Il biglietto da visita di Vint – prima parte

Neutrality, dilettantismo al potere, oligopoli globali, responsabilità individuale, fino alla (distopica) metamorfosi dell’innovatore, da Evangelist a Savior: all’alba dell’era dell’AI, cosa abbiamo imparato dai passaggi a vuoto del web?

Autore

Giuliano Di Caro

Data

2 Dicembre 2024

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5' di lettura

DATA

2 Dicembre 2024

ARGOMENTO

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Anni fa, al World Internet Governance Forum di Atene, incontrai uno dei miei eroi. Era il 2006 e Vinton Cerf, letteralmente uno dei due inventori di Internet, era una superstar del mondo digitale che si andava costruendo. Nella sala, il drappello di noi giornalisti ripassava le domande preparate per l’ospite d’onore dell’evento. Osservavo il creatore dei protocolli di trasmissione che imbastivano il web, un signore distinto dalla barba bianca e cesellata con cura. Aveva un eloquio misurato e un carisma naturale, caratteristiche che mi sembravano del tutto consone allo status di Vice President di Google e, soprattutto, di paladino globale della net neutrality. Il principio giuridico chiave della democraticità della rete, garantito dalla sua stessa architettura, per il quale nessun nodo della rete ha a priori un accesso prioritario o più veloce rispetto a tutti gli altri. Tutte le strade con i medesimi limiti di velocità, senza discriminazioni a priori tra ricchi e poveri. Un principio già allora sotto attacco ma che reggeva, nonostante le compagnie di telecomunicazione di mezzo mondo avessero già ovviamente preso le misure a un web molto diverso e più redditizio, a due velocità: un accesso premium, più veloce e a pagamento, e un accesso basico per tutti gli altri, più lento e affollato.

Al tempo questo egualitarismo strutturale, difeso a spada tratta proprio dal buon Vint, diminutivo adottato dai suoi tanti estimatori in giro per il mondo, alimentava gli articoli di giornale e l’ottimismo di chi, ventenne come me, stava vivendo quel profondo passaggio di epoca credendo (o forse sperando) che Internet avrebbe realizzato per davvero la sua promessa più grande: democratizzare l’accesso alla conoscenza, facendo compiere un balzo in avanti senza precedenti, anche etico, alle società mondiali. Finito il fuoco incrociato di domande e risposte, Cerf si ferma a conversare con alcuni di noi e prima di andarsene ci lascia il suo biglietto da visita. Osservo da vicino il cartoncino. VP di Google, certo. Ma è la qualifica successiva a regalarmi un brivido: Chief Internet Evangelist

La nuova sfida dell’equità e dell’accesso

Da allora ho riguardato spesso quel biglietto da visita, conservato come una piccola reliquia. Il concetto di evangelist della neutralità della rete aveva colpito profondamente la mia immaginazione e mi è tornato in mente ogni volta che il web ha cambiato un pezzo del nostro mondo, del nostro modo di pensare o della nostra economia. L’avvento di Chat GPT, che ha di fatto inaugurato l’era dell’AI, ha gettato nuova luce sulla parabola della net neutrality. In Europa normata già nel 2003, negli USA sancita per legge da Obama nel 2015 e abrogata da Trump nel 2017, nonostante gli anni passino continua ad alimentare un ricco e vivace dibattito. Questa sua attualità credo derivi dalla sua capacità di dare forma e sostanza a un’idea semplice ma di rilevanza cruciale per la costruzione del futuro, ieri come oggi: la scelta di difendere o meno la possibilità di accesso per tutti a quelle tecnologie che cambiano, letteralmente e radicalmente, il mondo in cui viviamo.

