Il momento giusto
La tempistica dell’edizione internazionale è ben calcolata, considerando l’ambizione degli animatori del Club di Roma. Il volume esce alcuni mesi prima della Conferenza delle Nazioni unite sull’Ambiente umano (Stoccolma, giugno 1972). Estesa e capillare è la campagna di pubblicizzazione del libro. Giornali e televisione spiegano sommariamente il metodo usato dai ricercatori ed evidenziano le conclusioni del Rapporto, e soprattutto danno la parola agli autori. Viene inviato – si legge nell’introduzione – «a uomini di cultura e d’azione» che in varie parti del mondo «occupano posizioni chiave negli organismi internazionali, nell’industria, nei sindacati, nelle università, nei gruppi giovanili, nelle comunità scientifiche e intellettuali, nelle organizzazioni religiose, negli strumenti di comunicazione di massa e le cui opinioni e decisioni hanno quindi importanza rilevante nella condotta degli affari umani»
L’intento dei committenti di I limiti dello sviluppo è quello di fornire ai decisori reali e ai leader mondiali la ‘cassetta degli attrezzi’ che può aiutarli a decidere il futuro del Pianeta, convinti come sono che «urgono visioni e approcci completamente nuovi», di fronte a una classe politica «in ritardo sui tempi, prigioniera del corto termine» e «istituzioni politiche sclerotiche, inadeguate». Poiché «il guasto è profondo», c’è bisogno della partecipazione dei «segmenti più attivi della società» – i giovani, gli artisti, gli intellettuali, gli scienziati e i manager – per condurre una ‘rivoluzione’ in grado di trasformare «la società umana» e «assicurare la sopravvivenza in base alle nuove realtà che gli uomini stessi hanno creato nel loro mondo».
Un dialogo difficile
Tra i principali critici i più agguerriti sono gli economisti. È comprensibile, visto l’ampio impatto avuto da un Rapporto scritto da matematici e ingegneri informatici. Gli economisti vivono questo fatto come una sorta di lesa maestà nei confronti della loro ‘categoria’ da sempre abituata ad analizzare, teorizzare e discutere intorno alla crescita economica. La maggior parte di loro trova insopportabile la premessa degli autori, per i quali il problema della crescita non può essere disgiunto da quello dell’ambiente, data la loro reciproca interdipendenza. I critici sono poi irritati dalla conclusione finale, «troppo radicale», secondo la quale in un mondo finito la crescita economica e quella demografica devono darsi dei limiti 1.
Le critiche degli economisti si concentrano soprattutto sulla struttura del modello. Quello di Meadows e i suoi collaboratori è un approccio nuovo e, come ha scritto Georgescu-Roegen, intervenendo all’uscita del libro, il suo risultato è di mettere in discussione la ‘mania’ della crescita della maggioranza degli economisti, soprattutto il loro considerare il ‘progresso tecnico’ come la soluzione di tutti i problemi. Esso permetterebbe – secondo questi – di produrre sempre di più con meno, all’infinito, grazie alla ‘sostituibilità’ continua delle risorse con altro 2 e il disaccoppiamento crescita economica-consumo delle risorse, dell’energia e inquinamento (oggi anche l’AEE nutre seri dubbi sulla possibilità di un disaccoppiamento completo).
Non era usuale ricorrere alle leggi della termodinamica per porre dei vincoli alla crescita ininterrotta – perché è di questo che si tratta – ed essere obbligati a scegliere tra crescita economica e condizioni di abitabilità del pianeta e quindi addirittura di sopravvivenza della specie! Certo, il tono è ‘apocalittico’, proprio in senso etimologico: è tempo di decidere. E, per gli autori del Rapporto, per decidere bisogna pensare per estremi. Assumere che la finitezza del ’mondo’ pone un limite significa pensare la crescita a partire da un vincolo. È questo l’esercizio che gli autori del Rapporto e il Club di Roma, pongono alla comunità politica, ed è un esercizio – inventare progetti di società che non abbiano come centro la crescita infinita – valido ancora oggi. Non è questo che invita a fare l’European Environment Agency nelle note della serie ‘Narrative for change’?
Nutrimenti
Il Rapporto Meadows si nutre del dibattito avviato agli inizi degli anni Sessanta da quei pochi economisti che iniziano a ‘integrare’ nelle loro analisi il problema della trasformazione delle risorse naturali (materia/energia). Si riconosce, in particolare, la presenza di alcuni studiosi precursori.
Di Kenneth Building, (il suo considerare la Terra un sistema chiuso che non scambia materia con l’esterno e il suo paragonarla a un’astronave nella quale tutte le risorse utilizzate – non solo cibo e acqua, ma anche ossigeno – devono essere riciclate e rese di nuovo disponibili).
Di Robert Ayres e Allen Kneese, secondo i quali (le materie prime immesse nel processo produttivo vengono convertite in parte in beni finali e in parte in scarti e rifiuti; sulla base della la convinzione che la produzione industriale si traduce obbligatoriamente in prelievo sulle risorse a monte e in inquinamento a valle).
