Dicembre 2021 – In un Paese che ha una tradizione di radicata presenza di movimenti ecologisti e ha mostrato anche recentemente una straordinaria capacità di mobilitazione dal basso, le sfide poste dalla transizione ecologica mostrano le difficoltà per i movimenti di agire in modo efficace per modificare le politiche ambientali e cambiare il paradigma di sviluppo dominante.
Sviluppo e povertà
Stoccolma, 14 giugno 1972: il primo ministro indiano Indira Gandhi prende la parola durante l’assemblea plenaria della conferenza dell’ONU sull’ambiente umano 1.
Il suo è uno degli interventi più attesi. L’India non rappresentava allora infatti solamente un Paese emergente in cui viveva circa un sesto dell’intera umanità, ma da almeno due decenni era considerata dai leader di diversi Paesi afro-asiatici un esempio da seguire con grande interesse, un Paese in grado di influenzare gli altri attraverso la propria visione del mondo e dello sviluppo. 2
In quella che a tutti gli effetti era la prima conferenza dell’ONU su un argomento che stava assumendo un’inedita centralità, Indira Gandhi pronunciò un discorso lungo e articolato, di cui viene spesso sottolineato un unico e semplice passaggio, destinato ad influenzare l’idea del rapporto tra uomo e ambiente in quello che viene spesso ancora oggi definito il «sud del mondo». Nella parte del discorso più conosciuta e significativa, il primo ministro indiano disse: «Da un lato i ricchi guardano di sbieco la nostra perdurante povertà, dall’altro ci mettono in guardia dall’usare i loro stessi metodi. Noi non vogliamo danneggiare ulteriormente l’ambiente, ma non possiamo nemmeno per un istante dimenticare la terribile povertà in cui vive un enorme numero di persone. I maggiori inquinanti non sono forse la povertà e il bisogno?» 3.
Questa frase, riportata dai media ed estrapolata da un contesto assai più ampio, finì per oltre quattro decenni per costituire una sorta di manifesto dell’approccio alle questioni ambientali dei Paesi in via di sviluppo. L’idea di fondo era che le tematiche ambientali, che proprio in quegli anni iniziavano ad avere un certo peso nei Paesi più sviluppati, fossero da prendere in considerazione in quelli in via di sviluppo solo nella misura in cui lo sfruttamento illimitato delle risorse metteva potenzialmente a rischio la crescita economica. Queste frasi di Indira Gandhi finirono per costituire un autentico manifesto ideologico in cui l’ambientalismo era in fin dei conti considerato un lusso per Paesi ricchi, mentre nei Paesi in via di sviluppo la priorità era senza dubbio l’accelerazione di uno sviluppo che, senza curarsi troppo dei danni ambientali, potesse portare centinaia di milioni di persone al più presto al di fuori della morsa della fame, dell’analfabetismo, delle condizioni sanitarie precarie.
Questa impostazione è oggi in parte cambiata, a seguito dei mutamenti economici e sociali globali e di fronte alle sempre più impellenti necessità di ripensare il rapporto tra uomo e risorse, ma resta comunque presente nella mentalità dei leader indiani e nel caratterizzare di conseguenza la politica ambientale del Paese, ancora in larga misura subordinata alle esigenze dello sviluppo economico. Se negli ultimi anni l’India ha in qualche modo modificato alcuni aspetti delle proprie politiche ambientali lo ha fatto quasi esclusivamente per le pressioni internazionali e per i timori di futuri scenari in cui catastrofi naturali ed eccessivo sfruttamento delle risorse potrebbero comportare un rallentamento della crescita economica.
