You’re just a memory (parte 2). Le disavventure della memoria collettiva

Il tempo è perduto: ne conserviamo simulacri. Tra selezione partigiana dei ricordi, rimozioni, riemergenze, inattese persistenze, impossibili condivisioni, evanescenze e oblii.

Autore

Roberto Di Caro

Data

11 Settembre 2023

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6' di lettura

DATA

11 Settembre 2023

ARGOMENTO

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Regnavano sovrani abat-jour, fox-trot, sofà, / e la paura, insieme a sottovesti e ad arguzie salaci a volontà. / Chi avrebbe mai pensato / che la gomma del tempo li avrebbe cancellati / come sgorbi a matita sulla carta?

IOSIF BRODSKIJ
Fin de siècle (1989)

L’evanescenza dei ricordi, traccia residua di vite e oggetti e modi di essere impietosamente cancellati dalla ‘gomma del tempo’. Il loro sfaldarsi, come disegni sulla sabbia per una sola ignara onda sul bagnasciuga. Il loro liquefarsi, come i tre orologi di La persistenza della memoria, che Dalì dipinse nel 1931, e il quarto mangiato dalle formiche. Il tempo è perduto. Proust lo sapeva bene: puoi recuperarne briciole e frammenti attraverso il profumo inatteso delle madeleine appena fatte (pane raffermo, nella prima stesura, poi pan tostato e, ancora, fette biscottate), puoi tirarne i fili e ricomporne faticosamente la tela o almeno parti di essa; resta il fatto che, come scrive nel terzo volume della Recherche, «on ne peut refaire ce qu’on aime qu’en le renonçant» non puoi rifare ciò che ami se non rinunciandovi. 

Chi non ha avuto esperienza di un tale sentire? Chi non è stato preso mai dall’ansia di fissarli, quei ricordi, in un’immagine, una pagina scritta, una sequenza di frasi tenute a memoria, par coeur? È ciò che facciamo abitualmente. Ma l’operazione ha un prezzo, e non ci sono sconti: ciò che fissi, uccidi. Come la farfalla che punti con lo spillo in una teca. Pin-up. Immobile ricordo di un ricordo, di una narrazione già confezionata e da allora ripetuta. Recuperato, sì, riscoperto talora all’improvviso e con meraviglia, un istante di felicità; poi subito di nuovo formattato, cristallizzato, fossilizzato, daccapo sottratto al meccanismo vitale che ogni volta di nuovo esperisce. Ciò che così conservi è il simulacro di ciò che hai già perduto.

Selezione partigiana dei ricordi, rimozione, riemergenza, reificazione, obsolescenza, oblio. È un percorso accidentato, nient’affatto lineare, nel quale le carte si mescolano in combinazioni impreviste. In forme estreme e accelerate, oggi, nelle identità e memorie collettive mutaforma che a ritmo serrato si generano, trasmigrano, si radicalizzano e si combattono sulla Rete.

RIMOZIONI. L’oblio non è il contrario della memoria, ne è parte integrante. Una memoria ‘totale’, che non seleziona, non cancella, non dimentica, sarebbe come quella dell’Ireneo Funes protagonista di un racconto di Borges: «un deposito di rifiuti, un mondo sovraccarico dove non ci sono che dettagli, il presente è quasi intollerabile tanto è ricco e nitido, e così pure i ricordi più antichi e banali». Nietzsche, nella seconda Inattuale, lo aveva già immaginato ottant’anni prima: «Un uomo che non possedesse la forza di dimenticare, non crederebbe più a sé stesso, e si perderebbe in questa fiumana del divenire. A ogni azione occorre l’oblìo», come alla vita la luce e l’oscurità, la veglia e il sonno. Quella forma di insonnia che consiste nel «continuo ruminare» il passato danneggia il vivente, che «alla fine va in rovina, sia esso un uomo, un popolo, una civiltà».

Dimenticare per vivere. Caso limite, per un decennio e più dalla fine della guerra, la rimozione della Shoah nella stessa generazione di ebrei sopravvissuti allo sterminio, come le più disparate testimonianze documentano: per il rimorso di essere vivi, la vergogna di ciò che avevano subìto, la paura di non essere creduti, il rifiuto di essere definiti dal loro essere stati vittime, o semplicemente per non impazzire. 

