Il Lavoro e un nuovo Millennio. Alcune considerazioni.

Qualche riflessione circa le varie aporie legate al lavoro e al rapporto con le mutate condizioni socio-esistenziali del Terzo Millennio.

Autore

Alessandro Isidoro Re, Nicola Zanardi

Data

20 Dicembre 2022

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6' di lettura

DATA

20 Dicembre 2022

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L’Italia è non solo penultima nel tasso occupazionale europeo 1 ma anche penultima come numero di laureati 2 – e prima, invece, come tasso di evasione fiscale 3. Se non c’è correlazione diretta, naturalmente, rimane interessante provare comunque a riflettere su segmenti, giunture e proiezioni di questo prisma delle Bermuda che inghiotte sogni, aspirazioni e mobilità sociale soprattutto a discapito delle nuove generazioni e, specialmente, delle donne e delle categorie più fragili. Fette di popolazione che un paese civile, se davvero vuole operare e legiferare nel solco di uno sviluppo sostenibile, dovrebbe maggiormente salvaguardare. Ne abbiamo già parlato qui.

Dentro questo ginepraio di vulnera e disuguaglianze giace altresì la mancata formazione di figure professionali adeguate in un mercato paradossalmente magmatico e in perenne fermentazione. Le università dovrebbero intraprendere un percorso di profonda trasformazione e adeguamento alle necessità contingenti. Ancor prima, lo Stato (più che le istituzioni territoriali) dovrebbe incentivare e supportare quei piccoli centri del sapere – urbani e periurbani – che non solo formano o potrebbero educare a lavori più verticali ampie schiere di giovani, ma che altresì fungono da preziosissimi sensori di fragilità e mitigazione delle stesse, nonché di baluardi della relazione e della cura, che fanno della prossimità 4 – con buona pace della Didattica A Distanza (DAD) – il vessillo di una vera innovazione sociale. Innovazione progettuale che dev’essere, dunque, ben massaggiata sin dalle prime dinamiche di scolarizzazione, per un’educazione al valore delle risposte vere ai bisogni primari di tutte le latitudini dell’ecosistema sociale in cui si abita, si dimora, si elaborano percorsi di vita.

Dal punto di vista della situazione post-universitaria, invece, anche se, come già accennato, l’approccio dovrebbe essere sempre più sistemico e ‘olistico’, occorre come sempre provare a tratteggiare un’analisi culturale e in, qualche modo, filosofica. Se possiamo, infatti, definire il ‘900 come il secolo dell’hardware, dei contenitori di saperi, dell’equazione perfetta tra identità e lavoro, il Terzo Millennio nasce subito nella scia dell’immaterialità e del ‘contenuto’. Tra i bardi di questa nuova Era, invero uno dei più lucidi, il filosofo André Gorz decide proprio di affidare all’aggettivo ‘immateriale’ il titolo di uno dei suoi saggi più riusciti e incisivi.


Nasce l’economia della conoscenza, e porta con sé una duplice valenza: da un lato la famosa flessibilità e un senso di aumentata collaborazione orizzontale tra i proletari della conoscenza, in un’ottica meta-comunitaria; dall’altro, la reperibilità senza soluzione di continuità, e la finanziarizzazione antropologica dell’essere umano che da bipede implume (così definito da Platone) diviene ora, con epitome altrettanto sapida, una S.R.L. deambulante. Il celebre crisma di ‘Imprenditore presso sé stesso’ nasconde più verità di quanta arguzia vogliano mostrarne i saggi critici con i loro brillanti strali. 

Il rischio, paventato con acume dagli aedi scettici come Gorz, si è poi fatto realtà, reificando tutte le aporie di un sistema che in Italia – il secondo paese più vecchio del mondo dopo il Giappone – non offre, agli Under 35, strumenti consoni d’indipendenza professionale. Anche l’esiziale emergenza causata dalla pandemia di Covid 19, che ha accelerato il processo di digitalizzazione del mondo del lavoro nostrano (fino ad allora parecchio paludato), con effetti benefici anche sull’ambiente, vista la riduzione di produzione di agenti inquinanti direttamente proporzionale al numero degli spostamenti, non ha tuttavia costruito un habitus strutturato alla virtuosità del lavoro da remoto.

Ben lungi dall’essere smart – epiteto che dovrebbe spettare soltanto alla qualità delle operazioni, mai alla loro modalità – il lavoro remotizzato dovrebbe forse essere affrontato con vari layer di piattaforme e postazioni professionali che agevolerebbero davvero una multidisciplinarietà ormai cogente e un ‘Lifelong learning‘ imprescindibile nell’ottica di un millennio basato sulla formazione continua.