Le caratteristiche dei movimenti ecologisti indiani
Nonostante il paradigma di sviluppo dominante, l’India vide nascere già dai primi anni Settanta agguerriti movimenti ecologisti. Questo fu reso possibile innanzitutto dalla presenza di una società civile estremamente vitale in quella che era, ed è ancora oggi, la più stabile democrazia tra i Paesi usciti dalla decolonizzazione. I primi movimenti ecologisti ebbero una dimensione quasi esclusivamente locale: per esempio il Chipko Andolan si batteva per la salvezza delle foreste alle pendici della regione himalayana mentre all’altra estremità del Paese, nello stato meridionale del Kerala, nasceva un movi mento per salvare la Silent Valley, una riserva naturale famosa per la straordinaria biodiversità messa a rischio da un progetto di sviluppo idroelettrico. Negli anni successivi nacquero centinaia di associazioni, organizzazioni e comitati che si definivano «ambientalisti» o «ecologisti». Si trattava soprattutto di organizzazioni impegnate su questioni locali. Attraverso campagne condotte con ferrea determinazione queste organizzazioni, in alcuni casi specifici, sono riuscite a ottenere un’importante visibilità a livello nazionale e addirittura internazionale. Per esempio il Narmada Bachao Andolan, o «movimento per la salvezza del fiume Narmada», ha ricevuto a lungo una notevole attenzione da parte dei media indiani e internazionali e ha ottenuto solidarietà e supporto da organizzazioni di diversi Paesi.
La struttura dei movimenti indiani presenta alcune peculiarità. Si tratta di norma di organizzazioni piuttosto piccole radicate in uno specifico territorio. Occorre considerare che la società indiana è innanzitutto un complesso insieme di realtà locali molto articolate, con un forte senso identitario basato su divisioni linguistiche, di casta e di comunità che può essere declinato solo in ambito locale. Da un lato quindi il mondo dell’attivismo ecologista indiano ha visto nascere centinaia di organizzazioni diverse, molto determinate e combattive, dall’altro però è sempre stato caratterizzato da una intrinseca debolezza dovuta alla mancanza di autentiche sponde politiche in grado di proiettare istanze locali a livello nazionale andando così a creare un autentico modello di sviluppo alternativo. I movimenti indiani hanno creato strutture di aggregazione sotto forma di Forum o di cartelli di associazioni in grado di manifestare solidarietà reciproca e di portare all’attenzione dei media nazionali battaglie essenzialmente locali, ma senza avere la capacità di influire realmente sulle scelte politiche complessive.
Inoltre, questi movimenti nella grande maggioranza dei casi si sono dovuti confrontare con una ferrea volontà repressiva da parte degli apparati dello stato, decisi a non operare concessioni nei confronti di chi viene spesso percepito come un ostacolo per l’attuazione di programmi economici basati su una visione univoca dello sviluppo. Gli attivisti che hanno cercato di denunciare le strategie economiche che comportavano gravi danni all’ecosistema ed una distruzione dei legami sociali e culturali delle comunità più svantaggiate sono stati spesso tacciati di essere elementi «anti-nazionali», di cospirare con i nemici dell’India e di essere in ultima istanza dei traditori da isolare e, in molti casi, da perseguire in sede penale con accuse spesso pretestuose e strumentali.
I movimenti ecologisti in India: una lunga storia
Queste condizioni oggettive non hanno comunque impedito la nasci ta di una tradizione consolidata di movimenti sociali che potremmo de finire in qualche modo «ecologisti». Per quanto alcuni studiosi 4 abbiano cercato di retrodatare la nascita dei movimenti ecologisti indiani all’epoca coloniale o addirittura al periodo precedente la colonizzazione, movimenti ecologisti veri e propri hanno mosso i primi passi a partire dagli anni Settanta. Il già citato movimento Chipko, fondato nel 1973, è stato un precursore da molti punti di vista. Fu un attivista gandhiano, Sunderlal
Bahuguna5, a organizzare i contadini, in maggioranza adivasi 6, della regione himalayana dell’Uttarkhand, allora parte dello stato dell’Uttar Pradesh, contro l’intensa deforestazione dovuta al crescente sfruttamento da parte delle compagnie del legname. La battaglia per la salvaguardia delle foreste vide saldarsi la volontà di salvare l’ambiente e la biodiversità alla necessità di garantire il mantenimento dell’accesso alle risorse forestali per comunità fortemente dipendenti dalle foreste per il proprio sostentamento e per il mantenimento del proprio stile di vita. Bahuguna aveva una formazione profondamente influenzata dalle idee e dai metodi di lotta del Mahatma Gandhi, e infatti il Chipko, che significa letteralmente «attaccarsi», adottò da subito uno strumento di protesta non violento ben conosciuto dagli indiani, ovvero la satyagraha 7.
