È saltato uno di quegli assiomi che ha attraversato il Novecento, ascritto a Joseph Schumpeter, brillante economista e pensatore austriaco emigrato negli Stati Uniti all’avvento del nazismo. La sua ‘distruzione creatrice’ per cui la spinta dell’innovazione poteva azzerare aziende, produzione e profili lavorativi per generare, con un processo selettivo, un livello più alto, con nuove professioni, nuovi prodotti e nuove aziende non funziona più, almeno per quanto riguarda i lavoratori. Molti lavori diventano obsoleti ma non se ne creano abbastanza di nuovi, le tecnologie corrono veloci verso una completa automazione e le logiche produttive si orientano sui mercati di nicchia verso chi possiede ricchezze, con margini più alti e sicuri.
Un altro economista importante come Vilfredo Pareto definendo l’efficienza dei mercati ricordava che i mercati «non possono migliorare le condizioni di qualcuno senza il peggioramento delle condizioni di qualcun altro». E nessuno ha ancora dimostrato che i mercati siano efficienti sotto il profilo dell’innovazione e dei suoi processi di apprendimento, anzi. Il premio Nobel Joseph Stiglitz conferma la pervasività dei fallimenti del mercato nella produzione e nella disseminazione di conoscenze. Anche perché l’innovazione, più che essere elemento di efficienza dei mercati, nel suo pensiero deve rimanere oggetto di policy pubbliche.
La ‘distruzione creatrice’ di Schumpeter, in questa fase storica che ha comunque un dinamismo globalizzato, fa fatica a generare nuovi lavori ma viene ancora utilizzata come un mantra purtroppo smentito dai numeri.
L’ipotesi più probabile, e in questo l’Europa è già un laboratorio vivente, è che nel giro di qualche decennio la maggior parte della popolazione si sia ritirata dall’attività lavorativa ma abbia ampie prospettive di esistenza, mentre dietro di essa, pur con il calare della natalità, un numero piuttosto esiguo potrà accedere al mondo del lavoro salvo per quelle prestazioni che attengono ai beni essenziali (salute e alimentazione, caregiving e, appunto, educazione intesa in senso lato).
Se estendiamo queste considerazioni di inizio millennio a un’ottica e una visione globale, possiamo immaginare una società che fa dell’educazione e dell’apprendimento la sua cifra identitaria, in grado di sostituire quel lavoro ormai relegato ai livelli bassi della catena? Quanti milioni addirittura miliardi di persone potrebbero non lavorare più nella produzione di merci e servizi perché via via sostituite dalle macchine?
C’è una forte richiesta politica in questa domanda, ormai decisamente inevasa per mancanza di idee, di conoscenza, di modelli e anche appunto di utopie. Appare disperatamente difficile affrancarsi da un moloch pervasivo e straripante come quello della politica e dalla sua impotenza nel gestire il potere non conoscendo il sapere, materia prima del secolo in corso. Così come da quello altrettanto centrale e imponente del lavoro. O meglio della sua idea. Perché i numeri di questo momento storico ci dicono, soprattutto in Occidente, che è il welfare l’ultima eredità rimasta alle politiche pubbliche. Industria, agricoltura e servizi afferiscono solo in parte al pubblico e alle sue politiche. E spesso solo in termini di lobby per i più forti. Il pensare che nascita e rafforzamento delle democrazie fossero in grado di risolvere molti problemi e soprattutto di migliorare l’uomo e i suoi istinti solo tramite regole più o meno condivise, a prescindere dalle ideologie che ne definivano l’appartenenza, ha accompagnato ogni nostro atto verso il futuro in tutto il Novecento.
Dobbiamo ormai assumere la consapevolezza che la politica ha esaurito progressivamente il suo ruolo nella seconda parte del secolo scorso e la natura sta riprendendo, con i suoi tempi quasi sempre dettati dagli errori umani, la sua centralità. Che le democrazie rimaste si ammalano con più frequenza e i movimenti collettivi hanno sempre più spesso un collegamento diretto e ostinato più sul versante delle ideologie ideistiche che non su quelle dei valori.
Una timida ipotesi che proviamo a offrire in questo articolo è pensare appunto a una grande società globale dell’educazione che, in tutte le sue forme, possa diventare il collante di una società i cui prodotti e servizi essenziali sono sempre più commodity e il resto va oltre la ridondanza, piuttosto pericolosa per un Pianeta che ha visto aumentare densità dei suoi abitanti e dei consumi con gradienti impressionanti.
