La biodiversità sembra essere definitivamente entrata nel vocabolario civile contemporaneo, tanto da farne un oggetto di contesa sociale e persino politica. A riguardo, ha contribuito uno spostamento d’asse non di poco conto. Se fino a poco tempo fa la si pensava come la dimensione di uno spazio altro, di nature idilliache e lontane dal processo di civilizzazione, oggi la biodiversità è diventata un elemento centrale dell’agenda dello sviluppo sostenibile delle città. Già qui però sembrano palesarsi alcune contraddizioni che spiegano perché, proprio nella sua ascesa e centralità, si riveli la sua definizione critica. Da ormai alcuni anni le grandi città, da problema per la sostenibilità sono infatti diventate l’epicentro di un nuovo discorso sulle politiche ambientali e di nuovi piani di sviluppo sostenibile. Smart city e transizione verde sono ormai termini entrati nel mainstream.
Più o meno parallelamente, da quando è emersa pubblicamente come tema alla conferenza di Rio de Janeiro del 1992, la biodiversità è passata da tema appannaggio di specialisti, di difficile comprensione ai più, a tema sempre più oggetto di scrutinio e dibattito pubblico.
Proprio in virtù della propria estensione concettuale, definita un ‘termine ombrello’ per indicare la varietà degli ecosistemi, dei geni e delle specie, la biodiversità in parte subisce le stesse dinamiche che possiamo ascrivere a fatti sociali totali come il cambiamento climatico. La biodiversità è uscita dalla torre d’avorio dei centri di ricerca e ha visto scienziati confrontarsi sui media sulla sua rilevanza e priorità politica. E proprio uscendo dal perimetro di un dibattito limitato a centri di ricerca, aree naturali e oasi protette, la biodiversità è divenuta così pubblicamente saliente, che tocca spazi antropizzati tanto agricoli quanto urbani.
Fece scalpore un articolo del 2017 dove il biologo evoluzionista Alexander Pyron sul Washington Post dichiarava che salvare le specie a rischio fosse un falso problema in quanto «l’estinzione è parte dell’evoluzione». Non si fece attendere la risposta pubblica dell’ecologo Carl Safina per chiarire come la chiave dei processi di evoluzione non fosse l’estinzione ma la competizione per la sopravvivenza.
Questo dibattito, avvenuto su un’arena pubblica, mostrava come il tema fosse già oggetto di polarizzazione. In questo, non c’è nulla di anomalo, anzi è nelle fasi iniziali di democratizzazione che una questione scientifica diventa politicamente saliente. Nell’incontro e scontro con i gruppi che abitano una società composta di interessi, valori, visioni del mondo diverse è naturale che si sviluppino istanze inevitabilmente conflittuali.
Così negli ultimissimi anni anche sulla biodiversità urbana è emerso un dibattito, vista la nuova centralità assegnata alle grandi città nella transizione verde. Questo perché storicamente le città sono emerse come ‘macchine per lo sviluppo’, simbolo di un’avanzata della modernità urbana che, mentre creava nuove promesse d’innovazione e progresso, in realtà si manifestavano con nuove forme di accumulazione capitalistica e concentrazione del potere attraverso il consumo di suolo, pratiche di costruzione e forme di vita alienanti e alienate dalla natura. Ed è da questa rimozione che le grandi città sono tornate ad attirare l’attenzione di urbanisti, architetti, sociologi ed ecologi impegnati nella ridefinizione di modi dell’abitare e a ripensare spazi che non hanno più come unico dogma l’‘uscita dallo stato di natura’ attraverso la civilizzazione della produzione e del consumo. Le sfide della biodiversità urbana partono da questo processo di ridefinizione.
Ma anche su questo punto diversi sono i paradigmi e le definizioni con cui si affronta la questione. Soluzioni ispirate da un tecno-ottimismo sulle capacità di modernizzazione ecologica delle nuove tecnologie si mescolano con l’azione di contromovimenti di democratizzazione urbana, nuove forme di ecologia politica che ridefiniscono l’idea di natura, rimettendo in discussione prospettive antropocentriche. Una ridefinizione che è ravvisabile anche in prospettive come quella dei ‘servizi ecosistemici’ che vedono la natura come bacino di servizi per l’uomo, operativizzabile in termini di rapporti costi-benefici e che in alcuni casi propongono di ‘pensare come la natura’ nel concepire strumenti di policy, emulando dinamiche naturali per risolvere problemi socio-ambientali – le cosiddette nature-based solutions.
Certo, la complessità della biodiversità si estende su numerosi livelli. Ma per affrontarla bisogna partire dalle dinamiche delle società umane, dalle loro capacità di definire un limite all’azione nociva per altre componenti viventi dell’ecosistema ma anche di trovare un modello socio-ambientale desiderabile.
Per questo è necessario definire la biodiversità come un rapporto sociale.
Dalla sua definizione dipendono negoziazioni non solo semantiche ma anche materiali. La biodiversità urbana implica una ridefinizione anche dell’idea di conservazione, del perché e del cosa sia auspicabile conservare o rigenerare.