Gli attivisti del movimento iniziarono a legarsi agli alberi come forma di disobbedienza civile, cercando in questo modo di impedirne il taglio da parte delle compagnie del legname. Inizialmente le autorità reagirono con fermezza, rimuovendo con la forza gli attivisti e procedendo a centinaia di arresti. Presto però questa battaglia locale riuscì ad attrarre attenzione e simpatie da parte di intellettuali e attivisti provenienti dal mondo urbano e dalla classe media, elemento che finì per essere fondamentale nel convincere il governo dell’Uttar Pradesh a modificare le proprie politiche e accettare una riduzione dello sfruttamento delle foreste.
Nel 1979 nel sud del Paese ci fu la nascita di un movimento di resistenza contro la realizzazione di un progetto idroelettrico che avrebbe profonda mente alterato l’ecosistema di una riserva naturale, la Silent Valley nella regione dei monti Nilgiri, uno dei luoghi più ricchi di biodiversità del Pianeta 8.
Al contrario del movimento Chipko che era formato prevalentemente da contadini e adivasi residenti nella zona, il movimento per la salvezza della Silent Valley venne animato soprattutto dalla volontà di preservare un ambiente naturale unico e prezioso e fu formato anche da attivisti provenienti da un ambiente urbano e dal mondo intellettuale. Da un certo punto di vista questo movimento fu il primo ad avere delle caratteristiche simili ai movimenti ecologisti dei Paesi occidentali, superando la dimensione fortemente ancorata a ideali e principi tradizionali, come era nel caso del movimento Chipko. In seguito a proteste molto ben organizzate, vigorose e partecipate, il governo di Delhi decise di interrompere il progetto di sfruttamento della regione nel 1983.
Il più longevo e agguerrito movimento ecologista indiano è stato certamente il Narmada Bachao Andolan (NBA), nato nel 1986 dall’unione di una serie di comitati locali e grazie al contributo decisivo degli attivisti Medha Patkar 9 e Baba Amte 10, per protestare contro la realizzazione di un enorme progetto di sviluppo idrico e idroelettrico sul fiume Narmada, nell’India centrale 11. Il NBA rappresentò da diversi punti di vista un movimento unico nella storia del Paese, innanzitutto per le dimensioni. Il NBA protestava contro un progetto che coinvolgeva un’area molto vasta e interessava direttamente o indirettamente centinaia di migliaia di persone e fu quindi in grado di mobilitare migliaia di attivisti.