Great Resignation e/o Quiet Quitting sono poi termini e slogan da abbracciare con cautela. Il primo è un fenomeno statunitense, in seno a un mondo del lavoro ben diverso da quello europeo, e ancor di più da quello italiano, che è forse un po’ rischioso tradurre nelle nostre farraginose dinamiche professionali, anche se, da alcune ricerche, i numeri confermerebbero che, nel 2021, una forte flessione c’è stata. Il secondo è stato giustamente tradotto come ‘fare semplicemente il proprio lavoro’: che è in fondo l’antidoto suggerito, tra le righe, dallo stesso Gorz, allorquando esorta i giovani proletari della conoscenza a non soccombere a quelle mansioni che, oltre a non offrire emolumenti adeguati, non appagano nemmeno passioni e pulsioni dell’Essere Umano in questione. Il quale, come caratteristica secondaria, può essere anche un lavoratore o lavoratrice.
Per una panoramica più dettagliata, tuttavia, non possiamo non citare celermente altresì le ‘5R‘ che gli studiosi hanno identificato, in questi ultimi anni, nell’analisi del fenomeno delle cosiddette ‘Grandi Dimissioni’: Retirement, Relocation, Reconsideration, Reshuffling, Reluctance.

Da un punto di vista millennial e zedder – ossia persone al di sotto dei 35 anni – a causa della disintegrazione di quella equazione lavoro = identità, citata poc’anzi, viene data maggiore importanza e attenzione alla diversificazione liquida degli orari di lavoro, e dei loro setting, e all’equilibrio tra vita privata e professionale, con una spiccata sensibilità alla variazione ed eterogeneità di occupazioni, ancorché sotto uno stesso cappello semantico, piuttosto che alla quantità del denaro derivante dal lavoro stesso. In poche parole: i ventenni e i trentenni cominciano a chiedersi perché lavorino e che senso abbia il lavoro – in una società in cui la finanza non ha certo bisogno di forze e competenze per produrre, se non in dosi omeopatiche. Mentre, prima del 2000, questo non accadeva.

A tal proposito, una lista di dati significativi, concernenti l’occupazione giovanile e la cosiddetta fuga dei cervelli: 5,8 milioni gli italiani residenti all’estero, di cui 1,2 milioni Under 35; il 42% dei giovani che lasciano – per vari motivi – il nostro Paese non ha intenzione di farci ritorno (fonte: Rapporto Migrantes 2022); 29,3 è la percentuale dei NEET, giovani che non studiano né lavorano, 21,2 % è il tasso di disoccupazione giovanile, mentre 33% sono i giovani senza un lavoro stabile (fonte: ISTAT 2022).
Per non parlare degli stipendi: in Europa, solo la Spagna ha un tasso di stipendi Under 25 inferiore a quello italiano – a fronte di un costo della vita abbastanza simile. Ma, ed è un’avversativa che pesa come un macigno, l’Italia è l’unico stato europeo dove gli stipendi sono diminuiti dal 1990.

La flessibilità e la remotizzazione professionale conducono naturalmente a una connessione continua, seguendo il concetto di onlife, partorito dal filosofo Luciano Floridi, ormai entrato nelle nostre interlocuzioni quotidiane. E da questo problema nasce il bisogno di un diritto, in questo caso il ‘diritto alla disconnessione’ – che vada a mitigare il mantra postfordista work anytime anywhere. Come regolamentare una problematica così fluida come quella che intercorre nei rapporti di comunicazione professionale digitale? Probabilmente questo è uno dei nodi di maggiore interesse nella dialettica contemporanea; nonché uno dei più complessi da sciogliere. Tanto da creare un neologismo che ben indica questa sperequazione tra vita e lavoro: il concetto di time porosity, infatti, intende significare e indicare proprio l’osmosi tossica tra ‘spaziotempo’ personale e spaziotempo professionale. Il parossismo della remotizzazione diviene, dunque, un eterno sgocciolare dell’orario salariato, attraverso i fori creati dalle lacune contrattuali, nei momenti di quotidianità privata.

Alcune semplici soluzioni possono essere offerte da piattaforme di lavoro collettivo remotizzato per limitare lo scambio di informazioni anche a orari prestabiliti – impedendo, tramite accordi scritti, di utilizzare altri strumenti come le applicazioni di messaggistica istantanea sfruttate per la vita personale. Se la remotizzazione del lavoro ‘regala’, infatti, maggiore libertà esistenziale al prestatore di lavoro, il lavoro stesso  rischia tuttavia di dilatarsi fino a 48 ore in più alla settimana rispetto all’orario standard. Un rimedio diretto, invece, potrebbe essere quello di erogare un rimborso fisso, per lenire i costi vivi del lavoro da remoto (casa, bar o coworking). È proprio quello che ha fatto il Belgio, il quale – da febbraio 2022 – non solo ha messo a terra la ‘disconnessione tecnica’ per 65.000 dipendenti della pubblica amministrazione, per evitare che il remote working si trasformasse in una forma di reperibilità costante,  ma ha altresì implementato – dal marzo 2021 – un rimborso mensile di 130 € per i dipendenti che lavorano da ‘casa’ (atto a coprire le spese vive dell’abitazione).

