La trappola delle culle. Perché non fare figli è un problema per l’Italia e come uscirne.

Autore

Veronica Ronchi

Data

2 Novembre 2022

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5' di lettura

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2 Novembre 2022

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Sarà venuta a tutti la tentazione di pensare che il calo demografico italiano non sia un problema: i figli si fanno in altre parti del mondo e siamo già troppi su questo pianeta. 

Invece, ci avverte il volume di Luca Cifoni e Diodato Pirone, La trappola delle culle. Perché non fare figli è un problema per l’Italia e come uscirne (Rubbettino, 2022, pp. 156, € 15,00), il calo della natalità è una questione da prendere molto sul serio. Un tema che riguarda tutti indistintamente e le cui ripercussioni si preannunciano drammatiche. 

Pochi giovani e molti anziani significano, infatti, un’economia che fa fatica a crescere, uno Stato che non riesce a garantire a tutti le tutele e i servizi di cui hanno bisogno. Pochi giovani significano una società più statica e più conservatrice, che porta con sé una minore spinta propulsiva, meno innovazione e meno capacità di affrontare i cambiamenti.

Guardiamo ai dati.

Il numero medio di figli per donna è sceso nel 2021 a 1,25: meno della metà del livello del 1964, e soprattutto un valore drasticamente al di sotto di quel 2,1 che è considerato dalla scienza demografica il minimo per mantenere in equilibrio una popolazione.

Un problema di oggi? Certamente no.

La tendenza negativa ha inizio dal 1974: il numero delle nascite diminuisce del 5% l’anno, ragione per la quale i potenziali genitori di oggi sono pochi. Con la carestia di nascite negli scorsi decenni abbiamo costruito un meccanismo autodistruttivo: ormai mancano bambini perché la quantità di nuove possibili coppie è esigua, scarseggiano i nuovi papà ma soprattutto sono numericamente insufficienti le donne che possono avere figli. Inoltre, oggi si stima che il 22,5% delle donne italiane uscirà dall’età feconda senza figli.

Siamo inseriti in un circolo vizioso che, se non interrotto, sfocerà in una nuova debolezza economica, la quale potrebbe a sua volta alimentare un’ulteriore crisi demografica. 

A questo fattore si aggiunge il fatto che stiamo sperimentando un processo di invecchiamento senza precedenti: siamo più longevi. Ogni 100 neonati oggi si contano 170 settantenni. Siamo quindi destinati a perdere abitanti: scenderemo a quota 54 milioni per la metà del secolo.

La decrescita demografica, inoltre, non porta con sé sviluppo e giustizia sociale, ma al contrario semina disuguaglianza e sofferenza proprio nelle aree più deboli del nostro sistema paese. Il Meridione d’Italia si va progressivamente spopolando: nel 2050 gli abitanti del Mezzogiorno saranno meno del 31% di tutti gli italiani. L’economia del sud arretra. Ci sono meno servizi, si fanno meno figli. 

Ci sono due estremi in Italia, la Sardegna, dove si registra un magro 0,95 figli per donna, all’Alto Adige, dove il numero di nuove nascite è simile al campione d’Europa, la Francia. 

Come è possibile? 

Con politiche nataliste, che hanno affrontato di petto il tema da anni, con il marchio family audit, l’ascolto delle necessità sociali dal basso e un grande e continuo impegno. Gli incentivi funzionano con politiche pubbliche chiare e costanti per molti anni, ma soprattutto se cambiano mentalità e comportamenti delle persone. I piani nazionali, invece, con interventi confusi, bonus stratificati, aiuti ai genitori estemporanei e casuali poco incidono su comportamenti consolidati da decenni. 

Fare figli dunque è un dato culturale, che ha a che vedere con una prospettiva di futuro.

Uscire dall’inverno demografico è una priorità. Cominciando con lo sfatare il mito che le donne con più figli sono le donne che non lavorano. È vero l’esatto contrario. I figli sono legati alla condizione di lavoro positiva della donna e a un maggior benessere economico della famiglia.

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