Per converso, nel cortocircuito della rimozione, ricordare per guarire. Freud. Tutta la psicanalisi. Chi dimentica il passato è condannato a riviverlo. Dimenticare, sul momento salva, sulla distanza distrugge. Nessuna regola garantisce una oculata amministrazione di memoria e oblio, del loro giocare a rimpiattino alla ricerca di un equilibrio che non sarà mai stabile, esposto com’è, sempre, al ritorno del rimosso. Di quel fondo oscuro dell’esistenza perennemente in agguato, pronto a riemergere nelle forme più dirompenti.

EVANESCENZE. Vari elementi segnano i destini di una memoria collettiva. Intanto, come scriveva Halbwachs, essa può persistere solo finché esiste il soggetto sociale che l’ha generata, ed entro il cui quadro o cornice essa prende e genera senso: un soggetto dotato di un certo grado di coscienza di sé come tale. La ‘coscienza di classe’ d’antan, faro e mito della cultura politica fra Otto e Novecento: ormai annichilita dalla precarizzazione dei lavori e dalla polverizzazione sociale degli ultimi decenni. Il sentirsi ‘prima di tutto’ americani, collante imprescindibile in un paese di immigrati: sulla via di diventare un jingle svuotato di contenuto e di appeal in un’America drammaticamente spaccata in due, quella di Donald Trump, dell’assalto al Campidoglio, del doppio e speculare neomaccartismo della destra estrema a impronta religiosa e dell’estrema sinistra woke

Da ultimo, schegge e frammenti di memorie collettive che sembravano inossidabili evaporano nell’irrilevanza per il semplice, persino banale, motivo che tale è il corso delle cose: come annotava nei suoi diari Cesare Pavese, «i problemi che agitano una generazione si estinguono per la generazione successiva non perché siano stati risolti ma perché il disinteresse generale li abolisce». 

PERSISTENZE. Per memorie collettive che sbiadiscono e vanno in briciole, altre prendono vigore, si compattano, in taluni casi si irrigidiscono in dogma per il concorso di un diffuso sentire e dell’atto d’imperio di un’autorità. L’Ukraina sotto i missili di Putin, le sirene, i massacri, le città ridotte a un cumulo di macerie, sono già memoria di un popolo sotto attacco che ne cementa la volontà di resistenza e di indipendenza. 

La guerra è anche guerra di memorie. Non solo per difendere la propria, ma anche per cancellare dalla propria identità, in forme a volte abnormi, quanto del nemico vi è inscritto: la lingua russa, penalizzata per legge in Ukraina già prima dell’invasione nonostante fosse parlata da un terzo della popolazione; i libri di Gogol, Bulgakov, Babel, che pure l’Ukraina abitarono e amarono, e la musica di Čajkovskij, che lì visse e di cui difese la lingua contro la normalizzazione russofona imposta dallo zar Alessandro II; la statua di Caterina la Grande, vandalizzata e poi rimossa a Odessa, mentre nella Melitopol occupata tornava quella di Lenin. 

INCOMPATIBILITA’. Il passato non se ne va in punta di piedi, con buon senso e discrezione: non c’è pace che riconcili memorie collettive in conflitto. Per gli ukraini la Russia era l’Holodomor, i 4 milioni di morti della carestia provocata dal regime staliniano nel ’32 per piegare i contadini alla collettivizzazione, e sarà le stragi di civili a Bucha, Mariupol, Kherson, Kramatorsk, Bakhmut. Per i russi, l’Ukraina era l’appoggio che l’esercito della Germania nazista in avanzata vi ricevette nel ’41 in odio alla dittatura sovietica, e sarà il presunto tradimento della Grande Madre Russia, con le armi e al servizio dell’odiato Occidente. La memoria ‘condivisa’ è un’allucinazione, un equivoco ideologico.

È così da sempre. Italo Calvino ne aveva chiaro sentore quando, in Le città invisibili, scriveva: «La vera essenza di Leandra è argomento di discussioni senza fine. I Penati credono d’essere loro l’anima della città, anche se ci sono arrivati l’anno scorso, e di portarsi Leandra con sé quando emigrano. I Lari considerano i Penati ospiti provvisori, importuni, invadenti; la vera Leandra è la loro che dà forma a tutto quello che contiene, la Leandra che era lì prima che tutti questi intrusi arrivassero e resterà quando tutti se ne saranno andati». 

Del resto, che cos’è la letteratura, tutta la letteratura, se non una straordinaria macchina della memoria, continuamente rielaborata, trasfigurata, metabolizzata?