Constatando i fallimenti di manovre troppo rozze e, talvolta, sfruttate in senso negativo, come l’alternanza scuola-lavoro, una riforma lucida, ragionata e, azzardiamo, intelligente del mondo del lavoro italiano dovrebbe necessariamente ri-partire da un rovesciamento di paradigma della formazione basilare delle nuove generazioni, a partire da un rinnovamento drastico e radicale  della comunicazione sugli e per gli istituti tecnici. 

Anche in questo modo, se accompagnati da operazioni di welfare più lungimiranti, che non pensino solo agli over 50, e politiche demografiche non demagogiche ma munite di visione pluriennale, si potrà, forse, sperare in una ripresa del tasso di occupazione e scolarizzazione. In questo quadro complesso, come ulteriore sfida, s’inserisce altresì la questione del tasso di occupazione femminile – ancora molto basso in Italia.

Infine, un pizzico di contraddizione. La decantata automazione, se avverrà – come avverrà 5 – presidierà sempre più posti di lavoro, soprattutto quelli più ‘manuali’ e ripetitivi.  Alienanti,  diceva  un certo Marx. Ebbene, i professionisti che, finora e ancora, si occupano di suddette mansioni dovranno comunque avere un ruolo nell’ecosistema sociale. Non si potrà allora scindere il discorso e il ragionamento sul futuro del lavoro da quello economico, legato in particolare ai temi di sussistenza e supporto a quelle categorie che, volens nolens, un lavoro non lo avranno più o mai. La riflessione su  un vero Reddito di Base Universale deve marciare di pari a passo rispetto alle considerazioni fin qui tessute. In Italia, con il nostro Reddito di Cittadinanza in salsa ‘5 stelle’, siamo in ritardo: non solo i criteri di eligibilità sono più stringenti rispetto ad altri paesi europei  (per esempio, la cittadinanza), ma è l’impianto stesso a non tenere conto delle varie e complesse sacche di povertà, focalizzandosi, per esempio, sui singoli invece che sui nuclei famigliari. E il famigerato ‘salario minimo’ – presente ormai anche in Germania – dovrebbe essere un elemento di concerto con il Reddito di Cittadinanza, e non comporre un aut aut difficile da comprendere.

È necessario e vitale, dunque, un cambio di forma mentis millenario, per lavorare ‘meglio’ (e non per forza ‘meno’) e lavorare in ‘tanti’ (e non per forza ‘tutti’).

Anche per ribaltare il mantra di Aristotele, secondo il quale l’Uomo si sarebbe inventato il lavoro per guadagnarsi il tempo libero. Perché doversi guadagnare il tempo libero? Perché faticare a prescindere? Perché produrre sempre e comunque? Perché, in fondo (citando il cinquantesimo anniversario del rapporto del Massachusetts Institute of Technology  ‘Limits to Growth’ del 1972 6) focalizzarsi sul mito della ‘crescita’?

Le morali vetuste e clericaleggianti possiamo ormai metterle alle spalle, e principiare una sana filosofia dell’Essere Umano. Il che non vuol dire antropocentrismo, si badi bene, ma coabitazione etica e responsabile con e per la Natura, abitante primaria e originale della nostra casa comune, il pianeta Terra.

Se la sostenibilità è, come è, passaggio di conoscenze e strumenti alle generazioni future, un dono fondamentale è la decodificazione di questo mutamento epocale verso una vita professionale più legata al riuso e al mantenimento equilibrato piuttosto che a una favoleggiata crescita perpetua.

Lo sguardo multidisciplinare non deve essere solo bagaglio professionale dei ‘nuovi’ giovani, ma anche e soprattutto delle nuove classi dirigenti e di una politica degna e civile; anche perché quelle attuali non hanno, quasi mai, una formazione adatta anche solo a comprendere le discipline e le relazioni fra di esse.


Link utili

Dati ISTAT lavoro settembre 2022

Great Resignation: Repubblica degli stagisti, Sole24Ore, Harvard Business Review

Quiet Quitting: Linkiesta

Occupazione femminile: dati

Scolarizzazione: dati

Iscrizioni scolastiche 2022

Evasione

Stato dell’arte globale

Scuola Cova

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Note

  1. Fonte Openpolis, 28 novembre 2022.
  2. Fonte Eurostat,  24 maggio 2022.
  3.  Fonte Ansa, 2 dicembre 2021.
  4. Ci rifacciamo qui alle teorie di Ezio Manzini (NdA)
  5. Vediamo in questi giorni, dicembre 2022, l’avvento clamoroso di ChatGPT, l’Intelligenza Artificiale di OpenAI: un chatbot ‘Generative Pre-trained Transformer’ che potrebbe fare concorrenza a Google, ma soprattutto agli esseri umani stessi.
  6. Caldeggiato vigorosamente dal fondatore del Club di Roma – primo think tank ‘ambientalista – Aurelio Peccei; su questo tema abbiamo anche incentrato l’ultima edizione di Milano Digital Week.
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