L’urgenza climatica

La concreta possibilità di  una catastrofe ambientale che né il mercato né la mistica high-tech sembrano in grado di scongiurare.

Autore

Roberto Di Caro

Data

30 Marzo 2023

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30 Marzo 2023

ARGOMENTO

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Dicembre 2021 – Come Ross Lockhart, magnate della finanza arricchitosi analizzando il profict impact dei disastri naturali, protagonista  del romanzo di De Lillo, Zero K, l’Occidente, tutti noi, da duemilacinquecento anni a questa parte sogniamo di possedere la fine del mondo. L’abbiamo giocata, raccontata, magnificata, vissuta sul filo sottile fra il terrore e l’estasi.

Un rosario di Apocalissi. Rivelazioni, come da etimo. Ebraiche,  cristiane, gnostiche, letterarie, cinematografiche, seriali. Siamo morti mille volte, moriremo mille e una: mai però, immaginiamo, una volta per tutte, perché (date una scorsa ai testi) in un modo  o nell’altro c’è sempre un «day after», un dopo,  una purificazione, una resurrezione, una rinascita. Non è rimozione, affatto: compresso, inabissato, occultato, il rimosso prima o poi ritorna e fa disastri. Al contrario, metterla in scena, la fine,  rappresentarla tra l’ironia di Stranamore e l’adrenalina di cento pellicole catastrofiste, ci mette al  riparo dall’obbligo di farci i conti.

Nella scena  di un serial americano, Newsroom se non ricordo  male, un climatologo di grido spiega pacatamente in TV, dati alla mano, come la devastazione del  Pianeta abbia ormai oltrepassato il punto di non  ritorno e non ci sia più niente da fare per salvarlo:  stupore sul volto del saccente conduttore, ma è  questione di un istante, col sorriso d’ordinanza passa alle notizie sul baseball. Ecco: non è esattamente quello che facciamo anche noi?

Generazioni

Quel «noi», naturalmente, non è un tutt’uno. Contano meridiani e paralleli, fattori culturali, ideologici, persino religiosi. È verosimile che i coltivatori di riso sulle coste vietnamite già oggi costretti dall’innalzamento  del livello dei mari a passare dal riso ai gamberetti dimezzando il guadagno sotto la soglia di sussistenza abbiano, degli effetti dei cambiamenti climatici sulla loro pelle, una percezione assai più diretta di chi da noi se ne accorge, al momento, giusto dalla bolletta dei condizionatori o dalle  immagini TV di qualche alluvione più o meno lontana.

Arduo anche immaginare, per dire di casi limite, che un jihadista votato al martirio per  schiacciare gli infedeli o un trumpiano negazionista all’assalto del Campidoglio con le corna da sciamano si straccino le vesti se la temperatura  media del globo cresce di un grado di troppo.

Lo scarto più rilevante, però,  almeno nel nostro sempre più piccolo Occidente, è probabilmente quello generazionale. Baby boomer, sessantottardi, disincantati degli Ottanta  hanno quanto all’urgenza climatica reazioni d’istinto e riflessi condizionati  lontani dai (e difficilmente comprensibili ai) millennials, nonché dalle altre  sottocatalogazioni d’età variamente etichettate con le ultime lettere dell’alfabeto. Neanche c’è da stupirsene: nei Settanta «ecologia» era una di quelle  parole nuove che ogni tanto rimpolpano i vocabolari; l’allarme lanciato nel  1972 dal Club di Roma con il Rapporto sui limiti dello sviluppo suonava ai più  come una dotta esercitazione accademica di economisti, uomini d’affari e  grands commis; la crisi petrolifera del ’73 venne presto superata confermando l’illusione che le crisi periodiche sono parte del gioco e anzi alla fine ne  garantiscono l’eternità.

C’erano poi le lotte operaie e l’internazionalismo  proletario, e a seguire terrorismo, edonismo, yuppismo, reaganismo e un corposo elenco di altre credibili distrazioni. Tutto ciò non scusa la cecità, ma in parte la spiega. Sgombrato il campo, andate in pezzi una dopo l’altra le robuste identità collettive che, nelle forme della contrapposizione  ma non della micro-frammentazione, ancora cementavano il corpo sociale, solo allora, dapprima a fatica poi con crescente pervasività, la percezione  dell’urgenza climatica si è diffusa nelle nuove generazioni.

