Riflettendo sull’ultimo film del regista svedese Östlund – Triangle of Sadness, cruda critica al malessere sociale del terzo millennio e relative tangibili disuguaglianze – un capitalismo finanziario e tecnologico, che appare sempre più avido e aggressivo, può essere indicato come la causa di buona parte delle sofferenze e dei disagi della società contemporanea. E comprende la polarizzazione economica che genera disuguaglianze crescenti, di certo non adatte a traghettare un mondo carico di otto miliardi di persone verso un equilibrio universale quanto mai necessario.
Il film in questione è una moderna tragedia greca che, divisa in tre parti, ci guida con sapiente climax change a un epilogo catartico.
Ma trattasi di finale aperto: la scelta, in fondo, spetta a noi.
Al di là della decisione, scudo imponderabile nell’animo dello spettatore, ineluttabile sarà il futuro che ci attende, oltre la porta metallica di un ascensore di un lussuoso resort marittimo. La posta in gioco è la modalità di sopravvivenza dell’umanità nel terzo millennio.
Perché?
Perché dietro al setting esotico dell’ultimo episodio della pellicola giace un dilemma mai così attuale, che tiene insieme analisi sociologiche e utopie filosofiche. E sarà forse un caso, o comunque un’abile intersezione del destino, che, nello stesso mese e nello stesso anno, sia stato pubblicato anche il saggio Neoplebe, classe creativa, élite della coppia Perulli-Vettoretto, rispettivamente sociologo e urbanista molto conosciuti tra gli addetti ai lavori.
Nel finale dell’ultimo episodio del film, infatti, la rappresentante della Neopblebe è indecisa se uccidere la modella, naufragata insieme a lei; timorosa che, trovando il salvifico aiuto degli abitanti del resort, si possa spezzare la malia che ha gettato sul compagno di lei, e possa ritornare alla sua posizione subalterna.
Situazione opposta per la modella, rappresentante in qualche modo (mutatis mutandis) della Classe Creativa, che naturalmente vuole ritrovare il suo stadio ‘originario’.
Come uscire da questa impasse?
Un nobile tentativo lo compiono, appunto, Paolo Perulli e Luciano Vettoretto i quali, nel libro già citato, caldeggiano, a più riprese, un’alleanza inedita proprio tra Neoplebe e Classe creativa.
Ebbene sì, perché per scalzare l’Élite dalla sua posizione di comando, che «ha potere ma non sapere», la Classe Creativa, in continua crescita (e in Italia addirittura meno rispetto ai paesi del Nord, in primis il Regno Unito), deve per forza cercare un’alleanza con i settori più produttivi della sua stessa classe, ma soprattutto con la Neoplebe. Ma come?
Ecco tre passaggi schematici:
1) prendere autocoscienza della propria natura di nuova classe, che può essere protagonista in questo inizio di millennio;
2) unirsi alla Neoplebe per scardinare l’oligopolio dell’Élite;
3) uscire dalle piattaforme online e agire nella pratica.
Esplodendo e approfondendo queste tre direttrici possiamo affermare che la Classe Creativa dovrebbe e potrebbe prendere il potere, ma solo a patto di una presa di coscienza di ‘classe’ – ossia quella di essere e appartenere a un proletariato cognitivo che regala continuamente il proprio sapere ai ‘potenti’ della classe elitaria. Non è proprio una novità: dalle cantonate prese da figure sulla cresta dell’onda più di vent’anni fa come Richard Florida sulle meravigliose e progressive sorti della classe creativa, prendendo a modello la città di San Francisco (andateci oggi per vedere come il suo teorema non abbia funzionato) a intellettuali come André Gorz nel suo Immateriale. Il sapere, secondo lui, non porta soldi né potere: assioma rovesciato, ascensore sociale fermo in molte parti dell’Occidente.
L’Élite, infatti, si nutre di questo sapere donato tramite ricatto sociale; senza di esso non potrebbe essere classe dirigente.
Di conseguenza, non potendo certo attuare da sola questa micro-rivoluzione, la Classe creativa dovrebbe allearsi con la Neoplebe, provando gramscianamente a ‘educarla’ – sensibilizzandola, senza atteggiamenti classisti, tra le tante altre cose, alla cura dei beni comuni e all’emergenza climatica.
Ma c’è un problema, enorme.
È un tema universale? O solo occidentale? O esclusivamente italiano?
Di sicuro, per rimanere nei nostri lidi, la politica italiana attuale non capisce o non ne vuole capire di parlare a questa classe; manca completamente un paradigma di riferimento contro un capitalismo, prima, finanziario, e poi, tecnologico.
Tuttavia questa è senza dubbio la Classe del futuro, non solo in Italia – dove soffre anche di altre patologie, più complesse.
Chi prima lo comprenderà, prima conquisterà una nuova egemonia politica. Di nuovo, non solo in Italia; e non solo in Occidente.
Nel frattempo, i giovani formati dall’accademia italiana oggi migrano per circa il 20% della loro densità, cifra che cresce ogni anno.
Altro segmento di riflessione: il capitalismo cognitivo, e sempre più immateriale, produce molti servants al servizio della classe creativa. Un’altra sacca da tenere in considerazione. A questo si aggiunga che molti creativi vengono cooptati dalla pubblica amministrazione per svolgere mansioni ripetitive e ben al di sotto delle loro qualifiche. Anche tale miscuglio crea agitazione, disagio, insoddisfazione e financo quel nietzscheano ressentiment della base verso la cuspide della piramide sociale. Di certo l’ansia (o il senso di colpa) di genitori, quasi sempre con pensioni buone se non eccellenti, si spalma sulle generazioni di figli e nipoti, che non vedranno mai i loro stipendi ma pagheranno i loro lauti retirements, mentre la prospettiva di vita media aumenta, in Occidente, di tre mesi l’anno; e le patologie croniche di anziani e vecchi (se così possiamo ancora chiamarli) costano sempre di più. Pensioni marcatamente differenziate, perché chi ha lavorato come dipendente – soprattutto nello Stato e nelle istituzioni ed enti pubblici – gode di ben altre risorse rispetto ai creativi del dopoguerra, artigiani in primis.