Inoltre il NBA per la prima volta portava avanti una critica radicale nei confronti del paradigma economico seguito fino ad allora dall’India, che si manifestava nella regio ne della Narmada attraverso un progetto dall’enorme impatto ambientale e umano, particolarmente nei confronti delle comunità economicamente svantaggiate residenti nell’area coinvolta. Attraverso proteste coordinate a livello locale, con scioperi della fame, manifestazioni e satyagraha nei villaggi coinvolti dal progetto, e a livello nazionale, attraverso la solidarietà attiva di accademici, intellettuali, giornalisti e attivisti dei diritti umani, il NBA fu in grado di ottenere successi del tutto insperati, tra cui una serie di momentanei blocchi della prosecuzione dei lavori e soprattutto il ritiro della Banca Mondiale dal finanziamento del progetto nel 1993. Proprio l’opposizione alla partecipazione della Banca Mondiale al finanziamento del pro getto fu alla base della notevole popolarità del movimento anche a livello internazionale, manifestatasi attraverso l’organizzazione di raccolte fondi e campagne di sostegno da parte di organizzazioni critiche nei confronti del ruolo di questa istituzione. Probabilmente decisivo in questo fu anche l’intervento di intellettuali molto ascoltati a livello internazionale, su tutti la scrittrice Arundhati Roy, il cui saggio The Greater Common Good del 1999 12 fece conoscere in tutto il mondo le istanze del movimento e le problematiche legate alla realizzazione di grandi progetti idrici, dai danni ambientali alla disgregazione dei rapporti sociali e culturali all’interno delle comunità tribali, alle insufficienti politiche messe in atto dal governo indiano in tema di reinsediamento e riabilitazione degli sfollati.
Nonostante la significativa vittoria degli attivisti ottenuta con il ritiro della Banca Mondiale dal progetto, il NBA si trovò a misurarsi con la ferrea determinazione del governo del Gujarat, all’epoca guidato dall’attuale primo ministro Narendra Modi, nel proseguire nel progetto a tutti i costi. La realizzazione della diga era una priorità per il governo dello stato per fare fronte a una acuta crisi idrica del settore agricolo e per risolvere in parte i problemi legati alla cronica carenza di energia. Il NBA di fatto venne sconfitto e il progetto venne infine completato nel 2006.
Ciò nonostante, la decennale lotta condotta dagli attivisti del NBA ebbe una duratura influenza sui movimenti degli anni successivi, per una serie di motivi. Innanzitutto, pur portando avanti una lotta sostanzialmente locale, il NBA fu il primo movimento ecologista indiano a ottenere un vasto supporto a livello nazionale e internazionale. Inoltre, fu il primo movimento dal basso in grado di coniugare istanze ideologiche diverse. Nel NBA, infatti, conviveva un’impostazione ideologica decisamente radicata nella tradizione indiana, proveniente dal pensiero gandhiano, con una molto più internazionale, un ecologismo profondamente influenzato dai movimenti europei e nordamericani. Con l’esperienza del NBA il mondo ambientalista indiano tentò di superare i contrasti tra un’impostazione ideologica tendenzialmente anti industriale, basata su un utopico ritorno all’India dei villaggi, e un’ideologia critica del modello economico neoliberista che proprio in quegli stessi anni influenzava gli attivisti che organizzavano le grandi proteste contro il G8 di Seattle e Genova. Questi due mondi così diversi tra loro per estrazione, radici ideologiche e culturali finirono da quel momento per parlarsi e condividere percorsi comuni.
Negli anni successivi l’esempio del NBA venne seguito da molte altre organizzazioni, tra cui vale la pena citare per esposizione mediatica e capacità di modificare le scelte politiche del governo quella creata dagli adivasi Khond per contrastare lo sfruttamento della montagna di Niyamgiri in Orissa da parte della multinazionale mineraria Vedanta Resources. La lotta dei Khond per salvaguardare l’ambiente della loro regione, su cui la Vedanta aveva ottenuto i permessi per lo sfruttamento di ricchi giacimenti di bauxite, iniziò nel 2008 coniugando diffuse preoccupazioni di inquina mento ambientale alla volontà delle comunità locali di preservare le proprie specificità sociali e culturali. Grazie anche al sostegno di organizzazioni ecologiste indiane e internazionali, la campagna di protesta fu in grado di esercitare una grande pressione sulla multinazionale. La campagna per salvare Niyamgiri riuscì addirittura a convincere importanti istituzioni e aziende internazionali, preoccupate dal potenziale danno di immagine, a vendere le azioni della Vedanta. In seguito il movimento contro la Vedanta riuscì a ottenere dalla Corte Suprema indiana il blocco dei lavori nel 2013 e l’imposizione di preventive consultazioni delle comunità locali per ogni eventuale prosecuzione del progetto in futuro. Si tratta a oggi di uno dei più grandi successi ottenuti da una coalizione dal basso di comunità tribali e organizzazioni ecologiste nei confronti di una multinazionale del settore minerario.