Non è solo questione d’età. Una ricerca appena pubblicata, condotta  per quattro anni dal Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna  su un campione di 1.800 persone dai 14 ai 30 anni, rileva una radicale  diversità tra maschi e femmine nelle modalità del fare politica: uomini in  maggioranza a prediligere le forme tradizionali dell’impegno (partiti, dibattiti, cadenze elettorali, in ultima analisi dentro i meccanismi della leadership e del potere), donne propense piuttosto a forme di impegno e di  battaglia «non convenzionali e non istituzionalizzate» nonché più rischiose  (boicottaggio di prodotti, aziende e Stati in nome di valori etici, azione  diretta, gesti clamorosi per scuotere le coscienze, in una parola in empatia con i meccanismi del contropotere e della mobilitazione dal basso).

Al  netto delle semplificazioni dei modelli e della statistica: Greta ThunbergGiovane, donna, attivista, straordinaria mobilitatrice, estrema e radicale  nei suoi atti e gesti, milioni di persone in piazza ai Fridays for future in 157  Paesi, dito puntato ai grandi del mondo, «ci avete rubato il futuro»

Sbaglieremmo a considerare Fridays for future, Extinction Rebellion, The Climate Mobilization e altri consimili semplicemente come l’ultimo capitolo, non poi così dissimile dai precedenti, di una storia dei movimenti  sociali di fine XX secolo, dal Sessantotto alla meteora no-global. Stavolta la posta in gioco è né più né meno che la Fine: «Si apre la possibilità della  catastrofe, figlia del doppio legame che ci paralizza, ci inchioda a una modernità che ci mostra insieme la sua tossicità e la sua ineluttabilità», scrive  Marco Pacini su «Aut aut», n. 388, dicembre 2020: dove, uno a uno, finisce impietosamente per smontare tutte le costruzioni della «nuova escatologia tecnologica, la mistica hi-tech, i tecno-evangelismi del nuovo mondo», variante di destra di think-tanks come il Breakthrough Institute («ci penserà  ancora una volta il dio mercato, cogliendo il potenziale dell’economia green e dell’ingegneria climatica») e di sinistra come il Manifesto accelerazionista di  Williams e Srnicek («urge una ‘politica prometeica’ di massimo controllo  sulla società e sull’ambiente»).

Per ricordarci che, nel «nuovo regime climatico», «libertà, democrazia, diritti individuali, tutte le conquiste liberali  potrebbero avere una scadenza ecologica». Se ha ragione, i margini sono strettissimi. Dopo la pandemia pare siano tutti convertiti alla salvezza del  Pianeta: l’America che ha scelto Biden, l’Europa di Ursula von der Leyen  con i parametri di Next generation EU, persino la Cina di Xi Jinping in tardiva redenzione almeno a parole. Difficile che basti. «Believe me, it will not be enough», è il monito della maggior parte dei ricercatori che i dati li studiano e comparano. E in questo iato tra il dire e il fare, le nobili intenzioni e il timido operare, si incunea l’azione di quei gruppi e movimenti sorti per  essere sentinelle, pungolo, memento, provocazione contro un’estinzione alle porte. 

Azione diretta

Gli obiettivi sono chiari. Fatta la tara agli estremi (uno per tutti, il Movimento per l’estinzione umana volontaria, acronimo in inglese VHEMT, anti-natalista e in certi suoi settori favorevole addirittura a forme di sterilizzazione obbligatoria di massa) la scommessa è obbligare governi, istituzioni sovrannazionali, grandi corporation a invertire la rotta che ci sta portando verso il disastro; azzerare le emissioni di gas serra molto prima di quel 2050 indicato come dead line dall’Unione Europea e auspicato dalle Conferenze sul clima da Kyoto 1997 a Parigi 2015; fermare la distruzione degli ecosistemi e della biodiversità e rallentare la «sesta estinzione di massa» in corso da un secolo, che se continuerà ai ritmi di crescita attuali porterà in pochi decenni alla scomparsa dei tre quarti delle specie attualmente viventi sulla  terra.