D’altronde, l’Italia del terzo millennio è più che mai gravida di disuguaglianze. Basti pensare che il rappresentante medio del Belpaese è maschio, bianco, anziano e poco scolarizzato. In tutto questo, poi, i sindacati difendono solo i rappresentanti medi di cui sopra, rancorosi contro immigrati e giovani, tutelati a Sinistra e votanti a Destra.
Può sembrare pletorico, ma utile, ricordare infine che l’Italia è altresì lo stato più vecchio del mondo, dopo il Giappone.
Un panorama a dir poco sconfortante.
Che fare?
Insomma, il capitalismo cognitivo, finanziario e tecnologico ha vigorosamente avvantaggiato l’Élite e inficiato Classe creativa e Neoplebe – innervando la seconda, come accennato poco fa, del germe dell’invidia sociale, del risentimento e del rancore.
L’unica soluzione possibile, secondo gli autori del libro, appare, in Italia come in Europa, l’alleanza tra la Classe creativa e la Neoplebe, al fine di sostituire l’Élite al potere. Perché la classe creativa è e sarà la vera protagonista del nuovo millennio, pena un pesante arretramento di diritti sociali e civili.
Non è pretestuoso utilizzare come inno il mantra di Marx e Engels, perché (se la vera energia rinnovabile di questo nuovo millennio è il Sapere) i nuovi operai, molto meno tutelati di quelli originali, sono i creativi under 35: un ‘proletariato cognitivo’ di sfruttati, vessati, stressati, che vendono o regalano all’Élite il loro sapere ad alto grado di formazione, una sorta di plusvalore immateriale per poter sopravvivere in condizioni tali da non poter pensare di perpetuare la specie umana. Partite IVA indipendenti, più di nome che di fatto, che non posseggono né rendite né assicurazioni. In questo senso, sicuramente, il connubio tra salario minimo e reddito di base è una conditio sine qua non per questa rivoluzione sociale; ma siamo ben consci che, senza un’adeguata formazione e sensibilizzazione alla nuova ontologia del lavoro nel XXI secolo, sarà tutto inutile.
Hegel diceva: il lavoro forma; e solo così lo schiavo esce dalla dialettica.
Ma adesso che il lavoro non forma più, e di sicuro non in Italia (e non regala più l’illusione di un’identità), allora reitera solamente una dinamica precaria.
Si è rotta l’equazione del ‘900, ossia lavoro=identità sociale ed economica. Come abbiamo scritto anche in questo altro articolo.
I proletari della conoscenza hanno molto sapere ma nessun potere, e l’Algoritmo è la reificazione di una sperequazione sociale e professionale ormai acclarata, ancorché sempre più universale.
I prosumer digitali operano una vera e propria ‘servitù volontaria’.
Appare, inoltre, molto probabile che l’Intelligenza Artificiale toglierà ancora altri ruoli ai proletari della conoscenza. Mentre la politica, nella sua versione sempre più lontana dai cittadini, continua a esercitare il potere – e soprattutto a prendere decisioni – senza neanche curarsi di sapere e di conoscere.
Si dovrebbe (dovremmo?) guardare al bene collettivo e non solo alle proprie pseudo-realizzazioni personali, e smetterla di accontentarsi (accontentarci?) delle briciole del proprio lavoro intellettuale di cui si pasce e si appropria l’Élite (non riconoscendone neppure il possesso di questi lavori).
In questo senso, occorre al più presto attivare diversi modelli di partecipazione agli utili e in ottica di sostenibilità sociale e ambientale.
Sempre seguendo il filo del discorso tracciato dall’elenco numerato, un altro annoso problema è che anche chi verga in parte questo articolo, reo confesso, si limita a fare il ‘grillo parlante’ su un magazine online – come giustamente paventano gli autori del saggio; che a loro volta, forse, la praxis non l’hanno mai davvero considerata – e invece dovrebbe, come gli altri proletari della conoscenza, attivarsi nelle strade e nella pratica tridimensionale per modificare lo stato delle cose anziché crogiolarsi nella propria marginalità individuale e individualista.
La politica è fatta, anche e soprattutto, di alleanze: occorrono dei buoni sodali per informare la società di questo cambiamento.
Con chi allearsi, ordunque? Con la Neoplebe, come detto a più riprese; e, in particolare, con i giovani ‘professionals’ della gig economy (un esempio proletario per tutti: i riders del Food Delivery); con i lavoratori delle industrie in via di automazione; con le donne del sociale, della sanità e del mondo scolastico. Dove proletario deriva da prole, fonte prioritaria di ricchezza fino a qualche decennio fa nella storia dell’umanità. Ma oggi, almeno in Occidente, simbolo primario di impotenza sociale e politica.
Serve una nuova generazione politica e nuovi spazi di attivazione comunitaria. Poiché la democrazia o si manutiene (e mantiene) con cura o viene divorata dai suoi demoni.
La spiaggia finale del film di Östlund, per esempio, è una metafora di questi nuovi spazi: che, da possibile teatro di un massacro, dobbiamo trasformare in un palcoscenico di ‘futura umanità’.