Le tentazioni della carne (sintetica)

La carne sintetica ha riattivato un dibattito che, partendo dal nostro piatto, coinvolge (e stravolge) il rapporto tra scienza, etica, diritti degli animali e sostenibilità.

Autore

Riccardo Emilio Chesta

Data

10 Giugno 2024

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6' di lettura

DATA

10 Giugno 2024

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L’arrivo della carne sintetica sui mercati ha riattivato un dibattito che parte dal nostro piatto, dalla sfera solo apparentemente individuale delle abitudini e pratiche alimentari, ma che coinvolge (e stravolge) il rapporto tra scienza, etica, diritti degli animali e sostenibilità. Come in altri casi, per certi versi in maniera simile all’arrivo degli OGM in agricoltura (ma per certi altri no), il nostro rapporto con l’innovazione tecnologica si fonde con la voce dei portatori di interesse e ridisegna una geografia economica di vincenti e perdenti dell’innovazione. È ancora una volta la politica, come strumento di decisione, che arriva dentro una pratica fondamentale della nostra sfera privata, il cibo e il rapporto con ciò che è definito commestibile, ma anche a elementi ben più alti, come il diritto dei viventi.  

L’arrivo della carne sintetica apre una tra le congiunture critiche più rilevanti nella storia mondiale e invita a riflettere ancora una volta sul nostro rapporto con la carne e i suoi significati.

La carne è una delle più tangibili manifestazioni dell’esperienza umana. Tanto materiale e sensibile quanto oggetto di ritualizzazione culturale, la carne suscita reazioni forti e contraddittorie, sin dalla notte dei tempi. Così ne è anche del suo consumo, oggetto di pratiche culturali – che si definiscano alimentazione o cucina –, che è immancabilmente presente in tutti gli stadi della civiltà umana. Lo è tanto per la stessa sopravvivenza materiale – l’autoriproduzione biologica – di una società quanto per quello che Norbert Elias aveva definito il ‘processo di civilizzazione’ 1, il suo autonomizzarsi come cultura che regna autonoma, libera dalla necessità materiale. Ed è proprio su questa dialettica tra stato di natura e mondo della cultura, tra necessità e libertà che si inserisce la prima dimensione critica del nostro rapporto alla carne come oggetto di consumo. Ancor di più oggi, con le nuove frontiere della ‘carne sintetica’ che si stanno imponendo con forza, preannunciando una rivoluzione nel modo di concepire questo rapporto, non senza innescare processi di politicizzazione della issue che, andando oltre un discorso determinista sulle opportunità tecno-scientifiche, sconfinano nell’etica, nel rapporto uomo e natura, uomo e animali, diritto alla vita del vivente.

Una geografia materiale e culturale

La grande portata politica della sfida della carne sintetica sta nel portarci a rileggere la stessa evoluzione delle nostre società, il modello di benessere che ha proposto e le sue criticità spesso rimosse.

Se il consumo di carne è stato a lungo preso a indice del progresso materiale che nei Paesi occidentali si è registrato con l’industrializzazione del secondo Dopoguerra, lo è stato anche in una fase successiva, su una scala geografica più estesa, nel momento in cui altri Paesi iniziavano ad affacciarsi sulla scena globale. 

L’industrializzazione della carne ha in primis scardinato le tradizionali relazioni tra uomo e animale che avevano dominato le società agricole. La massificazione della produzione e del consumo di carne ha quindi de-significato diversi aspetti di questo rapporto a partire dall’atto della macellazione e il suo legame con forme di ritualizzazione specifica. Ma al contempo, proprio per questa de-significazione le società a capitalismo avanzato hanno dovuto ri-significare la carne come merce e prodotto che non è solo sostanza materiale ma che, marxianamente, è anche geroglifico sociale con cui comunicare appartenenze e distinzioni. 

Come in ogni processo di diffusione sociale, nel momento in cui il consumo di carne è diventato indice di benessere materiale subito si è tramutato anche in un segno di status e reputazione sociale. Ce lo ha mostrato bene Pierre Bourdieu già nel classico La distinzione2. Cibarsi è molto più che un atto biologico, di autoriproduzione materiale. È in tutto e per tutto un’operazione stratificata, di genere, di classe, di etnia e confessione e al contempo una strategia performativa di rivendicazione di un’identità. Tanto quanto le differenze di consumo di carne tra maschi e femmine certificano, per esempio, quanto sia performativa di una certa masculinità, l’accesso a tipi pregiati o esotici è indice di un potere d’acquisto che ne fanno un elemento di ‘distinzione’ di classe.

Tanto è pervasivo ormai il nesso tra industrializzazione, cultura e carne che si è arrivati a parlare di tale processo con una denominazione specifica, meatification, un processo di riconfigurazione dell’economia e della cultura attorno alla sempre più crescente presenza dell’industria degli allevamenti e che, a seguire, porta sulla sua scia anche l’espansione dell’agrindustria e altre dimensioni che contribuiscono al diffondersi di pratiche insostenibili.

In primis, il capitalismo della carne poggia infatti sulla disponibilità crescente di risorse naturali da trasformare in nutrienti per gli animali che popolano gli allevamenti, con grande e inevitabile impatto ecologico (eloquente è il caso del massiccio incremento della produzione di soia).