Altrettanto chiaro comincia a essere che una simile non più rinviabile transizione non sarà né facile, né gratis, né indolore. Che anzi costerà pesanti sacrifici non solo agli Stati e alle imprese, ma anche nei nostri stili di  vita e modi di consumo. E che, ancora ben lungi dall’essere universalmente condivisa, provocherà rifiuti e reazioni anche violente in larghi strati del  corpo sociale: un assaggio s’è avuto nel dicembre 2018 quando, contro la  tassa di 7 centesimi al litro su gasolio e benzina voluta da Emmanuel Macron per finanziare la transizione ecologica, per mesi si scatenò nelle piazze  la rivolta dei «gilet jaunes», Vandea spacciata per lotta contro l’oppressione, fatta propria da un’estrema sinistra non meno reazionaria dell’estrema  destra.

Lo stesso termine «transizione» è da taluni contestato come eccessivamente morbido e rassicurante, quasi indicasse che da una malattia mortale ci si può curare a piccole dosi, senza scandalizzarsi di eventuali  licenze nel rispetto di tempi e scadenze giacché c’è da tener conto degli  interessi costituiti, delle imprese, dei profitti, dei posti di lavoro, dei costi economici per gli strati più poveri, del diritto dei Paesi meno sviluppati a migliorare il loro tenore di vita e quant’altro. Di contro a simili accattivanti argomentazioni, in che modo e con quali mezzi scuotere le coscienze, conquistare consensi, imporre l’urgenza climatica come problema cardine del nostro tempo? 

Il ponte di Calatrava tinto di rosso che pareva la scalinata del Potëmkin. Sugli scalini, corpi senza vita. Sullo striscione il simbolo di una clessidra, il  tempo che passa inesorabile e sta per scadere, e la scritta «I loro soldi, il  nostro sangue». Succo di pomodoro annacquato, ovviamente, ma l’impatto era scioccante e l’effetto scenico assicurato, in quel caldo sabato di metà luglio a Venezia, protesta di Extinction Rebellion contro il G20 dell’economia in corso in quelle ore all’Arsenale.

Al megafono, le scuse di una giovane  attivista «per il disagio che possiamo aver provocato e se abbiamo urtato la sensibilità di qualcuno. Siamo un movimento radicalmente non violento,  ma voi e noi insieme siamo vittime di un sistema tossico, e per affrontare  un problema radicale servono azioni forti e immediate, per noi, per i nostri  figli, per le prossime generazioni…».

Nato nell’ottobre 2018, prima azione di disobbedienza civile il blocco di cinque ponti sul Tamigi che paralizzò Londra fra canti e danze nelle strade e la piantumazione non autorizzata di  alberi a Westminster, Extinction Rebellion, in sigla XR, movimento internazionale «per la giustizia ambientale e sociale», si è esteso a macchia d’olio da Parigi, Madrid, Roma fino a Delhi, New York, Buenos Aires e altre 60 grandi città in tutto il mondo, fra marce, arresti, proteste, incatenamenti  (anche ai cancelli della sede ENI a Roma, in cinque per tre giorni nell’ottobre 2020, slogan «stop ai combustibili fossili»).

«Non avrei mai pensato di diventare parte di un movimento che tra i suoi obiettivi, come metodo di  lotta e di sensibilizzazione, ha quello di farsi arrestare! Ma il dilemma morale sta esattamente nel chiedersi: quando è giusto infrangere la legge e per  che cosa?». Polly Redpath, 27 anni, inglese, studi in Spagna, in Italia dal  2015, in XR segue l’area chiamata «supporto all’autorganizzazione» (SAO,  self autoorganizing system), che va dall’escogitare come essere più efficaci  nell’azione diretta a come affrontarne le conseguenze: supporto legale, rapporti con la polizia, cura dell’arrestato, crowdfunding per pagare multe e danni, piani di comunicazione, piattaforme per moltiplicare l’impatto delle  proteste.

Ma quali sono i meccanismi di decisione, della singola azione di  disobbedienza civile come delle strategie di mobilitazione a lungo termine?  