Con l’AI si ripropone, con le sue enormi differenze, la grande sfida sul terreno dell’accessibilità che abbiamo già conosciuto agli albori del web. Chi utilizzerà l’AI? In che modo? Per risolvere quali squilibri nella società? Chi verrà sostanzialmente tagliato fuori dal pieno potenziale di questa ennesima, dirompente innovazione? In che modo possiamo prevederlo e evitarlo? Quale deve essere il ruolo degli Stati nazionali? Sono queste alcune delle domande sul futuro se non proprio trascurate nel dibattito in corso, quantomeno enunciate senza che poi seguano risposte definite e dettagliate, complice l’estrema complessità della questione. I costi delle tecnologie e, conseguentemente, la loro effettiva diffusione a tutti i livelli della società sono un tema che dobbiamo iniziare ad affrontare con una consapevolezza e complessità di gran lunga maggiori. È un tema di tutti, non soltanto di pochi menti brillanti e addetti ai lavori.

Partiamo da un dato incontestabile: l’AI ha costi enormi. Economici, produttivi, energetici, ambientali. Certo, come singoli individui possiamo chiedere a un large language model di creare un itinerario per le nostre vacanze o di riassumere un lungo testo che non abbiamo voglia di leggere senza pagare nulla, ma non è questa l’AI di cui stiamo parlando. Ciò che ci interessa è l’implementazione dell’Intelligenza Artificiale in sistemi complessi, siano essi istituzionali o aziendali. L’AI che davvero sta cambiando e cambierà sempre di più il mondo è quella che innerva i meccanismi profondi delle nostre società. Quella che è, o per meglio dire sarà, il motore propulsivo di una Pubblica Amministrazione a misura di cittadino, più trasparente e efficiente. Di una sanità meglio organizzata e con percentuali maggiori di utenti presi in carico e di successo nelle cure. Di un sistema educativo più accessibile anche a chi non può permettersi i costi dei percorsi universitari tradizionali. Di un ecosistema di informazioni e conoscenze interconnesse e accessibili in un modo radicalmente più democratico rispetto a quello che ha segnato l’epoca del web.

Ma ciò non accadrà per forza. Non è il destino manifesto e inevitabile dell’AI, ricco di criticità1. Innervare sistemi complessi con l’AI ha costi immani. È, o sarà, tutto questo, soltanto se governeremo lo sviluppo dell’AI verso questi obiettivi epocali. Il che vuol dire avere un piano, e averlo come società, quel mastodontico intreccio di interessi privati, legislazioni, politiche pubbliche. Significa pianificare e dirottare risorse immense, economiche ma anche intellettuali e progettuali, oltre che politiche, per sviluppare nei prossimi anni una visione chiara del futuro nuovo che vogliamo costruire con l’AI, mettendo al centro l’individuo. Potremmo dire: se riprenderemo il cuore del concetto di neutralità della rete e ne applicheremo i principi chiave di equità al contesto di oggi. Ma siamo sicuri che sia ciò che sta succedendo? Che nel 2025 si rifletta e parli abbastanza di governance e progettualità collettiva dell’AI e non, al contrario, che ci si sia appiattiti sulla superficie (e sui miraggi economici) delle mirabolanti promesse che l’AI ha portato nelle nostre società? Una piccola ricognizione della storia del web potrebbe, forse, farci venire qualche dubbio utile per il futuro prossimo.

Per non commettere gli stessi errori fatti col web

Dagli ultimi vent’anni almeno, di Internet abbiamo imparato molto, e a caro prezzo. Una risaputa vittima del web è stata l’idea classica di autorevolezza. Nel mondo liquido e iperframmentato di Internet e in particolare dell’epoca d’oro dei social network, si sono sgretolate le posizioni di rendita tradizionali: dai giornali alle istituzioni, nel bene e nel male la disintermediazione ha rivoluzionato il panorama informativo. Un cambiamento profondo, culturale, di immaginario. Al mondo dai contorni piuttosto ben definiti dell’era pre-Internet si è sostituito un colossale ribollire di punti di vista, opinioni, rifiuti delle interpretazioni canoniche della società. Come sempre, ci sono stati dei vinti e dei vincitori, fragorose cadute degli Dei e ascese di nuovi eroi. Dalle fake news agli influencer, dal mainstream alle sottoculture, la complessità e vitalità senza briglie del mondo globalizzato ha trovato posto nel web, anzi lo ha modellato, a migliaia di immagini e somiglianze.

