Verso una società dell’educazione (parte 1)

Mentre vanno modificandosi la centralità e il senso del lavoro, siamo diventati 'discenti a vita', che imparano e si formano dall’età prescolare fino alla fine dell’esistenza.

Autore

Nicola Zanardi

Data

17 Giugno 2024

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6' di lettura

DATA

17 Giugno 2024

ARGOMENTO

PAROLE CHIAVE


Educazione

Lavoro

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Il lavoro si è rotto. Una frattura importante, difficile da sanare. E si è rotto il rapporto tra percorsi accademici, mondo del lavoro e ascensore sociale, caratteristica che aveva attraversato – rassicurandolo – tutto il Novecento.

Il passaggio naturale e fluido tra studio e lavoro, in parallelo con l’ascesa sociale che ne aveva definito i parametri, si è interrotto e riguarda ormai solo alcune nicchie. Così come la tutela del posto a vita ha lambito gli ultimi boomer e le loro pensioni, ma oggi non è più certo l’asse portante del mondo dell’occupazione.

Una rivoluzione che sta modificando profondamente il senso del lavoro, la sua centralità, il suo essere orgoglio e condanna, fondamento ed essenza dell’essere umano.

Nel frattempo siamo diventati ‘discenti a vita’, a partire dagli ambiti particolari via via fino alle università e, più tardi, alle specializzazioni e ai rifornimenti di conoscenza necessari allo svolgimento e al mantenimento di buona parte di ogni attività.

L’ignoranza paradossalmente è determinata proprio dalla formidabile crescita della conoscenza e della facilità di accesso alla stessa. Ora miliardi di persone sono sommerse da un flusso di informazioni e saperi mai visto nella storia dell’uomo. Ma le abilità cognitive con cui si decodifica il flusso sono ancora quelle dell’epoca industriale: il leggere, scrivere e far di conto. Quindi il deficit cognitivo è determinato, anche e soprattutto, proprio dalla scarsa capacità sociale di metabolizzare la crescita della conoscenza. Da qui deriva anche una permeabilità delle popolazioni verso i fondamentalismi, i razzismi, le chiusure a priori.

La nuova epoca dell’apprendimento può e deve quindi andare in profondità, fino a illuminare il lato oscuro della società contemporanea. Alcune domande cruciali non hanno più risposte scontate: che cosa è il lavoro oggi, quanto è necessario, quali competenze servono?

A parte una generica richiesta, esclusivamente quantitativa, di aumento di produttività, si fa fatica oggi a dare un ruolo al lavoro come indispensabile alla società, al sistema produttivo, ai lavoratori stessi, come nel secolo scorso. Anzi, moltissimi lavori, forse la maggior parte, sono diventati inutili o ridondanti perché sono all’interno di mercati che hanno cambiato tutti i loro punti.

Contemporaneamente anche la formazione (che include istruzione e apprendimento) sta modificando orizzonti e posizioni. Che cosa può derivare dalla separazione, sempre più evidente, tra modalità e contenuti della formazione e necessità, se ancora sono definibili, del mondo lavorativo?

Sta prendendo piede un fenomeno che alcuni epistemologi, Mauro Ceruti per esempio, hanno già ipotizzato per l’intera società: il superamento della serialità e della continuità del lavoro (posto fisso, certezze assolute a vita, saperi come asset immutabili oppure scalabili gradualmente) che le società del Novecento, disegnate dalla rivoluzione industriale, proponevano.

Una destrutturazione ormai costante porta, invece, la società a configurarsi come una struttura simile al Dna. Basata cioè sulla discontinuità, sulla mancanza di una visione semplificata ma spesso ridondante e replicante, proprio come buona parte del genoma. Una società che si stacca dal modello protettivo delle regole dei sistemi produttivi legati all’economia e ai mercati di riferimento e si focalizza su temi più legati alla condivisione, alle prospettive, a utopie rese più urgenti e vive dall’aumento delle diseguaglianze anche all’in- terno delle stesse aree geografiche. Una società più fragile e più frammentata. Più esposta e più diseguale.

Una società che cerca di rimanere ancorata allo scoglio del passato mentre meccanismi di welfare, peraltro già esistenti in molte società, hanno incominciato a considerare che l’uomo possa non avere il lavoro come scopo principale.

E che anche la produzione di beni e servizi, potenzialmente infinita, si debba necessariamente confrontare con le urgenze planetarie, a partire ovviamente da quelle più immediate.

Con tutte le cautele e la ragionevolezza del caso, in questo Almanacco formuliamo un’ipotesi per cui i saperi sono fondamentali per una convivenza universale e l’apprendimento costante è utile anche al di là di una dinamica di lavoro. Una società dell’educazione che sia capace di superare il suo versante produttivo per rimettere al centro elementi di coesione fondamentali in un contesto globale che, dall’asimmetria economica e culturale contemporanea, sta ricevendo segnali crescenti di estremo disagio e richieste di nuovi paradigmi, ancorché difficili da definire.

La domanda sottesa è come possiamo utilizzare l’enorme mole di conoscenze degli ultimi decenni, che stiamo ancora sedimentando, affinché un mondo che è passato, in cinquant’anni, da tre a otto miliardi di persone, possa avere linguaggi e obiettivi che riescano a tenere insieme i percorsi individuali e di comunità, piccole e grandi che siano e quelli globali e a non escludere nessuno.

