenti (raccomandazione poi ripetuta, invano, nel DLGS 152/2006); regola il sistema del trattamento dei reflui e il loro riutilizzo.
La parte istituzionale più interessante è quella relativa al riordino dell’organizzazione dei servizi di fornitura e depurazione nel Servizio Idrico Integrato e l’istituzione degli ATO (ambito territoriale ottimale): il punto ‘rivoluzionario’ è l’affermazione solenne della pubblicità del bene e l’altrettanto solenne principio della economicità nella gestione e quindi del riordino in unico gestore per ATO provinciale delle mille gestioni comunali o sovracomunali (o private come in gran parte del Sud). Lo scopo prefisso dal legislatore è quello di dare inquadramento sostenibile alla gestione favorendo i necessari investimenti sia nelle linee di adduzione che nei processi di depurazione che le molto spesso desolanti gestioni comunali non erano in
grado di garantire.

Si arriva per questa strada all’oggi non senza aver prima definito i criteri di confluenza delle singole gestioni nel Gestore Unico e il ruolo positivo della tariffa nel favorire gli investimenti necessari: questo a oggi è ancora il punto più spinoso perché cristallizza il sistema tariffario su quello esistente, ipotizzandolo remunerativo, e consentendo variazioni tariffarie in due casi principali: le unificazioni nelle gestioni e il finanziamento di investimenti forieri di maggiore produttività nell’uso della risorsa (tipicamente il rifacimento delle linee e il loro monitoraggio per contenere le perdite).

Questa visione innovativa privatizza le gestioni (le concessioni possono venire assegnate indifferentemente a società di diritto privato come a società pubbliche partecipate) mantenendo la pubblicità del bene ‘acqua’.

Il DLGS 152/2006 dichiara sin dall’art.1 la sua natura ‘negativa’ disciplinando l’utilizzo delle risorse ad un complesso iter autorizzativo (VAS, VIA, IPCC); dichiara la prevalenza della tutela del suolo, delle acque; regola la raccolta e il trattamento dei rifiuti, nonché gli obblighi legati alle attività di bonifica; stabilisce i criteri per il contenimento delle emissioni in atmosfera e infine stabilisce le regole risarcitorie legate alle violazioni del massiccio corpo di prescrizioni di cui la legge si compone.

Basterebbe allora aver dato un’occhiata ai fiumi per capire il perché di questo grande codice penale dei crimini ecologici, come sarebbe bastato osservare l’analisi chimica dei suoli e delle acque per condannare un’industria e un’agricoltura prive di responsabilità sociale verso l’ambiente, come pure sarebbero bastate un paio di alluvioni per capire quanto i Sindaci e le loro Giunte si fossero piegati irresponsabilmente verso un politica priva di equilibrio nella lastricatura del territorio al fine di incamerare oneri di urbanizzazione privi di compensazioni. 

Per questo il grande ALT! rappresentato dalla 152/2006 era necessario per mettere ordine dopo che gli Unni, ovvero noi, erano passati su Terra, Aria e Acqua, non senza indicare due punti fondamentali nell’impiego delle risorse idriche (più volte raccomandati in ogni disposto legislativo successivo) ovvero la necessità di reimpiego delle acque usate con la corrispondente  tutela conservativa di quelle potabili, indicando così che il semplice schema tutt’oggi adottato nel Servizio Idrico Integrato (prelievo acque potabili a cura del gestore, prelievo di acque non potabili a cura dell’utilizzatore e trattamento delle acque reflue risultanti) andasse in realtà ‘complicato’ prevedendo di dotare le città di un sistema duale per le acque destinate agli usi non potabili e una divisione nelle reti fognarie che non destinasse alla fognatura (e quindi a costi crescenti) i reflui direttamente reimpiegabili per usi irrigui o tecnici.

L’aver inserito questi due elementi fondamentali per l’ecologia idraulica del territorio solo come opere desiderabili ma non obbligatorie per tutto il già edificato, ha di fatto comportato notevoli aggravi per chi si è trovato ad urbanizzare nuove aree senza risolvere, né tanto né poco, il disordine idraulico corrente, mentre una più spiccata direzione mutualistica nell’infrastrutturazione di queste reti duali ne avrebbe diminuito i costi complessivi rendendo effettiva la necessaria razionalizzazione.

Su tutto l’introduzione intervenuta di un ulteriore livello decisionale in capo alle Regioni, divenute ‘proprietarie’ del bene acqua per delega dello Stato ha creato il complesso sistema amministrativo e legislativo attuale che ha così definitivamente perso l’originale impianto semplificato delle classi e della divisione fra Stato, Province e Privati, mentre si articola per competenze e disposti legislativi sempre più complessi e confliggenti.

Come abbiamo cercato di illustrare, pur con la necessaria approssimazione, leggi e istituti hanno seguito criteri strettamente funzionali all’insorgere delle necessità storiche, trasformando inevitabilmente nel corso del tempo una legislazione operativa in una conservativa.

Ma l’affermarsi dell’emergenza climatica e la necessità di contenere le emissioni e gli inquinamenti connessi all’uso delle risorse non rinnovabili offrono a quasi cento anni dalla promulgazione della nostra legge idraulica un nuovo elemento destinato a modificare l’ordine delle priorità e l’organizzazione amministrativa nell’uso della risorsa idrica: l’impiego delle acque sotterranee e di quelle superficiali nella produzione di energia termica a basso impatto richiederà da qui a breve qualche nuovo aggiustamento essendo la legge attuale fortemente (e inutilmente) limitante specie per un Paese privo, come tutti sappiamo, di fonti energetiche dirette proprie.

Leggi anche >> Acqua, una visione industriale (Ep 1 di Acqua)

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