Zona critica

Autore

Roberto Di Caro

Data

17 Maggio 2024

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6' di lettura

DATA

17 Maggio 2024

ARGOMENTO

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Pelle vivente della Terra e metafora delle sue fragilità, dove si intersecano soggetti naturali, processi socio-economici e decisioni politiche. Nel nuovo libro di Marco Pacini.

L’impietosa disamina di una Tarda Modernità occidentale malata di «un eccesso di tempo, di spazio, di ego». Di un mondo «governato dal Nessuno delle grandi società deresponsabilizzate che hanno disegnato la tecnosfera». Sprovvisto di «classi dirigenti globali all’altezza del compito, come di soggetti collettivi in possesso della forza e del peso politico per innescare quel cambio di paradigma indispensabile a frenare la catastrofe». E noi, «sonnambuli della modernità, ammirevolmente impegnati nel perenne inseguimento dei buoi già scappati dalla stalla, appesi alla favola di un’economia immateriale che è invece materialissima e devastatrice». Noi qui a giocare in difesa, sempre un passo indietro rispetto ai prodotti stessi del nostro agire, noi a crogiolarci nella bambagia di una utopia tecno-soluzionista tanto speranzosa quanto verosimilmente inane: al punto da far intravedere, nel retrobottega del nostro inagire, una «volontà di impotenza» o «inconfessato desiderio di collasso» il cui unico esito sembra essere la chance di trarre godimento estetico dalla nostra stessa autodistruzione.  

Ecco, non fa sconti Zona critica di Marco Pacini, appena pubblicato per Meltemi. Nei suoi Esercizi di futuro tra ecologia e tecnologia, come recita il sottotitolo, lavora sul crinale, che è poi quello in cui noi viviamo senza troppo badare il più delle volte a dove mettiamo i piedi. Indaga, spiega, ragiona, scansando da un lato la ridda di banalità sciorinate da un pacioso ecologismo per anime belle, dall’altro (come già aveva cominciato a fare in Pensare la fine, del 2022) la mistica apocalittica o transumanista di un ‘pianeta da salvare’ quando «l’oggetto della salvezza è in primo luogo una specie, la nostra». Su quel ‘Nessuno’ a governare il mondo si può disquisire: nel conto andrebbero aggiunti la follia di autocrati e dittatori, il ritorno di quegli Stati nazionali e vecchi imperi che la globalizzazione doveva cancellare dalla Storia e che suona riduttivo liquidare come «pantomime sovraniste e retoriche identitarie», un fanatismo religioso i cui criteri di razionalità ultima e computo tra benefici e costi umani non sono né i nostri né quelli delle due potenze (“kathecontiche”, per dirla con Cacciari) della Guerra fredda, Usa e Urss. Ma non v’è dubbio che di classi dirigenti e soggetti collettivi in grado quantomeno di posticipare la catastrofe, a tempo o ad infinitum, non s’intraveda allo stato dell’arte neppure l’ombra.

A caccia di ricette di pronto consumo, che nessuno è in grado di sciorinare, qualche recensione al volume ha enfatizzato il passaggio in cui Pacini, con esplicito rimando alla ‘ecologia della mente’ di Gregory Bateson, scrive di «resistenza analogica» (ancoraggio alla materialità delle cose, alla fisicità delle relazioni, ai tempi e agli strumenti necessari allo sviluppo di un pensiero critico «non formattato dai protocolli delle piattaforme digitali») come esercizio preliminare e indispensabile avverso le mutazioni antropologiche che il neuro-tecno-capitalismo dominante ha già provocato sulla plasticità del cervello umano. Ma un cambio di paradigma non è la prova del cuoco. Richiede, invece, un radicale ripensamento dell’insieme dei rapporti che intercorrono oggi tra i soggetti naturali, i processi sociali, le direttrici economiche, le decisioni politiche, esaminati e pensati laddove essi interagiscono in strettissima interdipendenza come mai prima nella storia: in quella ‘zona critica’, appunto, che è insieme pelle vivente della Terra e per estensione (sulla scorta di Bruno Latour, sul quale Pacini cura il prossimo numero della rivista «Aut Aut»), metafora dell’insieme delle fragilità e delle ‘prossimità critiche’ che oggi la segnano. 

Primo passo, qui sulla scorta di Edgar Morin, è prendere di petto «la complessità, le interrelazioni, e agire coerentemente con la natura sistemica del mondo». Significa abbandonare «le logiche strumentali, lineari, ormai patetiche e antiche, del problem solving». Smetterla di ragionare ogni volta in termini di ‘crisi’ da affrontare e superare una dopo l’altra. Una rinuncia mentale non così facile da attuare giacché, vien da notare, il vecchio schema delle crisi periodiche fautrici di distruzione di vite e risorse e allo stesso tempo di rigenerazione e rinnovata vitalità del sistema non solo ha perfettamente funzionato entro l’orizzonte del capitalismo classico, ma tuttora funziona e si riproduce agevolmente: almeno finché entro quell’orizzonte, sempre più angusto, il nostro sguardo resta confinato, e pazienza se le emissioni di CO2 nell’atmosfera calano di poco in Occidente e continuano a impennarsi nei Brics, se dilagano insieme siccità e uragani, se la distruzione di decine di migliaia di specie viventi animali e vegetali impoverisce drammaticamente la biodiversità e mette a rischio la nostra stessa esistenza di esseri umani. Se, insomma, la ‘zona critica’ è ormai quella delle possibili implosioni, del declino, del collasso.