Quando intervistai Andrew Keen, autore tra gli altri di The Cult of the Amateur 2(Dilettanti 2.0, De Agostini) e di Digital Vertigo3 (Vertigine Digitale, Egea) mi resi conto in fretta di quanto fossero indispensabili punti di vista critici e da insider sui cambiamenti in arrivo. E sottolineo: da insider. Keen era un pioniere della Silicon Valley, non certo un luddista. Un imprenditore del nuovo mondo digitale. Eppure, o forse proprio per questa ragione, argomentava in tempi non sospetti – Dilettanti 2.0 è del 2007 – che il web delle piattaforme di user-generated content avrebbe inondato le nostre società di fumo negli occhi, di opinioni non qualificate destinate ad abbassare la qualità del dibattito pubblico. Tutti avrebbero parlato, commentato, pontificato come fossero diventati d’improvviso medici, ingegneri, avvocati, giornalisti, tuttologi. Tutti evangelist, potremmo dire, ma esclusivamente di sé stessi: del proprio ego esondato in spazi che prima non esistevano, ideati e modellati precisamente attorno a una bulimia di contenuti generati spontaneamente dagli individui istigati a rimuovere qualunque filtro a beneficio dell’obiettivo primario, ossia generare contenuti in quantità mai viste prima, a discapito della qualità, della competenza e, in ultima istanza, della cultura tout court.

Quando sei anni dopo Keen dà alle stampe Digital Vertigo sposta la riflessione su un terreno sociologico e, azzarderei, ontologico. L’era digitale come un grande panopticon, costrutto di benthamiana memoria in cui gli occupanti sono completamente e perennemente visibili all’autorità. Aveva trovato una chiave di lettura per riassumere l’iper-esposizione di sé che avremmo visto all’opera nell’epoca di Instagram e di TikTok. In gran parte del tutto volontaria. A beneficio di un’élite di controllori, che infatti sulla raccolta e vendita dei nostri dati e informazioni ha costruito enormi imperi, realizzando profitti inimmaginabili.  

L’iper-esposizione volontaria – e relativa graticola in cerca dell’approvazione costante degli altri – di cui parlava con grande anticipo Keen è oggi un fatto compiuto nelle nostre società digitali, pienamente e consapevolmente sfruttato dalle pantagrueliche aziende proprietarie delle principali piattaforme e social network. Lo dimostrano gli innumerevoli studi che legano l’utilizzo dei social media a profondi disagi esistenziali e psicologici, specialmente nelle nuove generazioni. Gli esempi sono innumerevoli e autorevoli, dallo studio sugli effetti nefasti di Instagram sui teenager svelato dalla gola profonda di Facebook ai tanti saggi e articoli a tema, così come è interessante e documentato anche il calo dell’attenzione e dei suoi tempi, con effetti pesanti sulle capacità di cognizione, che solo ora si cominciano a studiare. Ma tra i tanti c’è un episodio minuto che credo racconti con una certa crudele nettezza le contraddizioni del mettersi in gioco sul web. Il video divenuto virale di uno sfogo della streamer su Twitch squidinkidink. Quando si assentava dalla diretta, la ragazza aveva l’abitudine di mettere un pezzetto di legno al suo posto, sulla sedia rimasta vuota, che chiamava affettuosamente ‘planky‘. Quando ciò accadeva, cioè in sua assenza, il numero di spettatori saliva notevolmente. E appena si rimetteva al suo posto a parlare, il numero di spettatori tornava a crollare. «Davvero preferite guardare un pezzo di legno, un pezzo di legno!», esclama incredula e offesa, «more than you prefer me

