Non è tutto oro quel che luccica, anche nel campo dell’open innovation. Anzi, i crescenti investimenti su questo fronte da parte di aziende, soprattutto di grandi dimensioni, rendono ancora più evidente un aspetto tanto rilevante quanto problematico ossia il mancato o parziale ‘ritorno sull’investimento’ derivante dall’apertura nei confronti di soggetti ‘alieni’ rispetto al loro business e modus operandi. Il punto di caduta di questa criticità consisterebbe, secondo Henry Chesbrough (cioè uno dei padri dell’open innovation), in un impatto solo limitato sulla produttività delle imprese che investono in innovazione tecnologica adottando un’ottica di apertura.
Uno di quei riscontri hard che rischia di far vacillare l’impianto metodologico e manageriale dell’open innovation, oltre alla sua narrativa che tanto è stata alimentata in questi anni in contrasto con visioni chiuse, omogenee e proprietarie fino a qualche tempo fa (e forse ancora oggi) dominanti.
Come osserva lo stesso Chesbrough le cause di questo deficit di produttività degli investimenti in innovazione aperta possono essere molte e variegate: dalle caratteristiche organizzative e dimensionali dei soggetti investitori fino agli indicatori adottati per misurare la produttività. Ma forse una parte del problema sta anche ‘nel manico’ ovvero nel modo in cui sono concepiti e gestiti i programmi di open innovation.
Gli impianti più diffusi, infatti, assomigliano sempre più a ‘gabbie d’acciaio’ organizzate secondo schemi di natura procedurale. Il tutto condito da un approccio ‘accelerazionista’ che indirizza e spinge inesorabile il percorso verso il kpi di riferimento di questo modo d’intendere l’innovazione aperta ossia la contrattualizzazione del matching tra imprese investitrici e startup o altri attori dell’innovazione.
Un combinato disposto – procedura, accelerazione, contratto – che risponde a un’esigenza ben precisa, vale a dire estrarre nel modo più efficiente possibile valore dalle relazioni, anche in termini di business model per gli intermediari di co-innovazione che infatti si giocano il loro valore aggiunto intorno alla capacità di ‘impacchettare’ e prezzare le varie tappe del percorso.
Il problema, però, e non di poco conto, è che l’apertura nei confronti della diversità è intrinsecamente un processo sociale dagli andamenti e dagli esiti non sempre riconducibili a obiettivi e tempi predefiniti. Anzi, può succedere che un eccesso di ‘infrastrutturazione’ del percorso rischi di marginalizzare, o di non considerare, proprio quegli elementi di valore che fanno ‘il bello’ dell’apertura. Uno in particolare, ossia la capacità di agire in senso mutualistico perché si riconosce l’altro come un vero e proprio partner e non solo un fornitore, ma anche perché di fronte a questioni complesse si agisce in ottica di supporto reciproco e non solo di execution settoriale e infine perché il valore di quanto prodotto insieme è in grado di generare benefici ad ampio raggio che sono riconosciuti e adeguatamente ‘valorizzati’.
Un approccio ben diverso dallo schematismo che contraddistingue la catena del valore dell’innovazione aperta, almeno nella sua versione mainstream. Coltivare un approccio mutualistico all’innovazione aperta è anche una precondizione per una maggiore produttività degli investimenti e non solo in sede di ideazione e progettazione. Sappiamo bene infatti come l’annidamento di innovazioni (non solo tecnologiche, peraltro) all’interno di organizzazioni, soprattutto quelle più articolate e complesse, dipende spesso da orientamenti e comportamenti di soggettività comunitarie che agiscono ‘lungo i bordi’ dei settori e delle unità, spesso con accentuati caratteri di informalità che, non a caso, consentono di elaborare importanti elementi di conoscenza tacita, difficilmente codificabili, forse anche dalle più sofisticate e artificiali business intelligence.
Ecco quindi che per far recuperare produttività all’innovazione è necessario coltivare una relazionalità fuori dagli schemi eppure funzionale allo scopo. Un approccio che richiama le teorie sulla cura dei beni comuni di Elinor Ostrom, laddove la politologa premio nobel per l’economia indicava nella capacità di conversazione fine a se stessa (cheap talk) una componente essenziale di identificazione e adesione per poi agire in contesti formali di gestione della produzione e di governo delle organizzazioni.
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