«Distribuire i centri di decisione: se sto dentro un sistema di princìpi  e valori definiti e riconosciuti come tali, non devo chiedere il permesso a nessun referente centrale di XR, né per formare un gruppo locale né per pianificare un’azione. Lontani dalla struttura piramidale del potere cui siamo abituati, chiamiamo olocrazia un sistema di partecipazione diretta di tutti  alle decisioni, dando ascolto con umiltà a ogni voce, mettendo in campo  ciascuno le proprie competenze e conoscenze, nel confronto tra portatori di differenti interessi alla ricerca delle migliori soluzioni. Vale all’interno  del movimento, ma si propone come modello di auto-organizzazione sociale attraverso il sistema delle assemblee cittadine, già ben sviluppato nel  Regno Unito e in Irlanda e in espansione anche in Italia. Beyond politics, oltre la politica. Contro ogni approccio compartimentale, destinato a fallire, ai problemi di un ecosistema globalmente interconnesso, non serve il 51%: il 3,5% di persone convinte e disposte all’azione basta per mettere in moto cambiamenti epocali».

Così Polly Redpath, che lega insieme i criteri  di auto-organizzazione del movimento e l’idea di futuro che lei e XR hanno in mente. Le assemblee cittadine contro-potere e alternativa al Leviatano prossimo venturo: una visione della politica all’altezza della natura globale  della sfida o l’ennesima illusione iper-democraticista, nipotina della Comune di Parigi e della cuoca di Lenin? 

Beyond politics? I giovani di Volt sono un po’ meno alieni dalla politica,  sia pure ampiamente riveduta e corretta rispetto al gioco dei partiti tradizionali, delle trattative sottobanco, delle alleanze ribaltate all’improvviso come nei giochi di prestidigitazione, della raffica di tweet a lucrare sull’ennesimo  mutevole mal di pancia.

«Siamo paneuropei, stesso simbolo in tutti gli Stati,  associazione in alcuni, partito in altri, e stesso programma, scritto insieme da noi italiani inglesi tedeschi francesi olandesi bulgari svedesi…». Così Ivo Aybar Bianconi, 35 anni, psicologo di formazione, responsabile della Volt Academy, le loro Frattocchie, e Marcello Saltarelli, 29 anni, biotecnologo, uno dei portavoce.

Intanto, anche qui, c’è un dato di età: «La crisi del 2008  segna una cesura tra le generazioni: la nostra è cresciuta dentro la crisi, senza  un percorso definito, allenata a cambiare casa, città, lavoro, nazione, con tratti a tempo determinato.

Quelle che ci hanno preceduto, e con cui ci troviamo a trattare, sono invece nate negli anni del boom economico, maturate  in un contesto di crescenti garanzie e sicurezza, assuefatte a un’idea di benessere e sviluppo, abituate a una crescita che, nonostante i primi allarmi, non sembrava dovesse trovare limite alcuno. Ora il limite è arrivato, l’economia del tutto e subito non è più sostenibile. Noi lo viviamo già sulla nostra  pelle, ma fatichiamo a comunicarlo a chi resta entro schemi mentali (bias cognitivi, nella terminologia delle neuroscienze) o, peggio, modelli produttivi  del secolo scorso: come fai a dire ai polacchi, la cui economia si fonda ancora in gran parte sull’estrazione del carbone, che dovrebbero fallire perché  il carbone non lo dobbiamo più usare?».

E qui torna la politica: «Serve un  governo di transizione. Sovrannazionale, europeo, perché decisioni radicali  non possono limitarsi a questo o quel Paese, pena l’insignificanza. E lungimirante, in grado di equilibrare gli scompensi e tutelare gli ultimi, perseguire  insieme transizione ecologica e giustizia sociale».

Nota a margine: non necessariamente Leviatano europeo e assemblee cittadine sono sentieri che si biforcano, potrebbero anche rivelarsi le une la declinazione dell’altro, chissà. Ciò che però si è diffuso con una accelerazione imprevedibile appena qual che mese fa è la percezione, forse persino la consapevolezza, che è venuto il  momento delle scelte. Perché non c’è un piano B.

Diventa ciò che ti mostri

«There is no planet B». «Tomorrow is too late». «Shape your future».  «Make earth cool again». Un manifesto di XR Extinction Rebellion? Sbagliato. È il video di iX, nuovo modello di auto elettrica della BMW, lusso & etica  al ritmo di Higher power dei Coldplay. Persino lo slogan in chiusa allo spot  pare preso di peso da XR: «It’s not about the power of words, it’s about  the power of action», non basta più parlare, è tempo di agire. Fantastico. 

