Filosoficamente e operativamente, scrivere codice è evocare mondi all’esistenza. In questa direzione, la filosofia ha iniziato da qualche tempo a de/costruire il coding (la programmazione degli sviluppatori) e a scavare nella sua meccanologia. È tempo, allora, di costruire collettivamente cultura e senso in/di un mondo che diviene sempre più ‘programmabile’.
Le stringhe di programmazione sono, dunque, linee di costruzione del nuovo reale. La fabbrica del codice software non è tuttavia (solo) la sua produzione informatica; paradossalmente la sua fabbrica è (anche e soprattutto) la sua ingegneria ermeneutica che è, insieme, prima interna alla macchina per riscrittura di linguaggi (da linguaggio source a linguaggio target) e poi esterna alla macchina per incapsulazione nel mondo.
Quali mondi evoca (e revoca, altresì) il codice all’esistenza? E quali lezioni dobbiamo trarre dal considerare il software non solo un asset, ma una liability? A quali nuovi compiti siamo chiamati e a quali nuove responsabilità? Tra cyberguerra e cyberpace, esiste una qualche esperienza della programmazione che possa dirsi e farsi sicura? Se non esiste, che cosa rappresenta filosoficamente questa insicurezza ontologica?
Possiamo considerare, per esempio, gli attacchi informatici alle forme della scrittura della nostra contemporaneità (alla programmazione) un’innovativa forma contemporanea di decostruzione filosofica? Se consideriamo la programmazione, il codice e i programmi software la forma peculiare di scrittura del nostro presente, allora forse la criminalità informatica, nelle sue plurime e cangianti forme, può rappresentare una sorta di contemporanea filosofia decostruttiva operata con altri mezzi?
Come per i processi decostruttivi filosofici più tradizionali la criminalità informatica (e nella forma di cyberguerra) replica una specifica logica: attacca una testualità, come dice Justin Joque in Deconstruction Machines. In questo caso quella della programmazione. Un attacco al testo-codice, non più al testo-libro.
Se consideriamo le linee di codice che reggono la nostra società come razionalità testualizzata, allora un’intrusione dentro quella scrittura è un atto di scardinamento filosofico-decostruttivo del nostro mondo. Ma insieme agli attacchi esogeni, le vulnerabilità di questa nuova scrittura-codice del mondo sono però anche interne, costitutive e offuscate. Così, per esempio, le operazioni tecniche di rifattorizzazione del codice sono chiamate a rivelarne l’intricatezza nascosta e a rimediare alla sua degradazione nel tempo e nella scala.
Speculativamente e operativamente, il refactoring del software è una pratica arrischiata e vitale, indesiderata e inevitabile al tempo stesso. È chiamata a preservare la familiarità umana con un assemblaggio software ingigantito da servizi e applicazioni – riducendone la complessità non necessaria e aumentandone la performatività (senza minare il suo funzionamento, svegliando, per esempio, bug dormienti tra milioni di linee di codice). Questa ristrutturazione/riscrittura del software esistente, dunque, si fa carico della leggibilità degradante della scrittura/fabbrica vivente del mondo. Più filosoficamente, il refactoring avverte e affronta il rischio della programmazione (del coding) come scrittura degradabile e indecifrabile del mondo. Dunque, un rischio interno di fallibilità e uno esterno di vulnerabilità.
È una scrittura che costantemente rischia l’essere del mondo. Pertanto, se non esiste nessuna esperienza della computazione che possa dirsi al sicuro e possa farsi sicura (la computazione è, di fatto, contingente e quindi degradabile, fallibile, vulnerabile), come possiamo allora ideare nuove forme di affidabilità e sicurezza (cyberinsurance) dentro un’insicurezza ontologica intrinseca nella programmazione?
Di quale innovazione culturale abbiamo ancora bisogno per poter comprendere e mitigare al meglio i rischi sociali ed esistenziali (tra mancato patching, collassi del codice e attacchi informatici) connessi alla sicurezza computazionale?
Se la nostra nuova condizione arrischiata è il farsi-mondo del codice, ne va del nostro esser-C.