L’estrazione dei minerali è da sempre stata un’attività di fondamentale importanza per l’economia globale. La transizione energetica, inoltre, con il tassello dell’elettrificazione di molteplici settori produttivi e non, sta ponendo i riflettori sui cosiddetti materiali critici, essenziali per la produzione di batterie.
Tuttavia, come per ogni risorsa di natura limitata, la loro estrazione è spesso accompagnata da complessità che vanno oltre l’aspetto economico.
La comunità internazionale ha cercato di intraprendere alcuni passi per separare l’estrazione mineraria da conflitti armati. Un esempio è il Processo di Kimberley, che ha portato alla creazione di una certificazione che garantisce che i profitti ricavati dal commercio di diamanti non vengano utilizzati per finanziare guerre civili. Un altro esempio riguarda le 3T (tin, tantalum, tungsten – stagno, tantalio e tungsteno), designate come conflict minerals dall’OCSE, poiché spesso vengono utilizzate come fonte di finanziamento illecito da diversi gruppi armati che ne controllano le miniere, e sono quindi fortemente interconnesse con conflitti armati e abusi dei diritti umani.
Ci sono, tuttavia, molte altre situazioni che rimangono ancora poco esplorate e quindi poco regolamentate. Una vicenda particolarmente complessa è quella della Repubblica Democratica del Congo (RDC), dove viene estratto oltre il 70% del cobalto di tutto il mondo.
Il cobalto è un minerale peculiare perché è utilizzato nel catodo di quasi tutte le batterie agli ioni di litio in circolazione. Grazie a prestazioni, efficienza e sicurezza superiori rispetto alle batterie convenzionali, queste ultime sono diventate la tecnologia principale per l’accumulo e lo stoccaggio di energia.
Anche la RDC è un paese peculiare, indebolito da anni di conflitti etnici, violenze tra gruppi armati, alti livelli di corruzione e dalla crisi sanitaria dell’Ebola. Senza dimenticare la cosiddetta ‘maledizione delle risorse’: il suo territorio è infatti ricco di cobalto, coltan, rame, oro e uranio, che contribuiscono ad alimentare conflitti interni e a opprimere la popolazione generale, tra le più povere al mondo.
Infatti, nonostante il Paese possieda alcuni dei giacimenti minerari più ambiti al mondo, il Congo, e soprattutto i suoi abitanti, ne traggono un beneficio alquanto esiguo. Piuttosto, diverse multinazionali sono riuscite a garantirsi una quota significativa della produzione di cobalto, accompagnato da notevoli aumenti di introiti. Tuttavia, diverse ricerche recenti hanno evidenziato che gran parte del cobalto prodotto in RDC è ben lontano dall’essere considerato clean, dal momento che è estratto e lavorato prevalentemente da minatori artigianali.
Fondamentalmente, si tratta di lavoratori freelance che vengono pagati pochi dollari al giorno per lavorare in condizioni estremamente pericolose e in simil-schiavitù. Gli strumenti che hanno a disposizione sono a dir poco rudimentali: picconi, badili, pezzi di armatura per scavare trincee, fosse e gallerie, se non addirittura a mani nude. I crolli delle pareti e dei tunnel, particolarmente frequenti, seppelliscono vivi i minatori (spesso anche bambini, reclutati da gruppi di miliziani) che, se fortunati, ne escono amputati.
Tutto ciò per raccogliere cobalto e poi inserirlo nella catena di approvvigionamento formale. Infatti, quasi tutte le miniere industriali del Paese hanno minatori artigianali che lavorano e scavano all’interno e intorno ad esse. In questo modo, la distinzione tra il cobalto estratto formalmente da escavatori industriali ad alta tecnologia e quello estratto dalle mani dei minatori artigianali diviene incredibilmente labile.
La coesistenza dell’attività mineraria formale e artigianale in Congo non è poi così paradossale, se si pensa che è essenzialmente un modo per aumentare la produzione di cobalto. Siddharth Kara, autore del libro Rosso Cobalto, in cui ha documentato le vite delle persone che vivono, lavorano e muoiono per il cobalto in RDC, ha spiegato così la questione in una recente intervista: «Immaginate di trovarvi in una parte del mondo in cui ci sono milioni di persone che guadagnano a malapena un dollaro o due al giorno, che sono estremamente povere e accetterebbero quasi ogni tipo di lavoro pur di sopravvivere. Bene, metteteli in una fossa stretta, ammassateli con altre 10.000 persone e pagateli un paio di dollari, e produrranno migliaia di tonnellate di cobalto all’anno per un salario quasi nullo. Non è legale, ma sta accadendo».
Se dunque gli abitanti congolesi non stanno traendo particolare utilità dalle risorse minerarie del Paese, chi ne sono i principali beneficiari? Un numero esiguo di compagnie private o a guida statale, incredibilmente potenti e affermate in quanto capaci di operare in un contesto ritenuto troppo rischioso per le aziende occidentali.
Uno sguardo superficiale ai dati potrebbe creare confusione. Secondo lo US Geological Survey, il Congo sarebbe responsabile di quasi il 70% dell’estrazione del cobalto. Sappiamo da chi e come viene estratto, grazie anche alle indagini di diverse ONG, ma per lungo tempo abbiamo assunto che ciò equivalesse al controllo della sua produzione o raffinazione prima di entrare nelle batterie al litio. Tuttavia, solo il 3,5% del cobalto è estratto da realtà congolesi. Allora, chi opera in Congo?