RETROAZIONI. Ai tempi d’oggi, l’apologo di Calvino dice dello scontro tra i paladini di un’identità radicata nel genius loci, nelle memorie collettive e persino nei geni degli autoctoni (a prescindere dai percorsi di vita di chi in quei luoghi arriva, transita, si stabilisce), e quanti al contrario la vedono costruirsi giorno dopo giorno nelle memorie in aggiornamento di individui e gruppi in migrazione (fisica, da un territorio a un altro e a un altro ancora, e personale, da uno schema di pensiero, un agglomerato spirituale, una tribù elettiva di appartenenza, ad altri schemi, agglomerati, appartenenze). 

Un ulteriore elemento interviene a complicare la partita. Quando chiesero a Luigi Nono quale fosse il tratto distintivo del suo carattere, il compositore rispose: «la nostalgia del futuro». Qualcosa del genere esiste in tutte le identità collettive costruite attorno a un grumo di aspettative e speranze (e quasi tutte lo sono, in maggiore o minor misura). Una sorta di ‘memoria del futuro’. Anch’essa, al pari di quella fondata su un passato idealizzato, «soggetta a incertezze ed eclissi», per dirla con Pascal. Ma non per questo meno vivida e forte: giacché il futuro sognato retroagisce potentemente sul nostro abitare il presente

Almeno così è stato, nel bene e nel male, per tutto il Novecento. Perché ora l’intero scenario, del mondo in cui viviamo come del nostro mondo interiore, è radicalmente cambiato. Con effetti dirompenti sulla nostra percezione del tempo e sul nostro agire quotidiano, in modo precipuo nei processi di formazione delle nuove generazioni. E al cuore di tale sovvertimento stanno proprio i meccanismi della memoria, individuale e collettiva.

STOCCAGGI. La Rete è diventata il magazzino di una memoria collettiva totale. Vi esternalizziamo e depositiamo dati, fatti, storie, informazioni, immagini, suoni, li avremo sempre lì a disposizione, a portata di clic, accesso illimitato. Non serve alcuna mnemotecnica: una mappa mentale di massima ci basterà per sapere come e dove trovarli. Non servono sofisticati strumenti di diffusione nel tempo o da una generazione all’altra: basta un ‘save’. Non funziona come il nostro cervello, dove ogni ricordare è un reinventare, riattivare, riattualizzare, riappropriarsi: funziona a cassetti che apri e chiudi. Non è questione di quantità, più dati e più in fretta, né di strumenti di memorizzazione, dalla biblioteca a wikipedia, dal diario vergato a inchiostro al blog su internet: è un salto epistemologico nei meccanismi di formazione e trasmissione dei ricordi.

ESISTENZE. L’altro ribaltamento di enorme portata è dato dai social. Una lettura basica, venata di rimpianto per una presunta perduta ‘autenticità’, rileva come la vita reale stia diventando la copia impoverita della sua rappresentazione sui social: come se ormai la vita vera l’avessimo trasferita nella virtualità di instagram o tik tok e in quella reale fossimo imbozzolati ignari nelle incubatrici di Matrix, umani schiavizzati dalle macchine. Vivere perché resti memorizzata immediatamente e pubblicamente ogni traccia di noi, anche la più banale e insignificante. Compiuta realizzazione di quel narcisismo di massa che Christopher Lasch stigmatizzava già all’inizio degli anni Ottanta.

Dimentichiamo (ne parliamo con raccapriccio solo quando qualche youtuber muore o uccide per “postare un contenuto”) che i social sono diventati essi stessi molla e motore della vita reale, storytelling dell’esistenza che vorresti e che, per l’ossessione di rappresentarla, cominci davvero a vivere. Possiamo annoverarlo come un caso particolare del meccanismo di retroazione del futuro sul presente. Contratto nel lasso di tempo tra l’azione e la sua rappresentazione. Conforme ai nostri anni. Tempo reale

Scardinata l’architettura della memoria, individuale e collettiva, il presente resta l’unico orizzonte di senso. Time is out of joint. Effetti e conseguenze sono però l’esatto opposto dei ritornelli su mainstream e pensiero unico che sempre più spesso ci vengono propinati quasi fossero una verità evidente. Come vedremo nella terza parte, sulla disintegrazione delle memorie collettive.


Leggi anche «You’re just a memory (parte 1). Le mirabolanti avventure della memoria collettiva».

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