Decine di milioni di profili di utenti deceduti su Facebook, poco meno su Instagram, Tik Tok, Twitter, ecc.; QR Code sulla tomba per collegare il luogo fisico al cimitero con i molteplici luoghi digitali in cui giacciono i cadaveri, funerali in streaming e cancer blog. Tutti tentativi scientifici più o meno distopici di dare totale autonomia ai dati condivisi online nel corso della vita per raggiungere l’immortalità digitale.
Questi sono solo alcuni degli innumerevoli esempi che evidenziano come le tecnologie digitali stanno trasformando radicalmente il nostro rapporto con la morte, con il lutto, con il desiderio di immortalità e con la memoria del caro estinto.
Da una parte, ogni essere umano iperconnesso del XXI secolo prolunga quotidianamente la propria identità personale con un multi-modale e disordinato insieme di riflessioni scritte, fotografie e suoni che veicola verso gli altri attraverso sguardi, gesti e voci. Dall’altra, il processo di registrazione, che è alla base della condivisione online dei dati, produce via via tanto l’archivio tecnologico quanto lo spettro più o meno indipendente della vita umana.
L’archivio tecnologico delle vite
L’archivio tecnologico delle vite dei morti era stato previsto alla fine del secolo scorso da Louis Vincent Thomas e da Danilo Kiš.
Il primo, nel suo libro Antropologia della morte del 1975, sosteneva che il progresso tecnologico nel trattamento dell’informazione e della conservazione della memoria dei morti avrebbe determinato la nascita di una «mnemoteca per l’anno 2000», vale a dire «la memorizzazione di tutti i dati utili relativi all’antropologia e alla tipologia di ogni defunto».
Il secondo, nel racconto l’Enciclopedia dei morti del 1983, si immagina l’esistenza di una biblioteca le cui sale contengono informazioni estremamente minuziose di tutto ciò che, ritenuto insignificante e trascurabile, è escluso dagli archivi della cultura ufficiale e non è menzionato nelle altre enciclopedie. Nello specifico, questa biblioteca raccoglie i dati riguardanti la vita delle persone comuni, di modo da documentare e mantenere viva nella memoria collettiva la loro unicità e irripetibilità, senza porre distinzioni sociali tra i cittadini.
Né Thomas né Kiš avrebbero mai immaginato la quotidiana presenza degli esseri umani all’interno dei social media.
Soprattutto la conservazione, più o meno consapevole, delle loro memorie in questi particolari luoghi. Lo spettro digitale indipendente è invece la conseguenza prima del fatto che le molteplici tracce che lasciamo nella dimensione online godono di quella durata illimitata non concessa alla nostra presenza psicofisica nel mondo.
Dunque, una volta morti, rimaniamo presenti nel web. Questo crea inedite criticità per quanto riguarda la gestione delle eredità personali e l’elaborazione del lutto da parte di chi ci ama.
La necessità di un testamento digitale
Se è pertanto fondamentale predisporre un testamento biologico, lo è altrettanto l’organizzazione preventiva di quello digitale.
Un’organizzazione a suo modo ecologica, che applica alla dimensione online una forma di death cleaning il cui compito è monitorare da un punto di vista etico il post mortem in internet.
Si dovrebbe spingere cioè le persone a predisporre questo testamento digitale insieme ai propri cari per evitare:
- Diatribe giuridiche legate – per esempio – alla presenza senza fine o alla cancellazione dei profili social sulla base delle diverse esigenze in merito all’elaborazione del lutto. Molto comune è infatti una situazione in cui un genitore vorrebbe conservare a mo’ di memoria il profilo social del figlio morto mentre il partner lo vorrebbe cancellare. Senza indicazioni del proprietario del profilo, la decisione diventa assai complessa;
- L’uso indebito da parte di terzi delle tracce della propria identità digitale per finalità magari illecite. Tutto quello che resta online – immagini, parole, video – può infatti essere utilizzato da estranei i quali hanno modo di indossare i panni del morto, dal momento che egli non può ovviamente intervenire per evitare questa appropriazione indebita;
- La sofferenza generata dall’inaccessibilità dei contenuti dello smartphone o del computer protetti da credenziali d’accesso. Un’inaccessibilità che dovrebbe spingerci, nel corso della nostra vita, a selezionare cosa lasciare ai nostri cari e cosa invece rendere inaccessibile per ragioni di privacy.
I casi sono molto numerosi e dimostrano la necessità di studi e ricerche approfondite, soprattutto di natura etica, nell’ambito della Digital Death per rendere sensibile la popolazione sulle opportunità e sui rischi delle tecnologie digitali in presenza di un decesso.