22 settembre 1985, Plaza Hotel, New York. Ad un tavolo di una lussuosa sala bianca ed oro, un uomo di circa 40 anni, con folti capelli, sta costruendo una torre fatta di piccoli pezzi di legno. La costruzione riproduce in maniera stilizzata un palazzo inaugurato nel 1984 a Palm Beach che poi prenderà il nome di Trump Plaza.
Sempre nella medesima città, Donald ha appena acquistato la residenza Mar-a-Lago, per un valore di 5 milioni di dollari, più altri 3 milioni di mobilio interno. Nel Plaza Hotel di New York (che acquisterà nel 1988), nel frattempo, sotto lampadari di cristallo che splendono dagli alti soffitti, i ministri delle finanze e i banchieri centrali dei Paesi del G5 (Francia, Giappone, Regno Unito, Repubblica Federale Tedesca e Stati Uniti), stanno lavorando al famoso ‘accordo del Plaza’. Esso mira a contrastare, attraverso interventi coordinati sul mercato dei cambi, il persistente apprezzamento del dollaro registrato nella prima metà degli anni ‘80.
Infatti, per cercare di risolvere la stagflazione (stagnazione + inflazione) seguita alle crisi del 1973 e 1979, l’allora governatore della Federal Reserve, Paul Volcker, aveva aumentato i tassi di interesse, rafforzando la valuta, riducendo l’inflazione (salita fino al 14,8% nel marzo 1980, e il picco dei tassi fu il 20% del giugno 1981) ma causando un incremento della disoccupazione. Tra il 1980 e il 1985 il dollaro si era apprezzato di circa il 50% nei confronti dello yen, del marco tedesco, del franco francese e della sterlina. Ciò implicò una perdita di competitività dell’industria statunitense e un peggioramento della bilancia commerciale che raggiunse il 3,5% del PIL.
Gruppi di imprese chiesero una politica protezionistica per stimolare e tutelare il mercato interno. L’accordo comportò la vendita di dollari e l’acquisto di valute estere. In seguito all’accordo, nel 1989 il dollaro scese del 50 % rispetto allo yen giapponese e di oltre il 40 % rispetto al marco, senza provocare un’inflazione galoppante. La riduzione del tasso di cambio, migliorò parzialmente la bilancia commerciale e stimolò le esportazioni e l’economia.
L’adozione di una politica fiscale espansiva ridusse il tasso di disoccupazione ma peggiorò il debito pubblico che passò dal 30 a circa il 40% del PIL. Il problema del deficit della bilancia commerciale americano del 1985, fu sotto i riflettori anche nel 2004 durante l’amministrazione Bush ed è recentemente tornato in auge in entrambe le amministrazioni Trump. Donald sposta un tassello di legno: incisa c’è la scritta ‘dazio’. La torre di Jenga oscilla pericolosamente.
In questi giorni si sta assistendo ad un déjà vu rispetto agli anni ‘80, ma con alcune importanti differenze. E sono proprio questi dettagli che potrebbero portare ad una radicale modifica degli equilibri globali. Alla fine del 2024 il deficit commerciale degli Stati Uniti è stato pari al 3% del PIL, mentre il deficit pubblico è risultato superiore al 6% del PIL. Quando si ha la coesistenza di entrambi i disavanzi, si parla di ‘deficit gemelli’. Negli ultimi anni questa è stata una caratteristica degli Stati Uniti. Non è la prima volta che gli Stati Uniti cercano di risolvere il problema dell’eccessivo deficit commerciale.
