Conoscere, utopia necessaria per il nuovo Millennio (parte 1)

Il rapporto diretto tra studio, lavoro e ascensore sociale è saltato. Rimane la necessità sociale di apprendere a tutti i livelli e per tutta la vita.

Autore

Nicola Zanardi

Data

5 Maggio 2025

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6' di lettura

DATA

5 Maggio 2025

ARGOMENTO

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È difficile per gli scienziati individuare a quando risale la conquista della posizione eretta per l’uomo. Le teorie sono diverse e sempre oggetto di studi. Si parla comunque di milioni di anni fa.

Ma è da relativamente poche migliaia di anni che il lavoro, da essere un atto individuale legato alla sopravvivenza di sé stessi e della propria progenie, comincia un percorso, collettivo e comunitario, che costruisce un primo sistema di interdipendenza tra le diverse competenze, e tra gli uomini e il loro lavoro.

Il primo specialista a tempo pieno fu, con tutta probabilità, un lavoratore del metallo. L’uso crescente della metallurgia per utensili e armi nell’età neolitica (tra l’8.000 e il 3.000 a.C.) vede minatori e artigiani acquisire competenze non banali. E gli agricoltori filare il tessuto per vestiti e calzature. Dalla combinazione di queste competenze, con gli attrezzi e con la terra, nascono le prime irrigazioni, ottenute deviando il corso dei fiumi. Quelle che fanno nascere le grandi civiltà dell’antichità che, ancora oggi, si studiano a scuola.

Dalla fine di questa era al XIX secolo l’attenzione al mondo del lavoro cambia poco fino a quando, a valle di questo percorso, nasce la sociologia, termine coniato dal filosofo Auguste Comte, quasi a metà di quel secolo, che focalizza un tema così importante. Insieme a Herbert Spencer e Karl Marx, i tre, con una formazione filosofica e punti di vista molto diversi tra loro, si addentrano tra cause ed effetti di momenti fondamentali che cambiano la storia, anche se non esattamente contemporanei: la rivoluzione scientifica, la rivoluzione francese e la rivoluzione industriale. Qualche decennio dopo, la sociologia si irrobustisce con altre figure cruciali, tra cui Max Weber e Émile Durkheim. Quest’ultimo individua proprio nell’organizzazione del lavoro, e nella sua conseguente divisione di compiti, un cambio di paradigma a livello globale definendo, già allora, un numero altissimo di competenze e profili di lavoro diversi. 

Questo quadro molto dinamico è ormai proiettato nell’ultimo secolo del Millennio: il più veloce, il più breve, il più drammatico, nella sua prima parte e anche il più denso di scoperte, il più foriero di conoscenza, il più connesso e globale.

Un tempo che raddoppia l’aspettativa di vita dell’uomo stesso, un tempo che rappresenta il miglior dispensatore di speranza mai esistito.

Un secolo che mette sul tavolo della storia, della filosofia, della geografia e, in generale, di tutte le discipline, una serie ininterrotta di interrogativi e di sfide, che nascono dalla possibilità, mai stata così pervasiva, di avere accesso alla conoscenza. Di potersi confrontare sulla base di una strumentazione cognitiva, di connessioni mai esistite prima, di una centralità dei lavoratori e dei loro bisogni che, per la prima volta dalla rivoluzione industriale, mette davanti il lavoratore rispetto al suo lavoro.

Lavoro e computer

Superato il Millennio, una decina di anni fa, Marc Andreessen era già un signore miliardario nel fiore dei suoi  40 anni che si divertiva a costruire società tecnologiche e a fare da supporto ad altre avendo, nel frattempo, creato tra i suoi pari una società di venture capital veloce ed efficiente. Prima aveva inventato Mosaic, il primo browser dopo il World Wide Web, poi trasformato in Netscape movimentando le attenzioni di tanta finanza, di Microsoft e anche del sistema accademico.

Nella cosmogonia di questi ragazzi che, tra gli anni Novanta e il Duemila, avevano fatto letteralmente esplodere Internet e tutti gli infiniti rivoli che sono arrivati fino a noi, Andreessen, rappresentava, e forse ancora rappresenta, un’anomalia. Un mix di visione, incoscienza, pragmatismo e capacità di affrontare i problemi fino a ridurli ai minimi termini per superarli, il geniale imprenditore si è sempre posto molti interrogativi, pur non avendo necessità materiali e navigando in un habitat decisamente unico al mondo come la Silicon Valley.