Crediamo sia importante tornare tutti a una scuola anche metaforica, e a un mindset che veda – nell’apprendere per sempre – una scelta di saggezza e di consapevolezza, in tutti i processi vitali, dai consumi alla distribuzione della ricchezza.
Una società dell’educazione, fondata sulla condivisione e sull’applicazione di saperi – capacità di messa a terra che peraltro, salvo illuminate eccezioni, non fa più parte del set cognitivo del potere politico e finanziario – può superare l’era del lavoro sempre meno indispensabile ma sempre evocato da una politica globale che usa categorie del Novecento? Per rimanere in Italia, oggi in più di un terzo delle province, abolite ma mai estinte, le persone che non lavorano o sono ritirate dal lavoro hanno superato quelle in attività. Un superamento che ineluttabilmente si estenderà a tutte le altre province, in meno di dieci anni. Possiamo immaginare una società i cui componenti siano allo stesso tempo docenti e discenti, dove tutti apprendono e dentro un sistema imperniato su questo valore ognuno possa insegnare qualcosa all’altro?
Possiamo pensare che la produzione, e non la iperproduzione, viste le condizioni di sostenibilità globale cui siamo giunti, possa essere sempre più nelle mani della tecnologia senza che la nostra identità di genere umano venga privata dalla mancanza del lavoro, ma anzi diventi una risorsa per assecondare capacità e passioni?
Possiamo accettare un’umanità talmente scissa da polarizzazioni di ricchezza (sempre più per pochi in termini universali) e povertà (a numeri crescenti in ogni latitudine) da non riuscire a ricucire nessun contenuto che non sia riconducibile al denaro? Il tema non è più confinato a capitoli di utopie che hanno attraversato i secoli, da Tommaso Moro a Francesco Bacone e Tommaso Campanella, arrivando all’Ottocento e a qualche ipotesi più circoscritta nel secolo scorso. La parola utopia è passata, nel corso del tempo, dalla definizione di un ideale o una perfezione virtuosa da perseguire nella creazione di una società pacifica e prospera fondata su tolleranza e cultura a un significato di irrealtà, di impossibilità di realizzazione. A volte è stata addirittura foriera della sua opposta distopia e dunque di distruzione, o comunque di un drastico e definitivo calo di fiducia riguardo alle capacità collettive di realizzare un positivo rinnovamento politico e sociale, di interpretare e rilanciare idee e visioni. Nonostante queste caratteristiche, riteniamo che l’utopia abbia ancora un enorme valore prospettico all’inizio di questo Millennio. Nei suoi numeri essenziali, l’Europa, il continente più vecchio e carico di gloria e di civiltà passata, sta vivendo al suo interno uno scontro tra i fattori di economia, produttività e demografia in calo verticale, e quelli della finanza, dell’automazione e delle migrazioni.
Costruire una società dell’educazione vuol dire provare a dare un senso diverso alla vita di otto miliardi di persone, che diventeranno dieci in meno di trent’anni. Vuol dire dare un linguaggio valoriale a una biodiversità inedita nella storia dell’uomo. Vuol dire dare uno spazio alla spiritualità, che ha una sua biodiversità e che deve essere oggetto di insegnamento, a prescindere dall’ab- bracciare un credo, una fede, una ideologia.
Una società dell’educazione può essere un antidoto a un universo che vede il lavoro come unica leva per finanziare istituzioni e servizi collettivi, mentre in buona parte del mondo continua a considerare la rendita di ogni tipo come un valore intoccabile e non suscettibile di una tassazione adeguata. Gran parte di quel lavoro è inutile da ormai decenni, annidato dentro superfetazioni complesse, nel cuore dei sistemi pubblici e privati, una sorta di forma indiretta di reddito di cittadinanza.
La politica è bloccata ormai da decenni sul qui e ora, in una sindrome di Stoccolma con i media, ma le società e i cittadini hanno il dovere di immaginare, di pensare, avere visioni per la loro sostenibilità e quella del Pianeta che gentilmente ospita tutti noi. E non esclude nessuno.
Questo contenuto è presente nell’Almanacco 2024 di Equilibri.