I passaggi tecnologici che stiamo vivendo sono epocali e impongono di mettere nuovamente al centro della nostra azione trasformativa il pensiero filosofico. Perché? La ragione è presto detta. Perché è necessario, oggi più che mai, costruire il senso esistenziale di questo mondo che viene, mappare territori e traiettorie inesplorati dentro un presente metamorfico e arrischiato, reindirizzare e orientare socialmente e politicamente una computazione che sempre più scala a livello planetario e sempre più si immonda.
Se abbiamo smesso di capire il mondo, per riprendere il titolo di un romanzo di successo, è perché il mondo si è proprio rifatto. E, direi, anzi, si sta proprio ricostruendo radicalmente dalle sue fondamenta, in ragione di quattro rivoluzioni oggi dirompenti: intelligenza artificiale e robotica; blockchain e criptoeconomie; computazione quantistica e quantum internet; infine, biologia sintetica con le sue nuove, strane nature, tra carni coltivate e biorobot.
Quella che stiamo vivendo è l’uscita dallo stato di novità scientifica e sperimentale di tutte queste tecnologie per entrare nella loro fase di prototipazione e soluzione ingegneristica. Il che vuol dire passare progressivamente dall’interesse di ricercatori e laboratori a divenire mercati e servizi per le comunità. Con tutte le questioni d’impatto connesse. E, primariamente, quelle della sostenibilità planetaria di questa tecnomorfosi. Come approcciare filosoficamente, allora, il cambiamento straordinario che stiamo vivendo?
La mia proposta esplorativa è articolata su tre domini d’analisi che costituiscono le fondamenta della civiltà digitale:
- programmazione
- automazione
- simulazione
È solo a partire da una riflessione filosofica a tutto tondo sull’apparato tecnologico contemporaneo (non solo etica, quindi, ma anche ontologia, epistemologia, antropologia e finanche metafisica) che possiamo apprendere il nostro tempo col pensiero, come scriveva Hegel. Cominciando a decostruire le frasi un po’ facili con cui ci raccontiamo il mondo che cambia.
a) «Il software si mangia il mondo»: questa è la frase che risuona tanto nei convegni accademici quanto nei business meeting, a testimoniare uno scarto d’epoca. La nostra è, di fatto, una software society e una code economy. Per questo la filosofia deve affrontare, in primis, lo studio del codice software come elemento centrale della nostra civiltà. È infatti un tipo particolare di linguaggio perché ‘fa quello che dice’. Questa nuova scrittura (eseguibile) del mondo richiede uno sforzo interpretativo ed ermeneutico rifondativo. Come abbiamo costruito in passato una filosofia del linguaggio orale e rituale, poi una filosofia della scrittura e della stampa, è ora il tempo di una filosofia del software e della programmazione. E non solo di una filosofia del coding. Sensori, dati, algoritmi, protocolli, piattaforme e tutta la realtà mobilitata dal codice richiede oggi di essere analizzata filosoficamente: i dati come nuovo sensorium del pianeta, il passaggio dall’era archivio all’era dell’oracolo, gli algoritmi di apprendimento macchinico, le piattaforme e i loro nuovi regimi di verità e sovranità automatizzate.
b) «Le macchine ci rubano il lavoro» titolano i giornali insistentemente. Quello dell’automazione è il secondo vettore della civiltà digitale. Tuttavia, filosoficamente parlando, non è solo legato alla robotica o all’intelligenza artificiale – come ingenuamente si tenderebbe a pensare. Piuttosto, l’automazione va indagata come nuova tecnoecologia planetaria. Riguarda le macchine, certamente, ma in maniera più nascosta e profonda riguarda anche protocolli e infrastrutture. E da ultimo i nuovi contratti (sociali) che stiamo immaginando. Pensiamo alla blockchain e agli smart contract a cui di recente la rivista MetaPhilosophy ha dedicato un numero speciale. Perché questa tecnologia rimette in questione concetti filosofici noti: verità, fiducia, tempo, agentività, comunità, consenso, governo. Dobbiamo discutere non solo di economia politica dell’intelligenza artificiale, ma anche di filosofia istituzionale e politica delle reti decentralizzate. Non a caso, alcuni economisti hanno definito la blockchain una sorta di universal Turing institution (non solo una universal Turing machine). L’automazione amplifica anche la simulazione macchinica.
c) «Noi viviamo dentro una simulazione» sospetta qualche filosofo. Più in concreto, credo, qualche ingegnere ci farà vivere grazie a una simulazione. O meglio, in virtù delle molte simulazioni che stanno ridisegnando il nostro mondo. Deep fakes e volti artificiali, digital twin e token crittografici,dati e intelligenze sintetiche, creature biorobotiche e carni coltivate, metaversi aumentati e virtuali, fino ad arrivare ai simulatori quantistici e alle neuroprotesi. «Cosa sta accadendo al nostro mondo (dai media sintetici alle monete digitali)» torna a chiedersi, allora, la filosofia? Bio-engineering, geo-engineering, neuro-engineering stanno erodendo i confini tra naturale e artificiale, creando nuove entità, esperienze ed ecologie. Cos’è spazio, cos’è società, cos’è esperienza, cos’è mente, cos’è corpo, cos’è carne, cos’è vita dobbiamo nuovamente domandarci? È un’improvvisa produzione (ma quanto poi sarà sostenibile ambientalmente, economicamente e socialmente?) di strane nature. Solo ingegneria? No. Filosoficamente, è un nuovo modo di essere del nostro pianeta, una nuova terraformazione dell’umano.
È ormai chiaro che le trasformazioni qui raccontate sono epocali, e non episodiche. Per questo siamo chiamati alla responsabilità di pensare filosoficamente questo nostro nuovo tempo presente programmabile, automabile, simulabile. Potenzialmente migliore nell’auspicio di molte e molti, ma – è bene dirlo qui chiaramente – anche estremamente vulnerabile. Non solo per la messa a rischio della riservatezza personale e della sicurezza informatica dei nostri dati, ma anche per l’esercizio attuale delle nostre libertà, dei nostri diritti e dell’autonomia delle nostre scelte e decisioni. Perché, come ho scritto altrove, non è solo una questione di privacy, ma più radicalmente di destiny. Per questo dico che abbiamo bisogno, con urgenza, di produrre senso. Per questo, dico che abbiamo necessità di una filosofia (del) presente.