Di Herman Daly, che ha teorizzato (lo stato d’equilibrio dinamico durevole); e di Nicholas Georgescu-Roegen, che ha segnalato (l’oblio da parte degli economisti del problema delle risorse naturali e il loro non prendere in considerazione i limiti entropici del processo economico).
ll modello creato dai ricercatori di Meadwas inaugura una ‘competizione di modelli’. Il loro tentativo di aprire un dibattito profondo intorno alla crescita ha scarso successo, ma indubbiamente il Rapporto del Club di Roma ha ‘strutturato’ il dibattito sull’ambiente che dura ancora oggi.
La questione posta dal Club di Roma riguarda lo sviluppo sostenibile delle economie occidentali, tenendo conto delle risorse e dell’inquinamento. Nell’osservare a distanza di tempo il dibattito di cinquant’anni fa tra i critici del rapporto si nota che essi avevano modificato la questione riducendola a misura delle proprie frecce: il terreno di discussione era diventato quello delle risorse a lungo termine, la loro esauribilità o meno.
L’edizione italiana
L’edizione italiana di I limiti dello sviluppo è tempestiva: anticipa quella americana. Appare, infatti, alla fine del 1971, nell’annuario Scienza e Tecnica ‘72 della Mondadori e nel giugno dell’anno successivo il libro viene pubblicato in modo autonomo nella Biblioteca EST della stessa casa editrice.
Già agli inizi degli anni Settanta, nel nostro paese inizia a manifestarsi un interesse, anche istituzionale, nei confronti dei problemi ambientali 3. La pubblicazione del libro nel 1972 non cade nel vuoto. I sostenitori e divulgatori dei contenuti di Limiti, su quotidiani e riviste, appartengono per lo più agli ambienti laici, liberal socialisti e scrivono per testate come «Il Mondo», «L’Espresso», «La Stampa», «Il Corriere della Sera». La stampa cattolica parla del libro con un certo ritardo, nonostante ci fossero molte affinità tra le posizioni del Club di Roma e il messaggio papale alla Conferenza di Stoccolma sull’ambiente umano dello stesso anno. Dirimente non è tanto il tema dell’ambiente e delle risorse quanto la riduzione della crescita demografica che il Rapporto auspica e le politiche all’epoca attive. «Il Sole 24 Ore» è pacatamente contro, ma dedica diversi articoli al libro.
Argomenta puntigliosamente il suo disaccordo anche perché il mondo imprenditoriale è preoccupato che alcune delle questioni sollevate possano trovare terreno fertile in un momento di forti conflitti sociali. Diversa è la reazione della stampa e delle istituzioni di sinistra.
Pochi anni prima dell’uscita del Rapporto erano nate, un po’ avventurosamente, due riviste in cui i problemi dello sviluppo e quelli ambientali erano stati affrontati e discussi da una nuova generazione di studiosi e attivisti. La prima era «Natura e Società», diretta da Dario Paccino, figura importante dell’ambientalismo ‘politico’ e autore del bestseller di quegli anni, L’imbroglio ecologico. La seconda, «Ecologia» (1971), era stata fondata da Virginio Bettini, che diventerà una figura di primo piano dell’ambientalismo sociale e che ritroveremo tra i fondatori di «Nuova Ecologia» (1979) e di Legambiente (1980). A sinistra il problema non viene negato. L’ambiente è una priorità politica ma le classi sociali non compaiono nei grafici del Rapporto del Club di Roma. Le radici della rottura dell’equilibrio del pianeta, per questa generazione, sono da ricercare nel modo di produzione capitalista.
La catastrofe possibile paventata da I limiti dello sviluppo è sintomo della crisi strutturale del capitalismo e le proposte delineate nel Rapporto non sono nulla di più che una mossa astuta del capitale per superare le sue contraddizioni. Le posizioni a sinistra, in sintesi, non vanno oltre due estremi: la critica dello stravolgimento del processo metabolico uomo natura (non siamo ancora fuori dal dualismo natura-cultura, uomo-natura), da un lato e l’ecologia come ‘oppio per le masse’ dall’altro. Siamo ancora dentro il lungo ‘autunno caldo’, la conflittualità del periodo 1972-1973 è alta e l’attenzione è rivolta alle condizioni di lavoro, di cui quella ambientale è un aspetto importante nel continuum fabbrica-territorio.
Note
- L’accusa più frequente, che sopravvive ancora oggi, è quella di ‘maltusiani di ritorno’, ma in quegli anni la preoccupazione demografica è ben reale. I suoi effetti ‘nefasti’ sono oggetto di campagne di planning per il controllo delle nascite che, in certe aree geografiche, arriva alla sterilizzazione. Negli anni del Rapporto, il tasso di crescita della popolazione mondiale è del 2,1%.
- <<Bisogna avere una visione molto errata del processo economico nella sua totalità per non notsre che non esistono fattori materiali diversi dalle risorse naturali. Sostenere, inoltre, che (come Solow) ‘il mondo può sopravvivere senza risorse naturali’ significa ignorare la differenza tra il mondo reale e il Giardino dell’Eden>> in: N. Georgescu-Roegen, ‘Energy and Economic Myths’, in <<Southern Economic Journal>>, n. 3, 1975, p. 361.
- Per una storia delle recezione di I limiti dello sviluppo in Italia, si rimanda all’ampio studio di L. Piccioni e G. Nebbia, ‘I limiti dello sviluppo in Italia. Cronache di un dibattito 1971-1974’, in <<Quaderni di Altronovecento>>, n. 1, 2011, Brescia, Fondazione Micheletti.