Sul banco degli imputati talvolta è stato il superdollaro. Sul fronte del bilancio pubblico, negli ultimi decenni, il deficit, anno dopo anno, si è accumulato aumentando il debito pubblico, fino a divenire una montagna che sta creando e potrebbe creare problemi nazionali e globali. Secondo i dati della Federal Reserve, il rapporto debito su PIL degli USA è attualmente di circa il 121%, pari a circa 36mila mldche corrispondono grossomodo al 178% del PIL della UE o alla somma del PIL di Germania, Italia, Spagna, Regno Unito, Francia, Cina, Russia e Brasile, messi tutti insieme. Il debito è esploso, di fatto, dopo la crisi dei mutui subprime del 2008 ed il problema si è poi acuito durante la crisi del Covid-19.
I deficit gemelli hanno caratteristiche di tipo strutturale per gli Stati Uniti e i due disavanzi sono strettamente legati. E tutto dipende dal ruolo che gli Stati Uniti hanno da decenni a livello internazionale. Il deficit commerciale americano è il riflesso di una economia caratterizzata da bassi risparmi pubblici e privati a fronte di forti consumi e investimenti. Il disavanzo può anche essere favorito da una sopravvalutazione del dollaro e da un aumento della spesa pubblica: nel primo caso si ha una minor competitività ed una riduzione delle esportazioni, nel secondo caso si ha una riduzione delle importazioni.
Tuttavia rispetto al 1985, secondo le stime del FMI, a gennaio 2025 il dollaro era sopravvalutato di circa il 5,8% rispetto al suo tasso di equilibrio reale stimato, il che non è considerato un disallineamento significativo. Una ulteriore condizione affinché ci possa essere un deficit commerciale, consiste nell’avere dei creditori esteri disposti a prestare il proprio denaro. Quest’ultimo punto è cruciale per comprendere tutto il meccanismo e chiudere il ragionamento.
Qui entrano in gioco il ruolo del dollaro che funge da riserva di valuta internazionale e la relativa stabilità dell’economia statunitense che è durata per decenni. Tutto ciò ha consentito agli Stati Uniti di contrarre prestiti a basso costo e di finanziare il ‘doppio deficit’: i creditori sono disposti a prestare il proprio denaro a un partner affidabile, perché notoriamente solvibile, e non chiedono tassi di interesse troppo elevati proprio perché il rischio del debitore è percepito come basso. Gli investitori e le banche centrali utilizzano il dollaro per difendere le proprie valute, pagare le importazioni, ripagare i debiti e gestire le fasi di crisi. Le aziende di tutte le nazionalità effettuano transazioni in dollari. Si crea quindi una enorme necessità di detenere dollari, che vengono poi investiti in titoli del Tesoro americano, che risultano (o meglio, risultavano fino a ieri) le attività sicure e liquide per eccellenza. Dei 36000 mld di dollari di debito, una quota è detenuta all’estero ed è pari 8817 mld, circa il 24% del totale. Di questi, l’Europa ne detiene più di 1600 mld (solo sommando Lussemburgo, 412, Belgio, 395, Francia, 354, Irlanda, 339 e Germania, 104), il Giappone detiene 1126 mld, la Cina 784 ed il Regno Unito 750.
La percentuale ‘estera’ era pari a circa il 7% nel 2000. A confronto, secondo il Flow of Funds della FED, la banca centrale ne deteneva nel 2024 circa 3.821, le famiglie 2.681, i fondi monetari e comuni 4.479 miliardi. Gli USA possono così attuare una gigantesca operazione del cosiddetto ‘carry trade’: reinvestono le risorse prese a prestito in attività denominate in valuta estera che forniscono un ritorno molto più elevato (ad esempio, titoli di debito e azioni dei paesi emergenti).
In tempi di crescita, gli USA ottengono un rendimento sulle attività che detengono in valuta straniera molto più alto del rendimento che il resto del mondo guadagna dal detenere attività denominate in dollari. Pertanto gli USA finanziano il proprio deficit di partite correnti a costi relativamente bassi, senza compromettere troppo la propria posizione finanziaria netta verso l’estero. Durante le crisi di norma si ha rovescio della medaglia: questo ‘privilegio esorbitante’ diventa un dovere (exorbitant duty). Gli USA infatti subiscono perdite finanziarie rilevanti sulle attività verso l’estero denominate in valute diverse dal dollaro (euro, yuan, yen, franco svizzero, real brasiliano).