Con una di quelle definizioni un po’ basiche, tipiche della narrazione americana, prese una posizione molto forte, senza tanti fronzoli: «Il futuro del lavoro può essere riempito solo da due categorie: una in cui sei tu a dire al computer quello che dovrà fare, e l’altra dove è il computer a dire a te cosa dovresti fare». 

Detta così può sembrare una considerazione un po’ tranchant di una persona che ha un peso importante nel mondo in cui si muove e può permettersi di sentenziare dall’alto delle sue fortune, dovute appunto a tecnologia e finanza. In realtà, ha posto sul tavolo un tema centrale di questo inizio secolo da cui occorre partire per provare a capire il nostro presente, prima ancora che il futuro: il rapporto tra uomo e macchina, dove sia l’uomo sia la macchina sono altro rispetto alla produzione, di merci e anche di servizi, che il mondo ha visto fino a poco tempo fa. E, forse senza volerlo, ha anche attirato l’attenzione rispetto al ruolo del lavoro, alla sua collocazione e al suo spostamento sull’asse uomo-macchina sempre più lontano dall’uomo, sempre meno indispensabile dal punto di vista produttivo ma lasciando un vuoto e un abisso di identità all’essere umano complessi e difficili da venire metabolizzati in poco tempo. A livello collettivo come individualmente.

Intendiamoci, Andreessen non è stato certo l’unico a ragionare sul tema del lavoro a partire dal terzo millennio. Da Jeremy Rifkin e la sua provocatoria intuizione sul lavoro a metà degli anni Novanta1, a Jerry Kaplan2, a Daniel Susskind3; da Jason Lanier4 a Evgenij Morozov5, strenue spine nel fianco, lucide e critiche, di un Internet che non è stato (per ora?) quello che prometteva di essere rispetto alla sua accessibilità e a un auspicato incremento della democrazia complessiva. Molte figure autorevoli che orbitano attorno al mondo tecnologico, e non solo, stanno girando intorno a una nuova definizione di lavoro, pilastro economico e sociale che il Novecento ha celebrato nella più folle corsa, fino a ora, della storia dell’uomo.

Andreessen ha toccato un punto centrale, scoperto dal punto di vista etico e filosofico, e tremendamente concreto nei suoi effetti.

Più lontani dal lavoro, più vicini all’utopia

Con tutti altri presupposti, già negli anni Sessanta, era nato una sorta di primo “movimento per il non lavoro” che non era interessato a raggiungere degli obiettivi di lavoro tradizionali e che teorizzava pratiche di vita in grado di poter soddisfare altre necessità: parità ed egualitarismo, qualità di un’esistenza “senza servi né padroni”, un’autostima derivante da contesti di ideali condivisi più che da un’identità battezzata dal lavoro e dal mercato, un rapporto con la natura da trovare, da proteggere o da ritrovare. 

Pezzetti di storia, con qualche modello “alternativo” che è arrivato fino a noi, travolti nel frattempo da una massa di milioni di “soggetti desideranti” di merci, di possesso, di ricchezza, indicatori indiscussi di identità e potere.

Agli inizi degli anni Settanta, prima ancora della diffusione dei personal computer, con l’avvento delle prime tecnologie e dei mainframe nel sistema produttivo e poi via via sempre più dentro le organizzazioni aziendali, alcuni intellettuali, tra cui anche Pier Paolo Pasolini6, hanno iniziato a riflettere sugli effetti di lungo termine della rivoluzione tecnologica di cui, in realtà, si coglievano soltanto i primi vagiti. In questo periodo troviamo le ultime utopie. Prima che, in tutti gli ambiti, siano le distopie a diventare mainstream. 

Tra le utopie troviamo quella di Yona Friedman, architetto ungherese  di origine ebraica naturalizzato francese, che ne sintetizza le condizioni7:

a) le utopie nascono da un’insoddisfazione collettiva;

b) possono nascere solo da un rimedio già possibile in grado di porre fine  a questa insoddisfazione;

c) un’utopia può diventare realizzabile solo se riesce a ottenere un “con-senso” collettivo.

L’utopia, oggi, può realizzarsi attraverso il coinvolgimento dei cittadini nella progettazione del loro ambiente, anche se nella pratica gli esempi di questi processi sono stati molto spesso fallimentari. Potrebbe, però, essere molto più realistica e costruttiva per l’infrastruttura software del mondo, ribattezzata con molto acume e intelligenza il “pianeta latente” dal filosofo Cosimo Accoto8.

