Vivere nello Chthulucene. Donna Haraway interprete dei tempi geologici

Complicare le rassicuranti narrazioni lineari. Creare concetti che generino connessioni nuove. Ampliare i confini dell’immaginazione. Evocare un non-ancora carico di potenzialità future

Autore

Nicola Manghi

Data

25 Novembre 2024

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6' di lettura

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25 Novembre 2024

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Questo articolo ha l’obiettivo di ricostruire genealogia e poste in gioco dello Chthulucene, un concetto che Donna Haraway ha proposto per piegare le traiettorie di implicazioni che sembrano andare associate a quello di ‘Antropocene’, sorto come nome alternativo per l’epoca geologica in corso e poi divenuto oggetto di un dibattito che ha attraversato i confini accademici e disciplinari. Come vedremo, nella proposta harawayana ne va di una pragmatica del concetto, più che di una limatura delle sue forme. In questo senso, la critica harawayana dell’Antropocene rappresenta la continuazione con altri mezzi e la riproposizione all’interno di altre congiunture dell’innovazione concettuale a cui il suo nome è più comunemente associata, vale a dire il cyborg. Assumendolo quale soggetto di un pensiero femminista, all’inizio degli anni Novanta Haraway aveva investito questo «ibrido di macchina e organismo […] che appartiene tanto alla realtà sociale quanto alla finzione» del ruolo di «trasforma[re] quello che conta per esperienza delle donne alla fine del Ventesimo secolo»1. In maniera in fondo non dissimile, lo Chthulucene ha l’ambizione non tanto di rinominare l’epoca corrente, quanto di riformare il rapporto che con essa intratteniamo. Ma partiamo dall’inizio, risalendo alle circostanze che condussero alla proposta dell’Antropocene. 

Antropocene

Nel febbraio 2000, a Cuernavaca, Messico, si teneva una conferenza dell’International Geosphere-Biosphere Programme (IGBP) destinata a rimanere nella storia. A un certo punto del convegno, Paul Crutzen, chimico dell’atmosfera olandese insignito del premio Nobel cinque anni prima, interruppe stizzito il chair della sessione a cui partecipava: non poteva più sopportare di sentire correntemente impiegato il termine ‘Olocene’ per nominare l’epoca geologica corrente. Secondo le ricostruzioni, esclamò: «We are now in the Anthropocene!». Il termine impressionò immediatamente i presenti. Finita la conferenza, Crutzen scoprì che un collega, il biologo Eugene Stoermer, lo aveva già coniato e lo impiegava informalmente sin dagli anni Ottanta. Pochi mesi dopo, il bollettino dell’IGBP pubblicò un breve articolo a firma congiunta dei due, che può essere considerato come il debutto ufficiale dell’Antropocene nel dibattito scientifico. Crutzen e Stoermer scrivevano che la proposta del termine intendeva «enfatizzare il ruolo centrale dell’essere umano nei processi geologici ed ecologici»2, con un riferimento specifico alla crisi ecologica contemporanea. Pur dicendosi «consapevoli che sarebbe possibile avanzare proposte alternative», i due autori suggerivano così di collocare il debutto dell’Antropocene verso «l’ultima parte del XVIII secolo», perché «nel corso degli ultimi due secoli gli effetti globali delle attività umane sono divenuti chiaramente evidenti»3, e facevano riferimento, come data simbolica, al 1784 in cui James Watt brevettò la moderna macchina a vapore. 