Uno iato, un bias, una dissonanza cognitiva, uno ‘sfratto del senso’: «Ci immaginiamo protesi verso spazi di vita green e smart, ma viviamo ancora nel tempo della grande accelerazione estrattiva, dell’accumulo e dello spreco, del colonialismo-discarica al quale ci approvvigioniamo». Tocca tentare di ricostruire una ‘ontologia del presente’ che ci permetta quantomeno di individuare con accettabile precisione e disincanto «la linea di faglia sulla quale siamo affacciati». 

Non è compito semplice. Per dipanare la matassa, Pacini si mette a districare uno a uno i fili che segnano i letali paradossi della Tarda Modernità. L’anestetizzazione della nostra ‘territà’ in favore di una cognitivizzazione totale, come dire il soggetto cartesiano in delirio onanistico dopo essersi scrostato della res extensa. Il «surriscaldamento culturale e cognitivo» che è la regola dell’Infocrazia, quel «crescente frinire di fondo», di cui non distinguiamo più provenienza, direzione, alto-basso, destra-sinistra, annegando nei tempi della fruizione immediata qualsiasi presa in carico collettiva della crisi eco-climatica. L’economia digitale che con il nostro pieno ed entusiastico consenso vive «dell’estrazione di ogni nostro gesto, relazione, curiosità». L’oscurità di un mondo fuori comprensione e fuori controllo come «beffardo lascito della religione della trasparenza predicata da Big-Tech». Il divergere tra un orizzonte post-umano alla Neuralink di Elon Musk, come accrescimento e potenziamento dell’umano promesso dalle Nbic (acronimo per Nanotechnology, Biotechnology, Information tecnology e Cognitive science) e quello di una AI, Intelligenza Artificiale, ideata come meraviglioso e affidabile sostituto algoritmico dell’agire umano che, nel suo progressivo e radicale autonomizzarsi, nell’esonerare e liberare l’uomo da compiti e decisioni e responsabilità, lo espropria, spoglia e sostituisce in ciò che propriamente lo definisce: ovvero, per dirla con l’ultimo Heidegger, del suo essere «formatore di mondo» (per il confronto con Heidegger, la AI come culmine e fine della tecnica e della metafisica che, in via ipotetica, potrebbe «sciogliere l’uomo dai lacci del ‘pensiero calcolante’, ormai appaltato», dandogli la chance di «un ‘nuovo inizio’ nel segno del ‘pensiero rammemorante’», rimandiamo al libro; ma, a onor del vero, chiuso il cerchio della digressione sul filosofo della Foresta Nera da lui assai amato, neppure Pacini sembra scommetterci più di tanto).  

Non ultimo dei temi trattati, ancorché più prosaico, è il ‘tradimento dei chierici’. Degli economisti, che dalle origini, non da thatcherismo e reaganismo ma da Adam Smith, nell’eleganza matematica delle loro formule hanno rimosso proprio l’oikos inscritto nell’etimo, cioè la casa, la Terra, la materia, l’energia. Ma anche, vergato con tutta l’irritazione di chi il giornalista l’ha fatto per trent’anni, la cialtroneria di quella parte di stampa e mass-media che insegue e dà corda ai negazionismi più ridicoli e nefandi solo per spartirsi fette di pubblico «con l’immondezzaio fake della Rete». Veemenza a parte, l’argomentare di Pacini ha la densità del mercurio, ogni goccia appena la spezzi si addensa in due, poi tre e così via. Quasi ogni pagina (inclusi in testo e in nota una ricca messe di dati, percentuali, rilevazioni, report, studi, casi e storie sul riscaldamento globale e i suoi effetti, forse il fenomeno più documentato della storia della scienza) ti spinge a cercare rimandi e riferimenti: tiri un filo e poi un altro e finisci per leggere giusto un capitolo al giorno. Un difetto, secondo alcuni, quasi un ‘troppo pieno’ tipico proprio di quella contemporaneità che l’autore ha appena sottoposto a una disamina non così dissimile da un’autopsia preventiva. Un pregio non di poco conto, invece, a parer nostro: perché apre, stimola, provoca, muove all’azione individuale e collettiva. Conscio del rischio che, una volta indagato e raccontato, «il cambio di paradigma resti confinato nel dibattito e nella produzione accademica, o al massimo nella divulgazione a caccia di lettori in estinzione». Sta a vedere che, almeno su questo, non aveva torto il barbuto signore di Treviri, quello che «finora i filosofi hanno solo interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo». Mica per altro, giusto per salvare noi stessi, noi della specie detta homo sapiens.

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