Scena modesta ma che illustra a suo modo l’enorme divario scavato dal web, governato nei suoi meccanismi profondi da colossi digitali alimentati dagli individui stessi, gli utilizzatori divenuti essi stessi prodotto principe dell’era digitale. Il meccanismo oligopolistico sembra replicarsi, almeno nelle sue dinamiche economiche, anche con l’avvento dell’AI. Grandi aziende trainano la rivoluzione, crescendo esponenzialmente di valore, mentre una pletora di società di consulenza incassa in anticipo4, prima ancora che l’AI abbia profondamente e nettamente rivoluzionato le prassi aziendali con benefici tangibili e misurabili. Nel mezzo, gli individui, incerti se abbracciare i nuovi strumenti come una liberazione dai compiti più infimi o se preoccuparsi per il mantenimento del proprio ruolo nel mondo, prima di tutto lavorativo, ma in fin dei conti anche esistenziale, di scopo. È diventato virale il post di una signora che scrive di non volere un’AI capace di fare arte e scrivere al posto suo, così che lei possa avere più tempo per fare il bucato e riordinare la casa, bensì l’esatto opposto: di desiderare che l’AI la alleggerisca dalle attività più infime del quotidiano, per avere più tempo da dedicare all’arte e alla scrittura. Nei termini più semplici possibili, si pone quindi la questione chiave per il nostro futuro come esseri umani. Come la vogliamo usare, questa AI?

Sullo sfondo c’è poi un altro tema enorme: modelleremo un mondo sempre più omologato, un non luogo cognitivo-digitale? Di quasi tutto si può accusare il web, ma non certo di una mancanza, specialmente all’inizio, di originalità: diversità di punti di vista, progetti, visioni sul mondo, innovazioni, piattaforme, aggregazioni spontanee di ogni tipo, dalla Baia dei Pirati al filone open source, i blog, le nuove testate online, le piattaforme peer-to-peer, il gaming indipendente, l’attivismo online. Una simile, vitale e anticonformista spinta dal basso, troverà terreno fertile anche nell’epoca di Chat GPT, Gemini, Claude, Co-Pilot? 

Con lo sviluppo esponenziale di tool text-to-picture come Dall-E e Midjourney e addirittura text-to-video come Sora, Lumiere o Lumen5, iniziano poi ad affacciarsi i primi studi che mettono in guardia sull’eventualità concreta che la diffusione dell’AI funga da tombale normalizzatore non soltanto dei punti di vista e dei contenuti, ma anche dei registri comunicativi, degli stili visivi, dell’idea stessa di storytelling. Senza un utilizzo enormemente consapevole dei nuovi tool espressivi AI, rischiamo tutti di comunicare similmente, così come oggi sembrano dei non luoghi i centri di città distanti migliaia di chilometri l’una dall’altra, ma scanditi dai medesimi negozi, dalle stesse insegne luminose ai quattro angoli del pianeta. Non bastasse, alla dicotomia originalità/omologazione si affianca oggi con urgenza anche quella verità/finzione, messa a ferro e fuoco dal fenomeno dei deep fake: i contenuti generabili con l’AI portano, e lo faranno sempre di più, enormi distorsioni, mettendo in crisi la capacità di distinguere tra il vero, il verosimile e l’apertamente inventato. Dopo l’abbattimento dei confini tra pubblico e privato stiamo dunque giungendo alla potenziale dissoluzione del confine tra reale e immaginato.


Il biglietto da visita di Vint – seconda parte

Note

  1. A. Leonardi, IA: dalla fantascienza all’accelerazione senza controllo, in ‘Equilibri Magazine’, 4 ottobre 2024.
  2. A. Keen, The Cult of the Amateur. How Today’s Internet is Killing Our Culture and Assaulting Our Economy, Nicholas Brealey Publishing, Boston (MA), 2007.
  3. A. Keen, Digital Vertigo: How Today’s Online Social Revolution Is Dividing, Diminishing, and Disorienting Us, St. Martin’s Press, New York, 2012.
  4. A. D. Signorelli, Finora sono le società di consulenza le vere vincitrici della corsa all’intelligenza artificiale, in ‘Wired’, 14 luglio 2024.
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