Si apriva così un dibattito spinoso, ovvero quello circa la datazione dell’Antropocene e l’individuazione specifica delle catene causali che lo avevano provocato. La questione era destinata ad ampliarsi, come vedremo tra poco, fino a portare a critiche radicali del concetto. Qualunque tentativo di distinguere tra poste in gioco ‘epistemiche’ e ‘politiche’ all’interno di questo dibattito appariva subito destinato al fallimento. Dietro ai golden spikes che s’ipotizzava d’identificare nella stratigrafia –ovvero i punti dove si sarebbe indicato il limite fra due piani della scala cronostratigrafica standard globale, corrispondenti a due periodi geologici– risiedevano interpretazioni della storia umana e del suo rapporto con il pianeta destinate a creare discordia. Prendiamo a esempio le proposte che postulano un Antropocene ‘lungo’, ipotizzando di retrodatare l’inizio della nuova epoca geologica di svariate migliaia di anni, ponendo enfasi su un momento in cui gli effetti cumulativi della diffusione dell’agricoltura su larga scala iniziarono a produrre conseguenze sul sistema climatico globale. Per quanto possa essere interessante realizzare retrospettivamente la scala già globale delle implicazioni ecologiche della cosiddetta rivoluzione agricola, se a giustificare la proposta di rinominare l’epoca geologica in corso è un processo iniziato migliaia di anni fa, l’effetto è quello di provincializzare – se non occultare – la rivoluzione industriale e i suoi effetti nel produrre la crisi ecologica contemporanea, e dunque di dar luogo a un discorso che rischia di farsi complice dei negazionismi del riscaldamento globale.

Ma il problema era più generale, e in qualche modo intrinseco alla proposta stessa dell’Antropocene. Chi è, in effetti, l’antropos che sarebbe assurto d’improvviso al rango di attore geostorico? Se si tratta della specie umana, la cui capacità di agire in fondo ‘naturale’ avrebbe raggiunto dimensioni di una scala inedita, sancire nell’istituzione di una nuova epoca geologica la sua implicazione con una crisi ecologica che ha già cominciato a sconvolgere gli equilibri climatici globali significa in ogni caso attutire la caratterizzazione politica di quest’ultima, facendone qualcosa di simile a un destino per un animale così ingombrante. Ma come sarebbero implicate nell’origine della crisi ecologica in corso, per esempio, i popoli indigeni dell’Amazzonia, o gli abitanti delle isole del Pacifico minacciate dall’innalzamento del livello del mare?

Criticare l’epoca

È proprio proseguendo questo lavoro d’interpretazione critica dell’epoca che Haraway ha finito per interessarsi al dibattito sull’Antropocene. Benché – come stiamo per esaminare – Haraway si esprima duramente contro l’Antropocene, questo termine non è bandito dal suo vocabolario, giacché, come lei stessa ha scritto, «continueremo ad aver[ne] bisogno»4. Come in altri frangenti, d’altronde, è suo interesse non tanto soppiantare una nozione con un’alternativa, bensì ampliare i confini dell’immaginazione, creare concetti che generino connessioni nuove complicando le narrazioni lineari. Haraway parte innanzitutto da un punto di vista femminista: «La storia dell’Uomo Specie come agente dell’Antropocene è una replica quasi ridicola della grande Avventura fallica umanizzante e modernizzante in cui l’uomo, fatto a immagine e somiglianza di un dio scomparso, assume nella sua ascesa sacro-secolare dei superpoteri, solo per finire nell’ennesima, tragica detumescenza»5. Allo sguardo di genere, però, Haraway ne abbina uno solidamente materialista, trovando un alleato nello storico marxista Jason Moore, celebre per aver proposto il concetto di Capitalocene. Rifacendosi a Immanuel Wallerstein, Moore ha sviluppato i lineamenti di un’«ecologia mondo» che considera lo stato di cose presente come l’esito di un processo cominciato nel 1450, ovvero col debutto del «lungo XVI secolo» braudeliano, segnato dall’espansione coloniale europea e dallo sviluppo capitalistico su larga scala. 

