Cittadinanza digitale estone e modello Singapore: obiettivo AI Evangelist
All’ombra dell’ascesa di oligopoli globali che guidano questa rivoluzione, OpenAI e Nvidia su tutti, novella ondata di divinità dopo i vari Google, Facebook e Apple, piccole e grandi nevrosi attraversano dunque la nostra quotidianità digitale. Che la promessa di cambiamento sia sempre in meglio, ovviamente, non basta a placare le inquietudini (vedi la memorabile e esilarante requisitoria di Jon Stewart sulle “false promesse dell’AI”1). La paura più comune e diffusa è che l’AI diventi in fin dei conti il planky delle nostre vite, il pezzetto di legno che occupa il nostro occhio di bue e ci sopravanza, ci sottrae spazio, occasioni lavorative, rilevanza, identità perfino. Molti argomentano su come ogni evoluzione tecnologica abbia distrutto lavori ma ne abbia generati altri e senza dubbio ciò accadrà anche con l’AI. Ma oggi viviamo in un’epoca in cui il lavoro conferisce molta meno identità e certezze rispetto al passato recente, al modello classico. Per questo dobbiamo investire come società in una cosa su tutte: l’educazione. La creazione di nuovi saperi e finanche, come riccamente approfondito nelle pagine dell’Almanacco 2024 di Equilibri2, l’evoluzione verso una vera e propria Società dell’Educazione.
La qualità degli individui – e delle loro conoscenze – fa e farà sempre di più la differenza. Dal web abbiamo imparato che un certo tipo di macrodinamiche economiche è inevitabile, che a ogni svolta del digitale corrisponde l’ascesa di conglomerati imprenditoriali più potenti e influenti della gran parte degli Stati nazionali: un fatto cruciale nell’orientare l’applicazione delle nuove tecnologie dando la priorità al benessere collettivo oppure agli interessi privati. Ma abbiamo anche compreso che dall’utilizzo del mezzo da parte degli individui dipende una fetta grossa degli effetti, nefasti o positivi, che il suo utilizzo può avere. La forchetta è ampia e l’esito mai scontato. I social network, per esempio, possono generare individui insicuri che dipendono dal giudizio altrui e venerano la popolarità e il conformismo, oppure una generazione in grado di connettersi, movimentarsi, creare comunità, legami con le proprie passioni e con chi le condivide. Entrambi gli scenari si sono realizzati. Allo stesso modo, l’AI potrà diventare un mezzo per licenziare personale o per potenziare le skill dei lavoratori e la competitività, uno strumento di omologazione e appiattimento del pensiero o un eccezionale tool di innovazione e di knowledge raising, di osservazione e comprensione della realtà.
Con l’AI abbiamo insomma una seconda occasione, e forse persino l’obbligo esistenziale, di ricoprire quel ruolo che ci è un po’ sfuggito al primo giro di boa: quello di evangelist di un mondo che cambia, anche grazie al nostro contributo come individui, concretizzato nelle scelte di utilizzo delle innovazioni. L’occasione storica è quella di cambiare prospettiva, di uscire dalla narrazione manichea, bianco o nero, AI buona o AI cattiva, per farci carico di una responsabilità collettiva. Metterci in testa di diventare tutti degli AI Evangelist, cittadini digitali consapevoli e dallo spirito critico, sarebbe una risposta eccezionale alla complessità delle incognite dischiuse da questa fase. Allenarci cioè a essere consapevoli che il nostro utilizzo dell’AI come individui, come implementatori del suo potenziale nei settori e attività che ci riguardano, come decision maker, ne definirà in parte significativa l’impatto sulla società nel suo complesso. Cioè su ognuno di noi. Perché imparare davvero le potenzialità delle innovazioni significa conoscerle a fondo e individuare le applicazioni che possono realmente cambiarci la vita in meglio, oppure in peggio. E pianificare affinché ciò accada investendo, prima di tutto, nell’aggiornamento dei saperi degli individui.