L’India di fronte alla crisi ambientale
Il ritiro della Banca Mondiale nel 1993 dal progetto di sviluppo del fiume Narmada e la sospensione dello sfruttamento dei giacimenti di bauxite di Niyamgiri ha mostrato la forza dei movimenti dal basso nel contesto indiano. Le esperienze del NBA e la vittoriosa battaglia dei tribali Khond contro la Vedanta hanno galvanizzato molti altri movimenti locali, favorendo la nascita di centinaia di campagne contro lo sfruttamento illegale delle miniere, l’inquinamento delle fonti idriche, la realizzazione di infrastrutture a grande impatto ambientale e l’inquinamento atmosferico. Eppure, nonostante la presenza di agguerrite organizzazioni ecologiste e la diffusa percezione della necessità di modificare il paradigma di sviluppo, sembra mancare ancora a oggi in India una visione generale realmente alternativa dello sviluppo del Paese.
Nonostante la decisione, molto tormentata, del governo indiano di aderire all’accordo di Parigi sulle emissioni del 2015 e la creazione di un ministero per le energie rinnovabili da parte del governo di Manmohan Singh nel 2006, poi rinnovato anche dalle due successive amministrazioni Modi, l’India è ancora oggi accusata di non fare abbastanza per proteggere l’ambiente e per attuare una reale ed efficace transizione ecologica 13. Questo in un Paese che, per caratteristiche climatiche e demografiche, ha impellenti necessità di invertire la rotta per evitare possibili disastri ambientali che avrebbero enormi ripercussioni. Il clima monsonico del subcontinente indiano porta da sempre notevoli rischi di penuria idrica, particolarmente nella lunga stagione secca che nella maggior parte del subcontinente dura da ottobre a giugno. La siccità è oggi uno spettro che si aggira più che mai per l’India, nonostante gli sforzi dei governi fin dall’epoca coloniale per razionalizzare e sfruttare al meglio le risorse idriche. La diminuzione delle precipitazioni dovuta ai cambiamenti climatici globali si lega oggi al progressivo inquinamento della falda acquifera, dovuto al massiccio uso di concimi chimici e pesticidi in agricoltura, necessari per mantenere un’elevata resa dei prodotti agricoli soprattutto a seguito della cosiddetta «Rivoluzione Verde», realizzata a partire dal 1965 e finalizzata all’autosufficienza alimentare in un contesto di forte crescita demografica. Il settore agricolo mostra già da alcuni anni segnali preoccupanti di sofferenza, in parte dovuta proprio all’inquinamento dei terreni e della falda acquifera. Nel contempo il riscaldamento globale ha portato all’intensificazione di fenomeni estremi rovinosi come tifoni, cicloni e inondazioni, da sempre presenti nella storia del Paese ma notevolmente più frequenti negli ultimi decenni.
Considerazioni su queste problematiche e pressioni internazionali per rivedere le politiche in tema di emissioni di CO2 sono state certamente decisive nello spingere il governo indiano ad agire firmando il protocollo di Parigi e stanziando investimenti sullo sviluppo delle fonti rinnovabili. Ma, come de nunciano ONG e attivisti indiani, tutto questo non è sufficiente a venire in contro alle stringenti e complesse sfide che il Paese si trova di fronte. Ancora oggi l’India è fortemente dipendente dai combustibili fossili per la produzione di energia. Il 56,26% dell’energia è ottenuto dal carbone e il 35,65% da petrolio e gas 14. L’India è ancora oggi il quarto produttore e il secondo importatore di carbone al mondo 15. A fronte di questi numeri, la quota delle fonti rinnovabili, sebbene in crescita, è appena del 4,07% 16. Inoltre la recente e significativa accelerazione della crescita dell’economia indiana ha comportato in termini assoluti un aumento, e non una diminuzione, dell’utilizzo dei combustibili fossili.
