All’università l’esame di Demografia era un corso negletto, quasi sempre preso sottogamba, e invece mi ha lasciato molte informazioni utili per la vita (per la cronaca rifiutai un 27, con gran stupore del professor Maccheroni, perché ero imbufalito con me stesso sul non aver studiato a dovere). Una di queste nozioni era che l’organismo umano si organizza in funzione delle condizioni ambientali e della speranza di vita: più questa è breve e più quelle sono critiche, più si assiste a un fenomeno solo apparentemente paradossale, ovvero che la luce fra menarca e menopausa si accorcia, riducendo l’età fertile solo al momento di maggior robustezza dell’organismo femminile, mentre la quantità di figli pro-capite si alza.
Di fatto per garantire il prosieguo della specie la ‘natura’ umana (un mix tra l’organismo ottuso di tutti gli altri viventi e le speranze attivamente coltivate da ognuno di noi) cerca di avere un surplus riproduttivo affidabile, a metà fra lo spreco incredibile di una Robinia che ogni anno produce decine di migliaia di fiori e un ragioniere devoto alla partita doppia, tant’è che quando grazie al progresso si allunga la speranza di vita, il numero di figli per coppia scende in modo preoccupante sotto la soglia del 2,1 che segna il confine della decrescita, segno che a quel punto l’unico orizzonte di nostro interesse non è più quello della specie, né quella della famiglia, ma proprio il nostro.
Ora questo tipo di avvenire con sguardo limitato induce anche un diverso rapporto con la Natura, essendoci scientificamente allontanati dal disordine entropico pre-umano adattando l’ambiente in modo sistematico proprio per garantire condizioni ottimali al benessere psico-fisico dell’unico essere realmente interessato a che il mondo circostante non gli sia di impiccio, al contrario degli uccellini del Vangelo per cui il creato resta un dato di fatto.
La goccia di acqua piovana che cade sulla foresta amazzonica è solo lontana parente di quella che nello stesso momento scende sulla Pianura Padana per due motivi, entrambi rilevanti: nella sua caduta quest’ultima viene ‘filtrata’ dall’atmosfera che sovrasta le aree urbanizzate, segnata dalla presenza degli ossidi delle combustioni e dai particolati delle n-attività umane, mentre il terreno che la riceve è da sempre modificato a causa della presenza dell’uomo e delle sue attività ormai millenarie, che ne hanno alterato la composizione sino a livelli molto profondi: per questo quando la pioggia tocca terra e ancor più quando penetra nel terreno, quell’acqua diventa altro dalla sorellastra che nello stesso momento cade in Brasile.
La rinaturalizzazione, diventata un must delle politiche ecologiche, crede sia possibile modificare cinquemila anni di antropizzazione della Natura con un sol tratto di penna che faccia trapassare in gloria il piazzale cementato di un parcheggio urbano nel suolo vergine paludoso attorno al Lago Gerundo, a suo tempo esistente da queste parti prima che qualcuno dei nostri avi canalizzasse e bonificasse la sino ad allora immobile Pianura Padana.
La pioggia, ovvero l’evento connesso all’acqua più naturale che conosciamo, già quando tocca terra è dunque vittima di secoli di civilizzazione. E lo diventa ancor più appena viene conferita a una qualsiasi delle superfici disposte ad accoglierla: l’invarianza idraulica, principio sanissimo secondo cui, quando si urbanizza o impermeabilizza un suolo (costruendo case, strade, parcheggi) non si deve aumentare la quantità e la velocità di acqua piovana che defluisce verso il reticolo idrico, viene declinato dalle leggi in modo leopardesco: si vincolano infatti solo le nuove costruzioni e non quelle già esistenti. Non ha dunque senso applicare l’invarianza idraulica solo a piccolissime porzioni di suolo (il singolo lotto o edificio), senza tener conto del contesto più ampio, poiché non può certo venire ricondotta con successo al singolo metro quadro indifferenziato disconnesso dagli altri metri quadri circostanti. Specialmente se l’obiettivo – peraltro innaturale, poiché un certo livello di allagamento è fisiologico nei sistemi idrici urbani – è quello di impedire che le città si allaghino. Tantomeno, come è noto, terreni de-pavimentati possono tornare allo stato precedente e fungere da drenanti prima che sia decorso un tempo assai lungo, come è altrettanto certo che al contrario terreni fertili, una volta cementificati, muoiono immediatamente da un punto di vista idraulico.