Perché ciò sia realizzabile, ci vuole un piano. In termini astratti o su larga scala sembra irrealistico anche solo abbozzare un masterplan per governare e direzionare gli innumerevoli effetti a cascata dell’AI sulle nostre vite. Ma gli esempi virtuosi a cui ispirarsi non mancano, specialmente se dal livello globale passiamo a livelli più circoscritti, locali o nazionali. Penso al modo in cui un piccolo Stato baltico, l’Estonia, ha vissuto l’avvento del web. Un’avventura digitale iniziata una trentina di anni fa, dopo il collasso dell’Unione Sovietica, che ha portato alla creazione di un vero e proprio Stato Digitale e, di conseguenza, di una digital citizenship all’avanguardia. Da anni l’Estonia è un Paese in cui i suoi cittadini possono usufruire di oltre tremila servizi digitali, una start-up si può aprire in un paio d’ore e alle elezioni più della metà dei voti totali sono espressi online. Un processo che ha pagato anche economicamente, con un risparmio annuo per le casse pubbliche pari al 3% del PIL.
Così come la creazione di un E-State efficiente e democratico non era un esito scontato dell’avvento del web (e infatti quanti Stati nel mondo l’hanno effettivamente realizzato a oggi?), ma ha richiesto una visione e una programmazione attorno a cui si è generato un consenso diffuso, così oggi abbiamo bisogno di progetti collettivi per preparare l’uomo al nuovo rapporto con le macchine che si svilupperà nei prossimi anni. Agli inizi di quest’anno lo Stato di Singapore ha annunciato un ambizioso piano, lo SkillsFuture Level-Up Programme, che prevede l’erogazione di significativi contributi economici statali a tutti gli over 40 del Paese che intendono frequentare corsi di aggiornamento o conseguire titoli di studio terziari part time o full time in ambito AI e machine learning. È il riconoscimento da parte di un sistema Paese del cambio di paradigma in atto, che mette al centro il lifelong learning e l’up-skilling di intere generazioni di lavoratori, e al contempo una parte di un piano nazionale più articolato, la National AI Strategy 2.0, che contempla l’investimento di 1 miliardo di dollari di Singapore, circa 750 milioni di dollari, in cinque anni per potenziare ulteriormente le AI capabilities del Paese, garantire l’accesso ai chip di ultima generazione, incoraggiare le aziende a sviluppare e adottare soluzioni AI dedicate e a creare un ambiente favorevole alle partnership strategiche, trasversali e per settori produttivi. Già nel 2023 i lavoratori di Singapore erano stati riconosciuti dal rapporto Future of Work di LinkedIn come i più veloci ad acquisire competenze AI e adattarsi ai cambiamenti del lavoro. Questa mossa rilancia la visione a lungo termine di un Paese che ha compreso come un piano organizzato sia la soluzione più ragionevole per non lasciare (quasi) nessuno indietro e per abbracciare come comunità ciò che davvero interessa dell’AI, ossia la sua capacità trasformativa: dei processi collettivi, delle professioni e della mentalità degli individui. In AI Evangelist, azzardiamo noi. Dopotutto, non era forse la conoscenza a rendere Vinton Cerf il Chief Internet Evangelist?
Worldcoin: utopia o distopia?
Attenzione però a non accomodarci su facili convinzioni e a sovrastimare gli effetti di iniziative come quella di Singapore. Certamente formare gli individui all’utilizzo dell’AI avrà un peso rilevante nell’indirizzare il futuro nell’epoca dell’AI. Ma esistono forze – e progetti – all’opera che mettono questo tipo di sforzi decisamente in prospettiva, che fanno venire enormi dubbi sull’effettiva capacità della società civile di incidere sul futuro all’epoca dell’AI e aprono scenari utopici/distopici mai immaginati prima.
