Dal sole di Carter ai muri di Trump

I dazi nascono per proteggere, ma spesso finiscono per isolare. Tra promesse di rilancio e rischi di recessione, le barriere doganali ridisegnano l’economia globale. In gioco non c’è solo il commercio, ma il futuro stesso della crescita.

Autore

Sergio Vergalli

Data

29 Aprile 2025

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29 Aprile 2025

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20 giugno 1979, Washington. In una giornata estiva il bianco e blu del cielo si riflette su alcuni pannelli posti sul tetto della Casa Bianca. Il vento increspa i folti capelli di un uomo con un ampio sorriso e una larga cravatta. Attorno a lui numerosi microfoni e videocamere immortalano l’evento. Il presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, come promesso, sta inaugurando l’installazione di trentadue pannelli solari per il riscaldamento dell’acqua. «Tra una generazione», afferma, «questo impianto potrebbe essere una curiosità, un pezzo da museo, un esempio di una strada non percorsa, oppure potrebbe essere solo una piccola parte di una delle più grandi ed emozionanti avventure mai intraprese dal popolo americano». I pannelli rimasero in uso fino al 1986, quando Ronald Reagan, scettico nei confronti delle energie rinnovabili, scelse di non farli reinstallare dopo il rifacimento del tetto. Reagan tagliò anche il budget per la ricerca solare dell’85% e abolì il credito d’imposta per i pannelli solari, rallentando l’industria nascente.

Le politiche dei due presidenti furono profondamente differenti. Ci sono punti nella storia in cui un percorso che sembra avviato verso il futuro cambia strada bruscamente per tornare su un vecchio sentiero. La popolarità di Carter fu infatti minata dalla crisi energetica del 1979, dall’incidente nucleare di Three Mile Island, di cui abbiamo già parlato in un altro articolo, dall’invasione Sovietica dell’Afghanistan e dalla crisi degli ostaggi in Iran, per cui il Presidente dovette appellarsi al International Emergency Economy Power Act (IEEPA). Lo IEEPA fornisce al Presidente ampia autorità per regolamentare una varietà di transazioni economiche a seguito di una dichiarazione di emergenza nazionale. Ed è allo IEEPA che, in questi mesi, Donald Trump si è appellato per introdurre i dazi a Cina, Canada e Messico, «a causa della grande minaccia di immigrati clandestini e droghe mortali che uccidono i cittadini [americani], tra cui il fentanyl». Contrariamente a quanto fatto dai suoi predecessori, per accelerare i tempi di attuazione il Presidente Trump ha utilizzato lo IEEPA non per una vera emergenza nazionale, ma per iniziare una guerra commerciale. Il più noto esempio di protezionismo risale al Grande Crollo del 1929, quando Hoover approvò lo Smoot-Hawley Tariff Act, introducendo dazi sulle importazioni. Esso era stato proposto per proteggere i contadini statunitensi dalla concorrenza estera, ma fu poi esteso non solo a tutti i prodotti agricoli, ma anche a molti beni industriali, con dazi al 20 per cento sui prodotti importati dall’estero. Tale misura comportò una serie di ritorsioni, tra cui quella del Canada e di alcuni Paesi Europei, favorendo il crollo degli scambi con l’estero e la caduta del PIL mondiale.

Tra il 1934 e il 1939 Roosevelt, successore di Hoover, firmò trattati di libero scambio con 19 paesi. Durante la Seconda Guerra Mondiale divenne famosa la cosiddetta ‘guerra dei polli’: a fronte di una carenza di carni rosse, gli Stati Uniti incentivarono l’allevamento e il consumo di pollame. La produzione crebbe e i prezzi scesero. I produttori cercarono di ampliare il proprio mercato all’estero generando una forte competizione con la Comunità Economica Europea (CEE, che si sarebbe poi evoluta nell’ Unione Europea) che introdusse forti dazi sul prodotto. Le esportazioni statunitensi scesero del 30 per cento. Come risposta il presidente Lyndon Johnson impose dazi su varie altre merci. Gli esempi di protezionismo nella storia sono numerosi, intervallati da periodi di apertura degli scambi. Tuttavia, fino all’ascesa di Trump del 2017, il sistema economico globale stava evolvendo verso un mondo globalizzato: l’Unione Europea è un esempio di riduzione dei dazi tra gli Stati membri, così come alcuni accordi commerciali tra vari Stati. Tra questi, fino al 2016, si stava discutendo in merito alla costituzione del Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), tra Stati Uniti e Unione Europea. L’ascesa di Trump chiuse le trattative. 

Ma perché si introducono i dazi e quali sono gli effetti sull’economia e sulla transizione energetica?

I dazi sono un’imposta che si applica sulle merci in arrivo da un paese straniero, e sono adottati con il presupposto politico di proteggere la produzione interna dalla concorrenza estera. Nel caso specifico, l’obiettivo dichiarato di Donald Trump è quello di attenuare il deficit commerciale americano e di riportare una parte dell’attività produttiva negli Stati Uniti, con effetti benefici sull’occupazione. Non è la prima volta che Trump impone le tariffe. Nel 2018, il presidente repubblicano aumentò i dazi sui pannelli solari, poi sulle importazioni di acciaio (25%) e alluminio (10%) ed infine su una serie di beni cinesi. L’UE rispose con dazi su 2,8 miliardi di euro di prodotti americani come: Whiskey Bourbon; Jeans Levi’s; Moto Harley-Davidson.