Quello che accade è che quando scoppia una crisi, gli investitori si rivolgono verso titoli sicuri, quelli americani, prezzati in dollari. La valuta statunitense si rivaluta. Dato che gli USA detengono attività denominate in valute internazionali, esse perdono di valore con l’ascesa del dollaro. Tutto ciò implica un trasferimento di ricchezza verso il resto del mondo. Gli Stati Uniti assurgono pertanto come ‘assicuratore’ mondiale: guadagnano un ‘premio’ nelle fasi di mare calmo, coprono le perdite durante le tempeste. O almeno così avveniva fino a ieri. Queste perdite finanziarie sono state calcolate nell’ordine del 19% del Pil americano durante la crisi del 2008-2009.
In seguito all’annuncio dei dazi da parte di Donald Trump, l’aspettativa degli economisti era che il dollaro si sarebbe dovuto apprezzare. Ma ciò non è avvenuto (-8% negli ultimi due mesi) e si è iniziato a pensare che, forse, qualcosa è cambiato. Ci sono in effetti degli ingredienti che, combinandosi, hanno modificato gli equilibri. In genere, durante una crisi, gli investitori si affrettano ad acquistare titoli del Tesoro (Treasury bond) considerati a basso rischio, facendone salire i prezzi e abbassando i rendimenti (che si muovono in direzione opposta ai prezzi delle obbligazioni).
Invece recentemente, il tasso sul titolo trentennale si è avvicinato al 5%, in rialzo rispetto al 4,4% della settimana precedente. In realtà il fenomeno si è verificato anche durante la crisi del COVID -19 ma il punto è che il privilegio degli Stati Uniti di potersi garantire bassi tassi di interesse si è incrinato. Le cause sono molteplici: – l’aumento della offerta dei titoli del Tesoro dell’ultimo decennio ed il forte crescente debito pubblico, hanno eroso progressivamente il premio di sicurezza e liquidità che erano da tempo appannaggio della economia statunitense (per dare un riferimento, durante la crisi dei debiti sovrani l’Italia aveva un indebitamento di circa il 120%); – con l’aumento della inflazione le banche centrali non sono più i principali acquirenti dei titoli. I privati richiedono una maggior risposta del rendimento al rischio; – il tassello che sta facendo cadere la torre di Jenga è stato il confuso ed erratico annuncio dei dazi, che ha creato ulteriore incertezza in un quadro già appesantito dall’ingente debito pubblico.
Nel 1985 il dollaro venne svalutato con l’Accordo del Plaza. Oggi l’idea era quella di rispolverare l’argenteria di un altro edificio noto, nel cosiddetto Mar-a-Lago accord, coordinando alcuni Paesi un nuovo calo del biglietto verde per ridurre il deficit commerciale. In realtà i mercati si sono mossi in maniera autonoma.
Sembrerebbe quindi che Il dollaro stia perdendo il proprio ruolo di valuta di riferimento globale. L’effetto geopolitico non è affatto banale. Non sarà facile sostituirlo perché le banche centrali hanno 7mila mlddi riserve in dollari, tre volte quelle in euro, e gli istituti internazionali hanno concluso in marzo il 49% delle transazioni in dollari, il massimo da 12 anni. Però il ruolo è diventato contendibile. Un pretendente è la Cina. Potrebbe essere l’Europa, se riuscisse a coordinarsi. L’ulteriore preoccupazione per il futuro è l’enorme debito pubblico americano. Quale sarà il prossimo tassello della torre di Jenga?
Articolo apparso su Huffington Post il 23/4/2025con il titolo ‘Il dollaro si svaluta da solo, senza un nuovo ‘accordo del Plaza’. Ed è la peggior notizia per Trump‘.