In molti casi, le grandi città sono spazi di generazione di natura spontanea che ha preso il sopravvento laddove si è fermata – non solo simbolicamente – la produzione. Il parco naturale di Südgelande a Berlino è diventato a riguardo un caso di scuola, dove da un ex deposito ferroviario è sorta un’autentica foresta di biodiversità che ospita diverse centinaia di specie. Un progetto che anche in questo caso non è figlio di un’idea astratta di natura ma ha visto un articolato lavoro collettivo dove scienziati, attivisti urbani, attori istituzionali, portatori d’interesse (come la Deutsche Bahn) hanno ridefinito nuovi ruoli e significati della natura in città1. Un tema che necessita di una riflessività capace di ripensare tanto il rapporto tra uomo e natura quanto la desiderabilità delle sue ibridazioni.
Come già suggeriva Bruno Latour, le controversie sulla natura sono forse quelle che più indicano la necessità di un cambio di paradigma nel nostro rapporto ‘ontologico’ con essa, tale da toccare riflessivamente anche la nostra idea di società2. Una riflessività che ci porta a rivedere la definizione di esseri umani che cercano di domare la natura o di costruirne una addomesticata con i nostri scopi, valori, visioni.
Operazione necessaria per evitare anche letture riduzioniste con cui per molto tempo si è percepita la questione ambientale, cioè come una difesa idealistica e astratta di una natura incontaminata che in realtà esprimeva le rappresentazioni di gruppi sociali e ideologici specifici, declinabili in certi casi in idee esclusive di purezza, che fosse una natura come bene di lusso, quindi con connotati di classe, o in altri casi espressione del legame tra terra e sangue, quindi con connotati nazionalisti o razzisti. O ancora una purezza figlia di un pensiero esotico che propone identità altrettanto feticizzate, come la purezza del mondo indigeno e non corrotto dalla società occidentale.
Per questo il dibattito sulla biodiversità urbana deve innestare una nuova riflessività nel rapporto tra saperi scientifici e processi democratici. Il rischio altrimenti è che si riproduca un discorso di polarizzazione dove la scienza diventa ‘la politica con altri mezzi’ in maniera simile a come è attualmente il dibattito sul cambiamento climatico.
L’entrata nella sfera pubblica del tema del cambiamento climatico, che tocca direttamente la dimensione degli interessi e dei valori – quali misure proporre per il contenimento e la trasformazione della produzione e del consumo, quali comportamenti regolamentare – ha portato infatti il discorso scientifico a operare in un’arena in cui non è tradizionalmente abituato a muoversi. Da lì immediatamente ha subito una varietà di attacchi e mobilitazioni, di argomenti scettici e negazionisti: dalla comunicazione pseudoscientifica all’astro-turfing, al finanziamento di think tank o movimenti di opinione pretestuosamente mobilitati contro gli scienziati del clima, dipinti come i cospiratori di una ideologia liberticida.
E così come si è diffuso il quadro cognitivo semplicistico per cui ‘i cambiamenti climatici ci sono sempre stati’, anche sul tema della biodiversità il discorso della negazione è emerso sulla stessa falsariga per cui ‘l’estinzione di specie è un processo naturale dell’evoluzione’.
È chiaro come in entrambi i casi con brevi battute fanno breccia nella sfera pubblica argomenti fittizi con cui si negano evidenze di base, come un’accelerazione dei processi di surriscaldamento e di estinzione, senza precedenti per ampiezza e scala degli effetti.
Come in altre questioni ambientali urgenti, la ridefinizione del rapporto tra scienza e democrazia sulla biodiversità deve portarci a saper riconoscere e distinguere le diverse ragioni dal relativismo strumentale.
La riflessività non sostiene l’equiparazione del valore di tutti gli enunciati ma impone di avere chiare le implicazioni politiche delle definizioni e quanto esse siano ‘performative’, ovvero definiscano già gli strumenti che mettiamo in campo per affrontare un problema pubblico.
Porsi dal punto di vista della conservazione di spazi di natura cresciuti spontaneamente o progettare nuove costruzioni che offrono nuovi spazi verdi sul mercato può in alcuni casi non essere in contraddizione (anche se in altri casi sì…) ma richiede comunque di avere bene chiaro gli effetti tangibili e misurabili di una biodiversità sostanziale e non decorativa.
Al contempo, fare della natura un ‘servizio’ implica ulteriori contraddizioni. Dal punto di vista culturale, è problematica la promozione di un’idea di ‘capitale naturale’ che è un’ulteriore forma di mercificazione. Dal punto di vista politico, non può essere rimossa la questione della riproduzione degli attuali assetti di disuguaglianza sociale e l’asimmetria di potere in natura.
La prima domanda che anche una prospettiva che economicizzi la biodiversità non può rimuovere è che tipo di economia della natura sia preferibile e a che idea di giustizia e redistribuzione si ispiri. È auspicabile per esempio fare della biodiversità un bene privato?
Molti dei processi di polarizzazione sociale attorno alla transizione verde dipendono infatti dalla questione di chi paga e chi rimane escluso dalle misure messe in atto.
La transizione verde non è semplicemente un processo di mitigazione delle nocività ambientali o di adattamento a uno stato ambientale. Come il diritto alla salute va oltre l’assenza di malattia o infermità per definire il diritto al più alto godimento dello standard di salute fisica e mentale, così anche il diritto a un’ambiente sano va ben oltre l’assenza di nocività.
Il rapporto con la biodiversità nelle grandi città richiede allora un dibattito che affronti l’idea di un nuovo rapporto sociale tra natura e cultura, dove le competenze scientifiche sappiano informare, riconoscendoli, bisogni e diritti che vanno affrontati collettivamente in quanto pienamente politici.