Deve pertanto esistere un’ecologia idraulica che tenga presente l’uomo, anche se ciò contrasta con le visioni degli integralisti per i quali la presenza stessa di un osservatore è disequilibrio. La questione è inevitabilmente complessa, perché mentre le non-soluzioni offerte dalla Natura appena arrivano al piano finiscono inevitabilmente in palude, noi storicamente fuggiamo proprio da quelle paludi e dalla loro malaria: il nostro nuovo equilibrio mette in conto il terreno, i cavi che accolgono le acque non assorbite, le sezioni dei canali destinati ad impedire gli allagamenti, la necessità di dividere le acque contaminate da quelle immediatamente riutilizzabili, garantendo in tutto il ciclo idraulico sino allo sbocco al mare che nessuno patisca danni dalla goccia caduta nel luogo sbagliato.
Ma nel nostro adattare la Natura alla convivenza in ambiti urbanizzati occorre giungere alla considerazione che quell’acqua non è solo la parte di un ciclo, questo sì naturale, di traspirazione, accumulo nuvoloso, pioggia, irrigazione e nuova traspirazione. Proprio nel suo venire accumulata e fatta circolare artificialmente, quell’acqua si trasfigura in modo imprevisto in un altro sistema irriguo regimentato per usi successivi e poi ancora in un sistema di accumulo e produzione di energia elettrica e termica, quando non in un mezzo di trasporto. E tutte queste forme assunte dalla fu acqua piovana devono venire considerate un solo sistema, da tenere in equilibrio.
Potrebbe essere un fantastico esercizio da affidare alla IA, essendo evidente che il numero di variabili, l’estensione e l’interconnessione di tutti i pezzi del puzzle idraulico e le necessità presenti e future di acqua ed energia, richiedono un equilibrio dinamico di grande complessità per poter venire impiegate al meglio. Eppure l’uomo si è semplificato la vita decidendo di non decidere, ovvero spezzettando le competenze per il controllo di quella goccia caduta in una serie innumere di Enti e attribuzioni che impediscono a chicchessia di sostituirsi in modo efficace e organico alla Natura matrigna che oggi ci allaga.
Se il tutto a prima vista pare una nebulosa di principi contrapposti cui pare impossibile dare forma unitaria, in realtà è solo perché noi siamo vittime dell’efficace specializzazione dei tempi, incapace di stabilire una gerarchia di priorità, dove ognuno tira l’acqua al mulino del proprio stipendio. Si guarda solo all’utilità immediata e tangibile, cioè limitare i danni dopo eventi catastrofici, come alluvioni o frane, e non si costruisce invece una scala di valori più ampia, centrata su prevenzione, equilibrio ambientale, resilienza a lungo termine. Una razionale graduatoria delle utilità, dunque, che ecceda la sola di cui ci accorgiamo, ovvero quella del danno patito durante gli eventi eccezionali. Ogni volta che accade un disastro, si dà la colpa al governo in carica, che però scarica sui governi precedenti. È uno scaricabarile infinito, un facile ballo della scopa, perché si può sempre trovare una responsabilità “prima”, nelle scelte umane del passato. Così come esiste una soluzione condivisa da tutti, ma inattuabile, che è quella della rinaturalizzazione: tutti concordano che la soluzione migliore sarebbe restituire spazi ai fiumi, recuperare suolo permeabile, ma in pratica nessuno o quasi è disposto ad applicarla quando riguarda i propri terreni, case o attività. Tutto ciò non determina mai i necessari mutamenti strutturali nella gestione del territorio: non si fanno mai le riforme strutturali di lungo periodo, perché si resta bloccati da interessi particolari, responsabilità scaricate e soluzioni condivise solo in teoria.
Al contrario la cosa più banale da fare per tutte le aree metropolitane sarebbe quella di imporre obbligatoriamente un PGT idraulico che non sia solo difensivo per quanto relativo agli allagamenti, ma anche funzionale e ottimizzato per tutte le utilità idriche oggi sotto-impiegate, dove il ruolo drenante del terreno de-lastricato, il must odierno in attesa di prendere coscienza sul contemporaneo consumo di suolo, entri in un sistema organico di governo del territorio, assieme a tutto il resto dell’esistente.
Il non-governo di natura è la soluzione ottimale solo se nessuno lo guarda, cioè se non ci si scontra con le conseguenze pratiche: appena l’Orfeo ecologico si gira a guardare l’Euridice rinaturalizzata, scopre che rinaturalizzare significa anche riavere ecosistemi meno “addomesticati”, zone umide, ristagni d’acqua. Vedrà dunque solo un nugolo di zanzare e quella che l’Abate Galiani, curioso osservatore delle paludi maremmane dello Stato dei Presidi e del Granducato di Toscana, chiamava la Mofeta: esalazioni malsane come anidride carbonica e idrogeno solforato, provenienti dal terreno, tipiche delle zone paludose e associate a malaria e malessere.