Dopo tanto hardware, inteso come strutture, infrastrutture, interventi spesso irrazionali dell’uomo sulla natura, ci sarà la possibilità per una società dell’educazione che faccia di ogni tipo di apprendimento uno strumento per la soddisfazione individuale e collettiva e non solo per il profitto di pochi a discapito dei più e soprattutto dell’esistenza del Pianeta?

Possiamo entrare in una civiltà del software dove l’incredibile biodiversità di competenze dell’uomo possa essere innervata e manutenuta dai saperi, dalle conoscenze e dai confronti oggi accessibili? Ovviamente sia le competenze sia i saperi poggiano sempre su competenze e saperi preesistenti, così il tema dell’ac- cesso fa sì che il vero gap tra Paesi più o meno sviluppati stia sempre in una differenza di conoscenza più che di risorse. Le società più aperte alla conoscenza hanno un vantaggio competitivo, anche e soprattutto nel mondo del lavoro, ma il tema che questo numero vuole trattare è proprio il fatto che l’educazione attraverso l’apprendimento possa essere un catalizzatore sociale che ha una funzione per tutti quelli che appartengano alla società stessa, nessuno escluso. E che l’identità di una persona possa essere affrancata dal suo avere o meno un ruolo lavorativo, ma le sue competenze possano comunque essere utili a una vita di relazioni individuali e collettive.

Non era mai successo, nella storia dell’uomo, un salto di scala così importante a partire dalla crescita demografica lanciata dal Novecento, il secolo più denso di sempre di innovazioni e di altrettante tensioni globali. Una crescita che è figlia di quei canali e collanti fondamentali che sono i saperi, della loro crescente accessibilità, dell’avanzamento enorme in tanti settori a partire da quello della salute, da igiene e alimentazione fino a tutte le tecnologie. Si può sempre imparare di più quando a disposizione c’è sempre di più da imparare.

E non era mai successo neppure che si discutesse in maniera così trasversale e con diversi approcci sull’opportunità di un reddito universale, anche se, in qualche caso e in alcuni paesi, qualche tentativo dagli anni Settanta in poi è stato fatto. Per molto tempo c’è stato un atteggiamento fin troppo benevolo verso la rendita mentre la difficoltà crescente a trovare lavoro, anche possedendo tutte le competenze del caso, veniva visto come una sorta di colpa verso la società.

Nel nuovo millennio le tecnologie, da una parte, e la finanza, dall’altra, hanno tolto centralità al ruolo del lavoro, mentre l’Accademia cerca di mantenere saldi i suoi principi eludendo profondi elementi di cambiamento:

a. l’interrompersi del flusso naturale tra livelli di formazione e livelli di occupazione, anche e soprattutto per un eccesso di domanda dovuto alla sua sempre maggiore inessenzialità;

b. la difficoltà della maggior parte degli impianti didattici e formativi dentro l’Accademia di fornire risposte a una domanda di formazione legata a lavori reali e utili alle esigenze odierne;

c. la necessità sempre più urgente degli individui, causa delle due condizioni di cui sopra, di una sempre maggiore autonomia rispetto al lavoro e di un approccio all’apprendimento costante con percorsi sempre più personalizzati di un’autoformazione permanente.

Autoformazione, autonomia e apprendimento sono ingredienti che sovrappongono vita e lavoro e ne indeboliscono i confini, aumentando le difficoltà di approccio a un mondo che ha caratteristiche nuove e sorprendenti. Un mondo dove l’utopia possa trovare un linguaggio e forme di collaborazione che materializzino un lavoro mai così lontano dall’uomo, dalla rivoluzione industriale in poi. Tenendo in considerazione che il linguaggio digitale a ben donde può essere considerato il primo esperanto globale realizzato, una risorsa tal- mente potente da andare oltre ogni frontiera o confine.

Tra gli effetti collaterali della globalizzazione finanziaria e della lievitazione continua della strumentazione tecnologica troviamo, inoltre, una riduzione consistente e severa della quantità di persone legate ad attività lavorative garantite e durature, nelle grandi come nelle piccole e medie aziende.

C’è meno lavoro dipendente, c’è più lavoro autonomo spesso obtorto collo, c’è un lavoro sempre più distribuito e poi aggregato, c’è una necessità globale di flessibilità mentale e per un apprendimento sempre più veloce e costante delle tecnologie che abilitano e definiscono professioni sempre più diverse, sempre più specialistiche ma anche, in molti casi, più effimere.

Mentre bio, nano, info-scienze, da una parte, e la centralità della strumentazione scientifica e tecnologica dall’altra, sono i paradigmi su cui avviene il confronto, didattica e formazione vedono sempre di più una prospettiva di contrasti. Da una parte vi è una difficoltà oggettiva a inseguire e a fornire le competenze che servono, o dovrebbero servire, al lavoro che rimane. Dall’altra, l’opportunità di diventare il centro di gravità permanente di una società fondata sull’educazione e le sue diverse risorse (istruzione, didattica, formazione, reskilling ecc.) a prescindere dall’identità lavorativa, che potrebbe andare ad assumere un posto meno centrale o addirittura inesistente nella vita di una grande parte del genere umano. Soprattutto in Occidente, per ovvi motivi demografici, non ultimo un importante allungamento della prospettiva di vita, ma anche in altre parti del mondo, perché le urgenze climatiche impongono cambiamenti definitivi alla produzione dei beni e, ormai, anche dei servizi. Tecnologie comprese, troppo energivore e bisognose di materiali e terre non così facilmente disponibili sul Pianeta.


Parte 2.

Questo contenuto è presente nell’Almanacco 2024 di Equilibri.

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