I limiti dell’attivismo dal basso nel contesto indiano
Nonostante l’urgenza del cambiamento, i movimenti ecologisti indiani non sembrano oggi particolarmente in grado di influenzare le politiche go vernative né di imporre un’agenda di sviluppo alternativa. Questo avviene per diversi motivi. Il primo è certamente legato alla natura stessa della società indiana, di cui i movimenti sociali sono espressione. Si tratta di una società estremamente articolata e frammentata, formata da una miriade di interessi locali basati su identità molto forti e radicate. Persistono decisive divisioni tra comunità religiose, tra gruppi identitari etnico-linguistici, e soprattutto tra diverse caste e classi sociali, categorie economiche e identitarie che di norma non coincidono e tendono a sovrapporsi solo in modo parziale. La politica indiana sia a livello locale sia a livello nazionale si basa sulla necessità di bilanciare il più possibile questi interessi diversi spesso in conflitto gli uni con gli altri. Come conseguenza anche i movimenti sociali dal basso risentono della natura fortemente frammentata della società, come evidenziato dall’antropologa Amita Baviskar nel suo studio sulla sezione del NBA di Alirajpur, in Madhya Pradesh 17. Baviskar sottolinea come l’adesione al movimento fosse molto forte tra gli adivasi Bhil della regione, che avrebbero avuto molto più da perdere dalla distruzione dell’ambiente e da un eventuale spostamento forzato, mentre i Kunbi-Patidar, caste medio alte di coltivatori, avevano un interesse minore ad aderire alle proteste per via del loro status sociale più elevato, che avrebbe consentito loro un reinsediamento meno traumatico, e dei loro storici rapporti preferenziali con politici locali che garantivano loro migliori prospettive di reinserimento nei nuovi siti scelti dal governo con criteri di assegnazione spesso di natura clientelare.
Questa estrema articolazione della società indiana consente quindi ai movimenti dal basso un forte radicamento e di conseguenza grandi capa cità di combattere singole battaglie locali, ma impedisce di norma una più vasta mobilitazione su tematiche di interesse nazionale. La struttura dei movimenti in questi decenni si è caratterizzata, come detto, per la nascita di alleanze trasversali tra singole organizzazioni, in grado di fare da ampli ficatore a rivendicazioni sostanzialmente locali ma non di portare avanti campagne di più ampio respiro. È il caso, per esempio, della National Alli ance of People’s Movements (NAPM), nata nel 1992 su decisivo impulso di Medha Patkar. Si tratta di un’organizzazione ombrello di cui fanno parte 252 associazioni, movimenti e comitati 18. Ogni organizzazione agisce all’in terno dell’alleanza mantenendo le proprie specificità e le proprie strutture. Ciascuna di queste interviene nelle singole campagne attraverso una solidarietà attiva che si esprime innanzitutto nel fornire visibilità e sostegno economico alle organizzazioni ‘alleate‘. Le organizzazioni che aderiscono alla NAPM devono necessariamente riconoscersi in una dichiarazione di valori, ma a parte questo l’azione sul campo è demandata essenzialmente alle singole realtà.