«Sta diventando ovvio a questo punto che negli anni a venire il 90% di ciò che vedremo e con cui interagiremo sarà creato o potenziato dall’AI. E questo è un problema». A parlare è Alex Blania, CEO di Tools for Humanity, società registrata alle Cayman e di proprietà di Sam Altman, CEO di OpenAI. TFH è il principale sostenitore della Worldcoin Foundation, no-profit a sua volta impegnata nella realizzazione di un colossale progetto dalle ambizioni cambiamondo chiamato, appunto, progetto Worldcoin (che ha già raccolto anche corposi investimenti dalla Silicon Valley). In sintesi, Worldcoin ha due obiettivi dichiarati. Approntare un metodo di identificazione mondiale degli esseri umani, chiamato World ID. E, scrive l’azienda, creare «una rete finanziaria globale e inclusiva di proprietà della maggioranza dell’umanità», cioè in sostanza agire per identificare ogni essere umano sul Pianeta e collegare l’umanità a una criptovaluta appositamente creata. Di fatto apre uno scenario ancora più ambizioso, gigantesco anzi, che cambierebbe alla radice il nostro modo di vivere: tracciare un percorso verso un reddito di base universale per tutti i cittadini del mondo, in vista del momento – evidentemente non troppo lontano – in cui l’AI e soprattutto l’avvento dell’AGI, Artificial General Intelligence, sconvolgerà irrimediabilmente l’economia globale.
Il progetto è estremamente complesso e merita, com’è ovvio, approfondimenti dedicati, ma qui ci limitiamo a rilevare l’aspetto che maggiormente toglie il fiato: il fatto che il creatore di Chat GPT sia convinto a tal punto che l’AI lascerà disoccupati e inermi enormi quantità di esseri umani da imbastire un’operazione imponente, pensata per supportare ovunque nel mondo gli uomini e le donne i cui lavori verranno spazzati via. Molti sono gli aspetti nebulosi, primo tra tutti in che modo dovrebbe funzionare questo meccanismo per cui un giorno chi verrà licenziato perché le sue mansioni saranno ricoperte da un’AI potrà registrarsi sul sito Worldcoin (a settembre 2024 sarebbero già quasi sette milioni gli iscritti della piattaforma) e a tempo debito ricevere un reddito di base sotto forma di criptovaluta. Quello che si sa, ma anche qui per sommi capi, è la centralità per la riuscita del progetto di sviluppare un metodo per identificare la humanness, cioè la natura di essere umano, in maniera inequivocabile e riconosciuta. «Ci sono certe parti di Internet in cui è evidente come ci serva una sorta di portone umano, diciamo così, del tipo: puoi entrarci soltanto se sei un essere umano, altrimenti si resta fuori», continua Blania di TFH. «Ed è a questo che serve il World ID nella sua forma più pura».
E qui entra in gioco l’aspetto orwelliano del progetto: un orb, ossia una sfera di metallo ipertecnologica sviluppata da TFH che serve a scansionare la retina degli individui. Dove finiscano poi queste scansioni biometriche, al momento non è dato saperlo. Però il sottoporsi alla scansione della retina serve per attivare la propria World ID, dunque per entrare a tutti gli effetti nella community di Worldcoin. Sul cui sito infatti campeggia serenamente la call to action: Find an Orb. L’operazione di scansione della retina di decine di migliaia di individui nel mondo (ma non in Italia al momento) è già in corso addirittura da due anni e prevede anche piccole ricompense in denaro o in gadget tecnologici. A detta di Worldcoin i dati così ottenuti sono criptati e memorizzati in modo sicuro, ma colpisce l’attuale, completa mancanza di trasparenza al riguardo.
Forse dal web all’AI stanno cambiando radicalmente anche gli innovatori: se Vint Cerf si sentiva un Evangelist, Sam Altman ha nel mirino lo status, ben più ambizioso, di Savior. Il Salvatore, il Messia di un mondo post-AI.