Ma l’altra dimensione rilevante del capitalismo della carne è quella culturale che lo configura e giustifica. Un processo di costruzione simbolica che non si lega meramente al diffondersi di una cultura capitalistica che mercifica e disincanta, come lo avrebbe definito in alcuni passaggi Marx. La diffusione geograficamente clusterizzata dell’industria degli allevamenti di polli e di maiali ha legami diretti con il radicamento di determinate confessioni religiose. Lo storico dei numeri della diffusione dei macelli è abbastanza chiaro. Dalla fine anni Settanta a oggi, mentre la popolazione mondiale è appena duplicata, gli animali macellati sono quadruplicati. Secondo i dati della FAO (Nazioni Unite), sono circa 80 miliardi all’anno gli animali macellati. Disaggregando tale dato spiccano 73 miliardi di polli (circa 220 milioni al giorno), tanto da far parlare di poultryfication, un dominio globale dell’economia del pollo legato all’ascesa dei BRICS e alla ridefinizione delle relazioni tra Nord e Sud globale.

La critica dei movimenti animalisti

Non è da oggi che il processo di critica delle abitudini alimentari si intreccia con la critica del rapporto tra umani e non umani, assumendo una dimensione conflittuale, politica.

Nelle nostre società occidentali è più o meno dal dibattito sorto a metà degli anni Settanta attorno a Liberazione animale 3 di Peter Singer che la questione ha assunto i connotati di critica all’epistemologia ‘specista’ antropocentrica per diventare movimento di azione collettiva, che lega il ‘privato’ del consumo individuale di carne animale con il ‘politico’ del diritto alla vita e alla pratica della non-violenza.

Il tema del consumo di carne come atto di violenza e della sua industrializzazione come sua organizzazione è un tema che intellettuali e movimenti animalisti hanno ripreso ispirandosi ai teorici critici. Su questa continuità si può vedere anche chi, come lo scrittore Charles Patterson, ha lavorato sulla linea di continuità tra olocausto e sterminio animale, sintetizzata dalla celebre metafora di un ‘eterna Treblinka’ che dà il titolo al suo libro4. Nell’opera, il tema della sofferenza animale è introdotto con un celebre passaggio: «Auschwitz inizia ogni qualvolta un uomo guarda a un mattatoio e pensa: non sono che animali». Una reinterpretazione dell’aforisma adorniano ‘Gli uomini ti guardano’ contenuto nei Minima Moralia 5.

Per Patterson, così come i nazisti si ponevano al vertice delle razze umane, così lo specismo si arroga il diritto di decidere della vita di altre specie. Come conseguenza organizza una ‘razionalità mostruosa’, un’industria dello sfruttamento animale che rimuove agli occhi del mercato di massa le operazioni della violenza, addestrando funzionari che rimuovono l’idea e il sentimento di decidere della vita di altri soggetti senzienti.

Su tale dialettica, la critica del nesso tra progresso ed emancipazione arriva a configurarsi per l’antropologa femminista e animalista Barbara Noske come un ‘complesso animale-industriale’6 che attualmente, con le nuove sfide della nuova ‘carne sintetica’ sarebbe nuovamente sottoposto a critica dalle nuove opportunità tecno-scientifiche.

La politicizzazione della carne sintetica

La carne assume dunque una questione politicamente saliente, rimettendo in discussione il rapporto tra uomo, animale e ambiente, ridiscutendo il modello del benessere a partire da una critica che lega il nostro piatto con l’organizzazione industriale del macello di animali. È in questo rapporto che si realizza lo scontro tra culture materiali ed etiche, le definizioni e i significati collettivi conferiti all’umanità, al rapporto con gli animali quanto alle tradizioni alimentari, o alle concezioni di sovranità alimentare, agli interessi di allevatori e multinazionali. 

Il tipo di vita condotta negli allevamenti è oggetto da anni di critica da parte dei movimenti animalisti e per la liberazione animale. In tale arena, le azioni anche dirompenti dei movimenti che si oppongono alle condizioni di sfruttamento e violenza a cui sono sottoposti gli animali hanno riguardato una varietà di dimensioni, dai luoghi fisici sovraffollati, malsani in cui sono costretti, al complesso scientifico che li reifica, medicalizza e trasforma artificialmente in materia da macello.

Con l’arrivo della sperimentazione della carne in vitro, il capitalismo della carne è ora di fronte a un bivio. La creazione di carne da cellule di animale porrebbe fine a uno sfruttamento organizzato su tale scala. L’approvazione e la commercializzazione in Paesi come Singapore, Usa, Olanda è il segno di una ridefinizione non solo tecnologico-produttiva, ma anche culturale. È questo un punto di svolta che richiede però alle società di ridefinire il proprio rapporto tra uomo e animale prima che alla carne. L’industria della carne così come l’abbiamo conosciuta è insostenibile per l’ambiente e la sua logica capitalistica di per sé poco ha fatto per ridurre il problema della fame nel mondo. Il principio di precauzione riguardo i rischi sanitari derivati dalla diffusione della carne in vitro è giusto tanto quanto le evidenze sulle ripercussioni negative che l’attuale carne industriale produce. Il tema è quindi di assoluta centralità e non può essere limitato ad argomentazioni strumentali o ridotto a negoziazioni lobbistiche. Sul piatto sono serviti argomenti etici, filosofici, politici di grande rilevanza: libertà e diritti dei viventi, sostenibilità del pianeta, autonomia alimentare, limiti alla mercificazione ed emancipazione dallo sfruttamento.

Note

  1. N. Elias, Il Processo di civilizzazione, Il Mulino, Bologna 1982.
  2. P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna 2001.
  3. P. Singer, Liberazione animale, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1991.
  4. C. Patterson, Un’eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l’Olocausto, Editori Riuniti, Roma 2002.
  5. T.W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1954.
  6. B. Noske, Humans and Other Animals, Routledge, London 1999.
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