Scimmiottamento, camouflage, belletto e cerone spalmati senza risparmio a nascondere il volto rugoso e cadente di un modo di produzione non più  sostenibile che tira a campare fin che può? O invece, al contrario, il segno  più evidente e incoraggiante che l’uscita in tempi stretti dai combustibili  fossili e dall’incontrollata generazione di CO2 ha finalmente fatto presa su  opinione pubblica, motivazioni d’acquisto, dunque su industria e finanza,  se non per buona volontà (non c’è mai da scommetterci troppo) se non  altro, e andrebbe benissimo, per conservare ed espandere il business?

A leggere Woke, Inc di Vivek Ramaswamy, ex CEO della farmaceutica Roi vant Sciences (anticipato in Italia da «Il Foglio»), «dopo la crisi del 2008,  le grandi banche e le nuove élite politiche e finanziarie si sono unite in un  matrimonio di convenienza con i millennials seguaci dell’ideologia woke, dove i contraenti si disprezzano a vicenda ma entrambi ci guadagnano. Oggi le grandi aziende fanno soldi criticando loro stesse. Big Tech censura i contenuti che non piacciono ai woke, in compenso la sinistra lascia  intatto il suo monopolio. I CEO di Big Pharma blaterano di giustizia razziale e ambientalismo e staccano assegni multimilionari per combattere il  cambiamento climatico, mentre aumentano i prezzi dei medicinali a livelli  senza precedenti…»

Insomma: sarebbe una truffa, un inganno, una ben studiata cialtroneria, cambiare tutto per non cambiare nulla. Cortocircuito  tra il visibile e l’invisibile, ciò che appare e ciò che è, il woke e il fake. Green washing, in gergo.  

Esattamente contrario è il ragionamento di Massimo Cacciari 1: «La sostenibilità, fattore fondamentale e intrinseco del salto tecnologico, è oggi  diventata esigenza imprescindibile, e sulla sua base avviene la selezione na turale. Chi può sopravvivere e chi no verrà sempre più deciso su tale metro: l’impresa incapace, non importa per quali ragioni, a compiere quel salto  dovrà morire. Potrà sopravvivere soltanto chi organizza i propri fattori di  produzione in modo da certificarne la compatibilità con l’ambiente. Così le  imprese-guida del capitalismo globale sono oggi le prime a esigere una politica rigorosamente ecologista. E non si tratta affatto di tattica, di convenienze spicciole, di mercato dell’immagine». Quindi né truffa né maquillage, ma svolta obbligata per la sopravvivenza stessa delle imprese. E nessun cortocircuito, anzi: un circolo virtuoso innescato non solo dalla volontà ma dalle necessità stesse dell’economia e della tecnica.  

Abbastanza a sorpresa, interpellato in merito, Marcowind (nickname di  un ingegnere esperto in energie alternative, gruppo scientifico nazionale di  XR) risponde che «il ‘green washing’ è un’arma a doppio taglio: se reciti  una parte, prima o poi ti tocca diventare coerente con ciò che proclami,  e fare davvero ciò che prometti. Quindi, perché no, ben venga anche la  BMW!». Viene voglia di scomodare Rumi, altrimenti detto Mevlana, poeta e mistico persiano del 1200 fondatore del sufismo, quella sua massima che dice: «Mostrati come sei, o diventa come ti mostri».

L’interlocutore opta però per un’altra citazione: «È stato da parte nostra un errore psicologi co presentare l’urgenza climatica come una questione di giustizia per le prossime generazioni; come ebbe a dire Winston Churchill a proposito del  riarmo tedesco quando la guerra s’avvicinava, ‘siamo già entrati nell’era  delle conseguenze’. Intervenendo subito possiamo solo mitigare i danni. Ma, per dirla tutta, se la civiltà nasce col fuoco e la cultura con il passaggio dal crudo al cotto, ciò che noi ora dovremmo fare, in quindici anni, non in  trenta, è né più né meno che eliminare la combustione, imparare a riscaldare e muoverci senza più bruciare alcunché».