C’è poi un altro elemento che limita la capacità di azione dei movimenti ambientalisti indiani, ovvero la permanente divisione tra ambienti urbani e rurali. Nonostante i già citati casi di collaborazione tra adivasi e contadini ed élite intellettuali urbane, che ha reso possibili significative vittorie come nel caso della Silent Valley, di Niyamgiri e per certi versi del NBA, la possibilità di saldare la lotta per la sopravvivenza delle comunità rurali e l’influente attivismo dei militanti urbani è ancora oggi molto limitata. Tra il mondo urbano e il mondo rurale, in cui ancora oggi vivono circa due terzi degli indiani, permane una tradizionale profonda diffidenza. Gli attivisti provenienti da ambienti urbani vengono visti come corpi estranei, come parte di un mondo che ha inevitabilmente priorità diverse e che tende a imporre alle aree rurali la propria visione del progresso e della società, anche se si tratta di una visione alternativa al modello dominante. Le battaglie degli attivisti urbani non vengono considerate prioritarie da una popolazione rurale che vive in un orizzonte geograficamente limitato e fatica per limiti di accesso alle informazioni ad aderire a campagne di protesta con aspirazioni nazionali o addirittura globali. Un esempio evidente è la campagna internazionale nata nel 2018 per protestare contro l’incapacità dei governi nel fare fronte ai cambiamenti climatici, che ha avuto in India una partecipazione limitata esclusivamente alle grandi città.
Esiste inoltre un altro problema con cui i movimenti sociali indiani si sono confrontati da decenni ma per cui ancora non esiste una soluzione, ovvero la mancanza di sponde a livello politico. I partiti politici indiani hanno a volte cavalcato alcune di queste proteste per motivi essenzialmente elettorali, ma nessuno ha realmente abbracciato una visione complessiva diversa rispetto al paradigma economico caratterizzato dal grande impatto ambientale e dallo sfruttamento estensivo delle risorse naturali. Inoltre questi partiti por tano avanti istanze che appaiono oggi sempre più basate su identità religiose o di casta, in cui non c’è molto spazio per un approfondito dibattito sullo sfruttamento delle risorse e sulla necessità di portare avanti politiche diverse in tema ambientale. Il risultato non può che essere una notevole debolezza da parte dei movimenti dal basso nell’imporre la propria agenda in un conte sto in cui tutti i partiti nazionali e regionali propongono sostanzialmente un unico modello di sviluppo economico.
L’insieme di questi elementi comporta la difficoltà nell’organizzare gran di mobilitazioni su queste tematiche in un Paese che invece ha visto anche recentemente enormi mobilitazioni dal basso, come quelle contro la controversa riforma della legge sulla cittadinanza tra gennaio e marzo del 2020 o i grandi scioperi dei contadini contro la proposta del governo di riforma dell’agricoltura tra il 2020 e il 2021. Di conseguenza per certi versi ancora oggi il dibattito sullo sviluppo economico non appare in India molto diverso da quanto fosse negli anni Settanta. Le politiche sono ancora fortemente basate su un modello che prevede un uso estensivo e poco lungimirante delle risorse, con poche eccezioni dovute prevalentemente a pressioni inter nazionali o stringenti necessità di evitare catastrofi ambientali.
Fonte/Testo originale: Stefano Caldirola, ‘India. Potenzialità e limiti dei movimenti dal basso’ – pubblicato su Equilibri, Fascicolo 2, dicembre 2021, Il Mulino.
Note
- La Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano venne convocata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1968 e si tenne a Stoccolma nel giugno del 1972 con la partecipazione di 112 Paesi. La dichiarazione finale fu frutto di un difficile compromesso tra i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo, con questi ultimi poco propensi a considerare una priorità la difesa dell’ambiente rispetto allo sviluppo economico.
- Questa attenzione alle prese di posizione dell’India era in larga parte dovuta alla lunga lotta del popolo indiano contro il colonialismo e alla autorevolezza morale di leader come il Mahat ma Gandhi e Jawaharlal Nehru. Nei decenni precedenti l’India era stata tra i principali promotori della nascita del blocco dei Paesi non allineati, uno degli organizzatori della grande conferenza dei Paesi afro-asiatici di Bandung (1955) e aveva sempre sostenuto i popoli asiatici e africani in lotta contro colonialismo e razzismo.