Il pensiero di Friedman si nutre delle sue esperienze drammatiche della prigione (verrà arrestato dalla Gestapo come oppositore politico) che, dopo la sua liberazione, lo porteranno a vivere e laurearsi a Haifa negli anni Cinquanta. 

È questo il periodo più fertile in Israele, in cui l’immigrazione è oggetto di un vivere comunitario “senza classi sociali”. Nel 1955, con le dimissioni di Moshe Sharett, figura di raccordo tra le comunità e propugnatore di una linea di relazione costante con la minoranza araba, l’architetto emigra definitivamente in Francia portandosi dietro l’unica esperienza seriamente comunitaria, quella del kibbutz, sorta e attuata fuori dalle città.

In architettura trova sodali nei dieci anni successivi. Per esempio, in Romaldo Giurgola, sul tema dell’importanza delle esigenze umane nella progettazione, e in Paolo Soleri, con la materialità e la manualità di Arcosanti, e ancora nei gruppi Archigram e Archizoom.

Friedman cerca nell’utopia che, per definizione, non arriverebbe mai a una realizzazione, una concretezza che attraversa, prima di tutto, politica e istituzioni fino a innervare gli stessi media.

Comprendere fino a che punto il lavoro è davvero diventato solo un feticcio da cui non ci si può staccare senza perdere la propria posizione sociale; capire se la comprensibile paura, di fronte a una perdita della fonte di reddito fonda-mentale, non possa essere sostituita dal supporto di un reddito universale in grado di sostenere una società basata sull’educazione sono le sfide della società globale di questo inizio millennio. Una società, peraltro, che non condanna mai la rendita e i redditi finanziari, non si scandalizza di fronte alle eredità contemporanee, ormai molto agevolate come quelle per le dinastie monarchiche, ma considera la mancanza di lavoro e la difficoltà a trovarlo, a maggior ragione di fronte a salari irrisori, una vera e propria colpa dell’individuo, dei giovani in particolare. E non una responsabilità della società intera.

E se il lavoro, come appare sempre di più nei sentimenti delle generazioni più giovani, non realizza più la compiutezza di una vita ma risulta un elemento di ingiustizia e di disuguaglianza di fronte alla polarizzazione di ricchezze e povertà sempre più acute, la cultura rimane l’unico elemento che può accompagnare e armonizzare la vita di ognuno con la vita di tutti.

Proprio da una certa idea di utopia dobbiamo partire e, se le prime due condizioni dell’essenziale teorema di Yona Friedman possono essere soddisfatte, è indubbio che un consenso collettivo sull’educazione in quanto energia possibile per il mondo a venire non appare certo una priorità in questo momento.

Eppure ci sono centinaia di milioni di studenti nel mondo, eppure l’insegnante è una figura ancora molto diffusa ancorché meno rispettata, eppure perfino il business legato a istruzione e formazione, due dei pilastri fondamentali del grande ombrello dell’educazione, è ancora molto florido.

Eppure la didattica non ha mai avuto tanti strumenti a disposizione. 

Eppure «l’educazione fornisce la nostra identità, è sapere, è evoluzione umana, è riconoscersi nell’altro, è imparare e poi continuare a ragionare, è lo strumento per avere la stima degli altri, è avere gratitudine e saperla manifestare, è coscienza di esistere»9


Articolo presente nell’Almanacco 2025

Note

  1. J. Rifkin, La fine del lavoro, Baldini&Castoldi, Milano, 1995.
  2. J. Kaplan, Le persone non servono. Lavoro e ricchezza nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Luiss University Press, Roma, 2016.
  3. D. Susskind, Un mondo senza lavoro, Bompiani, Milano, 2022.
  4. J. Lanier, La dignità ai tempi di Internet, Il Saggiatore, Milano, 2013.
  5.  E. Morozov, Internet non salverà il mondo. Perché non dobbiamo credere a chi pensa che la Rete possa risolvere ogni problema, Mondadori, Milano, 2014.
  6. P. P. Pasolini https://www.cittapasolini.com/post/pier-paolo-pasolini-sviluppo-e-progresso-un-testo-del-1973.
  7. Y. Friedman, Utopie realizzabili, Quodlibet, Milano, 1974.
  8. C. Accoto, Il pianeta latente, Egea, Milano, 2024.
  9. D. Demetrio, L’educazione non è finita, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009
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