Al di qua delle nuvole

Vaste programme! (stavolta la citazione cercatevela). Quanto ai corto circuiti, ce ne sono eccome, ma vanno individuati altrove. Uno, generalmente misconosciuto e invece tra i più pericolosi, lo possiamo mettere a  fuoco raccontando un clamoroso e dolorosissimo svarione in cui è incorso, nel maggio di quest’anno, il visionario Elon Musk, l’uomo di PayPal, SpaceX, Starlink, Tesla, Hyperloop, intenzionato a godersi la vecchiaia nella prima colonia umana su Marte, ovviamente da lui costruita, quasi si dovesse cominciare a pensare a una sopravvivenza altrove che sul nostro malandato Pianeta. Aveva appena annunciato che le Tesla erano in vendita anche  in bitcoin e s’è dovuto rimangiare tutto con un tweet: complice, negli stessi giorni, un attacco della Banca centrale cinese alle criptovalute, il valore dei  bitcoin è crollato, e Musk ha perso di colpo un decimo del suo patrimonio scivolando al terzo posto dei paperoni del Pianeta, dopo Jeff Bezos e  Bernard Arnault.

Motivo della tragica marcia indietro (sempre che non sia  un gioco di finanza al ribasso con guadagno futuro, c’è chi lo crede): s’era  scordato, proprio lui, che i bitcoin, come tutto ciò che viaggia su internet, non stanno in aria, nell’etere, sulle nuvole, e quelle che ingannevolmente  chiamano «cloud» sono in realtà giganteschi server fisicamente collocati, che consumano energia e producono CO2 in quantità da far impallidire industrie, aerei, ferrovie e qualunque altra forma di dispendioso consumo da occidentali viziati o da asiatici all’arrembaggio della crescita a due cifre.  

Rifiutare l’aereo per salvare il Pianeta come fa Greta è certo un forte messaggio simbolico (meglio se, come a lei, per traversare l’Atlantico c’è qualcuno che ti presta una barca da regata a vento e sole e idrogeno da quattro milioni di euro); ma come la mettiamo se poi per fare lo stesso danno ambientale di un Fiumicino-JFK basta spedire mail con una sfilza  di attach, scaricare con bulimia film e video, stare attaccati ai social per  una settimana? Dov’è il risparmio e che ne è del messaggio? Certo, come  per qualsiasi tecnologia, da una caldaia al motore di un’auto, conta l’efficientamento energetico, per i server gli algoritmi che regolano gli scambi  d’informazione; e Google piuttosto che Netflix già hanno nettamente migliorato le loro performance alzando la qualità pur abbassando consumi  ed emissioni. Ma in un regime di crescita costante del traffico c’è chi ha  calcolato che di questo passo nessuna strategia di riduzione e azzeramento delle emissioni di CO2 avrà la minima possibilità di successo.

Stessa storia per svariati altri parametri della guerra all’emergenza climatica: tempi  lunghi si prevedono prima che costruire e utilizzare su larga scala un’auto a idrogeno costi in termini ambientali meno di quanto si risparmierà in  emissioni; grosso guaio persino con le auto elettriche, per via delle batterie  e l’estrazione del litio, e con i cellulari, per i costi sociali di guerre (commerciali e no) sulle terre rare.  

Come in certi film sui viaggi nel tempo, in cui qualsiasi scelta facciano i  protagonisti per sistemare in meglio la storia non riescono ad aver ragione  di un fato già scritto, così taluni collassologi ritengono che anche il futuro  sia già scritto, e nel peggiore dei copioni, per via delle retroazioni di qualunque azione ci possiamo inventare per reindirizzarlo al meglio. Non sottoscriviamo, naturalmente. Ma soppesare e calcolare costi ed effetti degli  interventi atti a scongiurare l’apocalisse ambientale è compito ineludibile e  insidioso, se non vogliamo lasciarci sedurre dalle sirene delle salvifiche tecnoescatologie e mistiche hi-tech cui accennava, sopra citato, Marco Pacini.  

Giusto per non dover scrivere a nostro epitaffio, noi che l’Apocalisse l’abbiamo recitata in ogni modo possibile, ciò che un anonimo e beffardo attore del primo secolo d.C. fece scolpire come sua iscrizione funeraria: «Sono morto molte volte, ma come questa mai».


Fonte/Testo originale: Roberto Di Caro ‘L’urgenza climatica’ – pubblicato su Equilibri, Fascicolo 2, dicembre 2021, Il Mulino.

Note

  1. M. Cacciari, Perché i no-global hanno perso, in «L’Espresso», 4 luglio 2021.
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