L’idea di fondo di un dazio è che, rendendo relativamente più cara la merce straniera, i consumatori sceglieranno di comprare merce nazionale. Il valore delle importazioni diminuisce. Ciò comporta un minor deficit commerciale che, a sua volta, porta ad un aumento della domanda, della produzione e dell’occupazione. Questo avviene almeno in linea teorica. Nella realtà il processo è molto più complesso e dipende da vari fattori. In prima battuta il dazio aumenta il prezzo per i consumatori in proporzione con quanto sarà la riduzione dei margini di profitto delle imprese importatrici e quanto verrà scaricato sulla clientela finale. Maggiore è la quota ‘assorbita’ dalla impresa, minore sarà l’incremento di prezzo e la riduzione delle quantità scambiate. In seconda battuta, anche se i prodotti vengono costruiti localmente, il dazio può comunque incrementarne i prezzi finali. Il mondo globalizzato infatti ha reso la produzione di un bene profondamente integrata geograficamente e dipendente da input che arrivano da altri Stati: se quindi aumentano i prezzi dei componenti, a cascata si ha un aumento dei prezzi dei prodotti. A fronte di un possibile effetto inflativo, la Banca Centrale, anche se propensa a ridurre i tassi di interesse per stimolare l’economia, potrebbe mantenere i tassi fermi. L’effetto è quindi una modifica delle aspettative degli investitori e un rallentamento della crescita. Un altro aspetto rilevante è che, in termini aggregati è noto che l’introduzione dei dazi comporta una perdita secca.

Tuttavia la distribuzione di questa perdita non è omogenea: ci sono agenti economici e Stati che perdono, altri che guadagnano e l’effetto dipende da alcune caratteristiche delle curve di domanda e offerta. È noto, per esempio, che all’interno dello Stato che applica i dazi, si può avere un aumento dei guadagni delle imprese, mentre si ha una riduzione del surplus dei consumatori, perché consumano meno beni a prezzi più elevati. Nel contempo il Governo guadagna un gettito derivante dalle tariffe. L’effetto netto deriva dalla somma delle tre variazioni: l’incremento di surplus di imprese e Governo e la perdita per i consumatori. Non è noto a priori se questo effetto totale sarà positivo o negativo. Allo stesso tempo si ha una perdita secca per i Paesi esportatori.

A complicare le cose si aggiunge il fatto che questi ultimi possono, come sembra, reagire introducendo anch’essi dei dazi. Le stesse osservazioni e implicazioni appena illustrate si moltiplicano dunque per ogni Stato che decide di entrare nella guerra commerciale. L’effetto quindi si propaga, riducendo i volumi di scambio e il tasso di crescita e aumentando i prezzi. Nel medio periodo normalmente avviene anche un riorientamento della domanda verso altri paesi fornitori in risposta alle variazioni relative dei prezzi (la cosiddetta elasticità di sostituzione del commercio). L’aspettativa è quindi un cambiamento nella ragnatela degli scambi internazionali e una riduzione dei volumi. L’effetto dei dazi è tanto più marcato quanto maggiore è la quota dell’import-export rispetto al Prodotto Interno Lordo: alcuni Paesi risultano quindi più vulnerabili di altri. Per gli Stati Uniti questo rapporto è abbastanza basso, pari al 25% circa, mentre per l’Italia, che vede negli Stati Uniti il terzo partner commerciale, con un volume di 73 miliardi di export nel 2024, il rapporto è del 67% circa. Un ulteriore effetto di particolare importanza deriva dalla modalità con cui la politica viene adottata. La presidenza americana sembra non avere coerenza tra l’annuncio e l’attuazione dello stesso. Questo comportamento ondivago crea incertezza nel mercato che, notoriamente, implica un rallentamento degli investimenti.

E quanto incide tutto ciò sulla transizione energetica?

A livello mondiale c’è già stato un rallentamento perché, come accadde al termine della Presidenza Carter, si è avuto un drastico cambio di direzione con una riduzione dei sussidi e una modifica delle politiche green. L’imposizione dei dazi potrebbe rallentare alcuni settori utili per la transizione, come l’acciaio e l’alluminio, ma non solo. Il reshoring forzato di riallocazione interna delle imprese potrebbe implicare un impiego delle risorse economiche verso la costruzione di nuove fabbriche e, in minor misura, verso nuovi investimenti green.  Di fronte a crescenti pressioni economiche dovute alle tariffe doganali, i Paesi potrebbero essere maggiormente tentati di allentare gli standard ambientali per mantenere la competitività. Le tasse sul carbonio o politiche simili (ETS o CBAM), distribuite in maniera difforme tra gli Stati o gruppi di Stati, possono infatti creare spinte competitive differenti. Nel contempo, però, l’Unione Europea, mantenendo una politica indirizzata verso la transizione, potrebbe accentrare gli investimenti green anche di alcuni Paesi che si allontanano dagli scambi con gli Stati Uniti e, nel contempo, potrebbero attirare la competizione cinese. Come abbiamo illustrato, l’aspettativa che si staglia all’orizzonte è un cielo con nubi scure e talvolta minacciose che potrebbero portare a una possibile recessione. La strategia americana per rinforzare la propria economia potrebbe funzionare parzialmente a livello interno, ma si temono elevati costi di attuazione. Molti economisti sono infatti convinti che il problema del deficit commerciale non si risolve con dazi, ma aumentando il risparmio interno, privato o pubblico. Vedremo quale sarà l’evolversi del problema. È però probabile che poi la strada della storia virerà di nuovo, prima o poi, riprendendo il sentiero di Carter del 1977. L’importante è che l’Europa continui a lavorare con i pannelli solari della Casa Bianca e si faccia trovare pronta.

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