A differenza di quanto potrebbe apparire a un esame superficiale, il Capitalocene non intende ridurre la crisi ecologica contemporanea a episodio interno alla storia del capitalismo, quanto piuttosto mostrare come quest’ultimo sia stato sin dagli esordi un «modo di organizzazione della natura»6, oltre che un principio di organizzazione dei rapporti di produzione. Pur reputando il Capitalocene una risorsa preziosa, tuttavia, Haraway intravede la possibilità che anch’esso si tramuti in una grande narrazione capace di produrre effetti discorsivi in ultima istanza non dissimili da quelli della nozione che pretendeva criticare. La posta in gioco della questione è più profonda. Come detto, d’altronde, lo sforzo di Haraway non ha mai riguardato la capacità dei concetti di volta in volta forgiati di rappresentare accuratamente la realtà, quanto la loro efficacia nel cambiare il rapporto con essa. Impiegando il suo lessico, si direbbe che la sfida è quella di passare dalla logica politica della «rappresentazione» a quella dell’«articolazione». Nel caso dell’Antropocene, si tratta di andare oltre una semplice imputazione della crisi ecologica a un soggetto storico (l’umano-specie, il capitalismo, etc.), riformulando piuttosto il gesto stesso che la nozione vorrebbe produrre. È in queste circostanze e sotto questi auspici che nasce la nozione ambigua e misteriosa di Chthulucene.

A dispetto di quanto si potrebbe essere indotti a pensare, il termine non è ispirato dalla creatura lovecraftiana, bensì da un ragno, Pimoa cthulhu, che abita sotto i tronconi delle sequoie californiane nelle zone vicine a dove Haraway vive. D’altronde, se lo scopo non è rappresentare la cupezza di un’epoca catastrofica, bensì enfatizzare il mondo di connessioni all’interno del quale solo si potrà cercare i germi di un futuro migliore di quello oggi a disposizione, «il ragno è una figura assai più adeguata di qualsiasi vertebrato su gambe preso da un qualunque pantheon». Per indicare il processo fondamentale che anima questa dimensione di promettente trasversalità di relazioni inattese, Haraway impiega il termine «simpoiesi», riprendendo criticamente l’«autopoiesi» di Maturana e Varela: piano di una radicale co-creazione, la terra non si fa da sé, né tantomeno può dirsi alla mercè di un antropos assurto a forza geologica, ma risulta dall’azione congiunta di tutte le creature che, abitandola, la compongono. 

A differenza dei concetti di Antropocene e Capitalocene, allora, lo Chthulucene è situato e incorpora un punto di vista specifico e singolare. Soprattutto, non è un tentativo di nominare in maniera oggettiva i processi che caratterizzerebbero il tempo presente, bensì un termine speculativo che vuole evocare «un altrove e un altroquando che è stato, è ancora, e potrebbe essere in futuro». Per questo motivo, lo Chthulucene resiste alla datazione e alla periodizzazione, e, mentre sposta il problema, disloca anche le risorse evocate per rispondervi.

Conclusione

Nel marzo del 2024, dopo un lungo processo di valutazione, la International Union of Geological Sciences ha pubblicato un comunicato annunciando che l’Antropocene non sarebbe – quanto meno per il momento – stato inserito nella scala dei tempi geologici. Molte e molti hanno reagito con sconforto alla notizia, che pareva restituire l’immagine di una scienza che perdeva contatto con le sfide concrete poste dal mondo. La critica harawayana di cui abbiamo seguito il filo invita alla pazienza, ma forse soprattutto a cercare altrove i segnali a cui lasciar orientare speranze e timori. Non perché lo Chthulucene pretenda di soppiantare l’Antropocene, ma perché vi si somma, aggiungendo al suo pianeta umanizzato uno strato geologico ulteriore che rende impossibile, negli stratti sottostanti, distinguere il naturale dall’artificiale, la roccia dalla storia. Nello Chthulucene, la condizione simpoietica viene eletta a orizzonte etico, etologico e politico di un agire più-che-umano. Si tratta allora di stringere alleanze e al tempo stesso di romperne, di divenire-con e proseguire-senza. «Tanti problemi, tante parentele con cui andare avanti»7.

Note

  1. D. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano 1995, p. 40.
  2. P. J. Crutzen, e E. F. Stoermer, ‘The «Anthropocene»’, in IGBP Newsletter, n. 41, May 2000, pp. 17–18.
  3. Ibidem.
  4. D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, NERO, Roma, 2019, p. 74.
  5.  Ivi, p. 75.
  6. J. Moore, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria, Ombre Corte, Verona, 2017.
  7. D. Haraway, Chthulucene Sopravvivere su un pianeta infetto, cit., p. 21.
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