Partiamo da un dato storico. Il Congo è stato da sempre al centro dell’attenzione delle potenze occidentali per le sue risorse minerarie. Prima con l’uranio: fu dalle miniere del Katanga che lo US Army Corps of Engineers ottenne il combustibile per la realizzazione delle bombe atomiche, sotto la supervisione di Robert J. Oppenheimer, nel Progetto Manhattan. Poi con il cobalto: a lungo conteso da Stati Uniti e Unione Sovietica per il suo utilizzo nelle superleghe dei jet militari. Con la fine della Guerra fredda, il cobalto ha perso questo valore strategico. Nel frattempo, l’avanzamento della globalizzazione e l’avvento dell’elettronica di consumo hanno cambiato e reso più vantaggioso per tutti gli operatori coinvolti il processo di approvvigionamento delle materie prime. Da una parte, spietati trader capaci di vendere, con profitti immensi, il cobalto a qualunque acquirente. Dall’altra, proprio per la complessità di risalire a monte della filiera con trasparenza, industrie e aziende dell’elettronica (tra cui l’americana Apple) con impianti in Asia, prima ancora che delle batterie per veicoli elettrici per i grandi colossi dell’automotive, favoriti da contratti a buon mercato con i fornitori, perlopiù cinesi.
L’esempio lampante è quello di due realtà che operano in Congo da diversi anni seguendo due logiche completamente differenti. La prima è Glencore, multinazionale fondata da Marc Rich nel 1974, con sede a Ginevra, tra le prime quattro società per capitalizzazione del settore delle materie prime, con un portfolio che include, tra gli altri, rame, zinco, nichel, alluminio. Come descritto dal libro The World for Sale, insieme a Vitol e Cargill è stata una delle multinazionali più redditizie degli ultimi decenni. Proprio grazie alla flessibilità del suo business e alla pressoché ubiquità della sua divisione di trading, Glencore aveva intuito che, di fronte allo shock mediatico che aveva colpito le case automobilistiche, restie ad acquistare cobalto dal Congo, queste ultime avrebbero preferito fare affari con una multinazionale piuttosto che con chi sfruttava direttamente il lavoro minorile. Grazie alla corruzione dei politici locali, la multinazionale è riuscita, nel giro di pochi anni, ad aggiudicarsi i depositi, mettendo così le mani su due grandi miniere di rame e cobalto, quella di Mutanda e di Kamoto, gestita insieme all’azienda statale Gécamines. Secondo le stime più recenti, Glencore controlla quasi il 20% del cobalto estratto a livello globale e rifornisce aziende del calibro di Samsung SDI, Tesla e la cinese CATL.
Se le attività di Glencore nelle due miniere, nel frattempo finite nel mirino del Dipartimento del Tesoro americano per alcune transazioni illecite, fossero cessate, la Cina avrebbe potuto monopolizzare l’intero settore estrattivo del cobalto. Proprio questo elemento geopolitico è al centro delle preoccupazioni intorno agli approvvigionamenti di cobalto e chiama in causa il secondo operatore. Huayou Cobalt è dal 2006 uno dei principali acquirenti di cobalto nella zona di Kolwezi, ‘testa di ponte’, in Congo della Cina e parte della strategia, pragmatica, di assicurarsi materie prime grazie anche al supporto governativo attraverso le banche statali. Una strategia che ha visto una vera e propria formalizzazione nel giugno del 2018, quando una delegazione di 35 compagnie minerarie cinesi si sono riunite nella capitale congolese, Lubumbashi. Grazie alla sua presenza nel paese africano e all’integrazione verticale dell’azienda per la raffinazione del materiale grezzo (che, ricordiamo, è trasformato in Cina per il 75% a livello mondiale), Huayou Cobalt è diventata un punto di riferimento per la supply chain di Sony, Nokia, Samsung Electronics, nonché di produttori di auto e batterie elettriche come BYD, Volkswagen, LG Chem. Con l’acquisizione nel 2016 della miniera di Tenke Fungurume da parte di China Molybdenum, altro colosso a guida statale cinese, nel giro di poco più di un decennio, la Cina è arrivata a gestire il 90% del cobalto estratto in Congo.
Un dominio che è destinato, probabilmente, a ridursi nel tempo non tanto per l’ingresso – improbabile – di altri operatori nel Congo, ma piuttosto per il tentativo (anche cinese) di ridurre progressivamente l’utilizzo del cobalto, materiale critico tanto per la volatilità dei prezzi quanto, appunto, per una filiera sovraesposta in termini sociali, ambientali e geopolitici.
In un mondo sempre più focalizzato sulla transizione energetica e sulla crescente domanda di materiali critici per le batterie, l’oscuro scenario di estrazione mineraria nella Repubblica Democratica del Congo svela la complessità dietro la produzione di tecnologie green. Mentre il cobalto diventa il cuore delle batterie agli ioni di litio, la realtà dei minatori artigianali che lavorano in condizioni disumane e pericolose pone una domanda cruciale sulla sostenibilità etica di questa evoluzione. L’asimmetria tra le ricchezze delle risorse minerarie del Paese e la povertà della sua popolazione rivela un profondo conflitto sociale ed economico. L’intricato gioco geopolitico delle compagnie multinazionali e delle Nazioni interessate sottolinea ulteriormente la necessità di una riflessione critica sulla giustizia nella catena di approvvigionamento. In questo contesto, la transizione energetica non può essere solo una questione tecnologica, ma deve anche abbracciare valori di equità, responsabilità e sostenibilità.