- «On the one hand the rich look askance at our continuing poverty – on the other, they warn us
against their own methods. We do not wish to impoverish the environment any further and yet we
cannot for a moment forget the grim poverty of large numbers of people. Are not poverty and need
the greatest polluters?» (traduzione mia da: Indira Gandhi, discorso alla Conferenza dell’ONU sullo
sviluppo umano, in H. Dembowski, Taking the State to Court, Public Interest Litigations in India, Delhi,
Oxford University Press, 2000, p. 65). - Esempi importanti di resistenza allo sfruttamento ambientale in epoca precoloniale sono ci tati da M. Gadgil e R. Guha nel volume This Fissured Land, an Ecological History of India, Delhi, Oxford University Press, 1992.
- Sunderlal Bahuguna (Maroda, 9 gennaio 1927-Rishikesh, 21 maggio 2021). Fin da giovane fu un seguace del Mahatma Gandhi molto attivo in campagne a favore degli intoccabili e delle comunità tribali. Oltre al Chipko fu fondatore del movimento contro la realizzazione della diga di Tehri-Garwal tra il 1995 e il 2004.
- In hindi il termine collettivo adivasi, traducibile come abitanti originari, è quello maggiormente usato oggi in India per definire l’eterogeneo insieme di popoli che i britannici chiamavano «abori geni» o «tribù». Si tratta di una categoria la cui stessa esistenza è oggi contestata ed è comunque di difficile definizione. Storicamente l’appartenenza a questo insieme di popolazioni viene definita prevalentemente da criteri di natura antropologica e culturale, e in parte economica. Generalmente queste popolazioni hanno proprie culture specifiche, non appartenenti alla cosiddetta «mainstream hindu society» e non condividono con gli altri gruppi indù alcune strutture sociali, in primis la divisione delle loro società di villaggio in caste. Secondo l’ultimo censimento disponibile gli adivasi in India sarebbero circa 104 milioni (Census of India, 2011).
- La satyagraha (letteralmente «afferrare alla verità), è un termine di origine sanscrita coniato da Gandhi per definire le sue campagne di disobbedienza civile contro le leggi e divieti imposti dal go verno coloniale britannico fin dall’epoca dell’inizio del suo impegno politico in Sud Africa. La prima satyagraha venne lanciata da Gandhi nel 1906.
- La Silent Valley fa oggi parte della Nilgiri Biosphere Reserve, tra gli stati del Kerala, del Tamil Nadu e del Karnataka, riconosciuta dall’UNESCO nel 2012 come patrimonio dell’umanità.
- Medha Patkar (Mumbai, 1954) è una ricercatrice del Tata Institute of Social Sciences di Mumbai e fondatrice di movimenti sociali come il NBA e la National alliance of People’s Movement (NAPM).
- Baba Amte (Hinganghat 1914-Anandwan 2008) è stato un attivista politico di ispirazione gandhiana, già attivo nel movimento per l’indipendenza dalla Gran Bretagna. È il fondatore di Anan dwan, un ashram nato nel 1951 per curare i malati di lebbra nel Maharashtra orientale.
- Il progetto, denominato Sardar Sarovar Project, prevedeva la realizzazione di una diga di 163 metri con la creazione di un bacino che avrebbe costretto a spostarsi circa 200.000 persone, per il 56% adivasi.
- Arundhati Roy, The Greater Commond Good, Delhi, India Book Distributor, 1999. Edizione ita liana: Per il bene comune, Milano, Guanda, 2002.
- «The Guardian», UN Secretary General Urges India to Swiftly Turn Away from Coal, 28 agosto 2020.
- BP Statistical Review of World Energy, giugno 2018.
- BP Statistical Review of World Energy, 2020.
- BP Statistical Review of World Energy, giugno 2018.
- A. Baviskar, In the Belly of the River. Tribal Conflicts over Development in the Narmada Valley, Delhi, Oxford University Press, 2004.
- https://napm-india.org/