Metti e togli. Manufatti, malefatte e mancanze su torrenti, fiumi e canali

Autore

Giuseppe Santagostino

Data

19 Settembre 2025

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4' di lettura

DATA

19 Settembre 2025

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Qualsiasi bambino portato ai bordi di un torrente di montagna non ha mai saputo resistere alla tentazione della diga: nel caso dello scrivente si tratta del maggior divertimento che io ricordi, il cui scopo principale è sempre stato quello di creare potenziali canali di irrigazione che si allontanassero di qualche metro per poi rientrare nell’alveo di provenienza.

Acqua e forza di gravità non hanno attratto solo la nostra infanzia ma anche quella del mondo, almeno da quando il Tigri e l’Eufrate sono diventati un unico sistema irriguo grazie alle canalizzazioni e alle dighe destinate a conservare quelle acque per periodi prolungati, o quando sulle piene del Nilo veniva realizzata un’agricoltura eccedentaria coi suoi magazzini.

Altrettanto vero è che molti manufatti, generalmente di cemento, sono stati realizzati nei torrenti di montagna per deviare le acque necessarie ad alimentare mulini o altre macchine e oggi, esaurite quelle utilità così come sono svanite molte delle ragioni che tenevano legati gli uomini alla difficile vita di montagna, quelle costruzioni spesso rudimentali sono rimaste a sfregiare il paesaggio.

Una lodevolissima associazione, supportata dall’Europa (https://damremoval.eu/) si occupa di rimuovere queste brutture da fiumi e torrenti, restituendo al corso degli stessi un andamento non interrotto o deviato, ma soprattutto gradevole.

Sulla doverosa necessità di questi ripristini non esiste nessuna opposizione, meno solidarietà vi è sul principio ideologico che si accompagna all’operazione, ovvero rinaturalizzare i corsi d’acqua sottraendoli alla loro umanizzazione secolare: qui le nostre strade si separano.

Su Equilibri Magazine ho già scritto di come la Natura, quando si tratta di far scendere l’acqua da un qualsiasi sistema montano, sia da maneggiare con cura perché il singolo membro della Comunità Idraulica ha un rapporto complesso con tutti gli altri e, soprattutto, perché è per noi sempre necessario determinare la possibilità dello scorrimento e contestualmente quello dell’accumulo solo se regolato, fuggendo come la peste dagli accumuli naturali: questi, presto o tardi, finiscono in palude.

Vero che il torrente di montagna nella scala delle visioni da Arcadia sta ai primi posti e la trota ivi guizzante colpisce l’immaginazione quant’altri mai. Però quello stesso torrente, una volta circondato da una montagna in abbandono, è ben predisposto ad accogliere l’altrettanto naturale decadimento del bosco, con i suoi tronchi e i suoi rami che ne andranno a ostruire e deviare il corso, ponendosi come primo mattone delle piene che verranno. Le radici naturalmente divelte degli stessi alberi permettono l’infiltrazione delle acque direttamente nel terreno lontano da quelle aste di scorrimento, causando instabilità destinata a ripercuotersi a valle: il tutto, in un susseguirsi di piene e trasporto a valle di detriti. Appena la pendenza cessa di essere sufficiente allo scorrimento si traduce in una corsa via via più lenta, segnata dai depositi e dall’occupazione inevitabile di aree che accolgano quelle piene. Ma anche dove le acque private della forza di gravità decidono di finalmente calmarsi, ovvero nella pianura da noi abitata, regalandoci un ambiente di grande fascino ma incompatibile con qualsiasi urbanizzazione, anche solo agricola.

Ovviamente è fondata l’obiezione se debba o meno prevalere la Natura rispetto a necessità tutto sommato trascurabili, come molte di quelle manifestate dall’uomo. Ma se prendiamo un sistema ampiamente antropizzato come quello della Pianura Padana nel suo tratto finale verso l’Adriatico, non possiamo prescindere dal regime delle acque degli Appennini che vi si scaricano, essendo quella pianura da sempre incapace di ricevere acque in quantità appena superiori a quelle normali: ecco che il regime della montagna diventa immediatamente fratello del regime di pianura e a questo deve venire in qualche modo asservito.

Di più, tra le condizioni principali dell’inospitalità e relativo abbandono delle economie montane vi è sicuramente il difficile reperimento di forme sostenibili di energia destinata a sostenere quelle attività. E tra queste, un ordinato ciclo del legno a partire dalle segherie destinate a rendere in qualche modo produttivi i boschi oggi in stato di abbandono: negare che l’idroelettrico sia la soluzione principale fa molto ecologista con l’adesivo del WWF sulla propria vettura diesel, ma impedisce di vedere come la soluzione più sostenibile sia proprio nella versione 4.0 di quei manufatti di cemento che oggi giustamente rimuoviamo perché orrendi.

Non solo, un vasto sistema di invasi in aree montane, pur assoggettato ai deflussi minimi vitali di qualsiasi sistema fluviale, è di fatto la prima linea di difesa contro le piene improvvise, destinate a far grandi danni a valle. Pur garantendo un elevato standard di naturalizzazione, una politica antinaturale di sbarramenti a uso molteplice è nelle cose.

Come pure è nelle cose che questi invasi non debbano essere uno solo ma due, incrementando così l’intervento umano nelle aree montane: il doppio invaso è la forma più economica ed ecologica per accumulare energia e ottenere riserva idrica di emergenza per l’agricoltura, ovvero due dei grandi problemi che attanagliano il mondo a valle della montagna e che si integrano con le politiche di difesa del territorio.

Nei film che accompagnavano i nostri pomeriggi targati Disney, la risalita dei salmoni lungo i torrenti di montagna canadesi era uno dei più emozionanti. Giova però ricordare che la densità di popolazione del Canada è di 4,2 abitanti al km quadrato, mentre quella dell’Italia è di 196 abitanti per chilometro quadrato. E forse è utile anche ricordare che il benefico uso della carne di salmone nelle diete occidentali è alimentato quasi esclusivamente da infamissimi allevamenti intensivi. Quand’anche volessimo ripristinare il meccanismo di risalita pro-deposizione, il risultato in termini produttivi sarebbe nullo, mentre i costi ambientali sopportati dall’intero sistema ecologico monte-valle sono quelli delineati.

Come per la maggior parte delle questioni ecologiche non è possibile assumere la parte per il tutto, in una erratissima sineddoche per cui l’ottimo del microcosmo corrisponde necessariamente a quello del macrocosmo. L’organismo dei viventi, uomo compreso, necessita di essere nell’equilibrio più sostenibile possibile in ogni sua singola parte.

Dove l’uomo è assente o poco presente, l’andamento naturale del ciclo idrico finisce inevitabilmente in palude o in deserto: ambienti ricchi di fascino e di vita, ma come dimostra la lotta secolare degli italiani di ogni latitudine contro le plaghe malariche costiere, anche incompatibili con la presenza di città e attività la cui millenaria presenza non può venire eliminata come esogena alla Natura, essendone nel mentre diventata ordinata parte (non senza evidentissimi disordini e abusi).

Nel recupero del paesaggio, il fatto che le acque debbano ordinatamente scorrere e altrettanto ordinatamente poter/dover venire invasate è un assunto ineliminabile su cui costruire un equilibrio ecologico maturo: il laissez faire, così come molte volte non è una valida soluzione nelle attività umane, così non lo è in quelle naturali.

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