L’estate si avvicina ed è finalmente tempo di pic-nic.
Andate al supermercato per comprare piatti e posate e vi trovate di fronte una scelta: plastica normale o plastica biodegradabile? Dài, è una scelta facile, vada per quelle biodegradabili; a maggior ragione visto che andiamo in un parco con tanti alberi.
Una volta finita la bella giornata in compagnia potreste cadere nella tentazione di non raggiungere il cestino lontano e di abbandonare lì piatti e posate, tanto sono biodegradabili e, guarda qua, c’è anche scritto che sono di origine naturale, cosa potrebbe andare storto?
Tutto andrà storto: anatema a chi fa questo ragionamento.
Ma non è colpa vostra, e nemmeno del marketing. In realtà un po’ è colpa di entrambi, ma la fonte originale stessa del ‘peccato’ giace nel materiale, o meglio nei materiali, che ricadono nell’insieme che chiamiamo bioplastica. Si tratta di plastiche che o derivano da materie prime rinnovabili quali le biomasse (bio-based), o sono biodegradabili o hanno entrambe le caratteristiche. In linea di principio le bioplastiche che hanno entrambe queste caratteristiche sono più desiderabili, in quanto cercano di risolvere i due problemi principali della plastica, ossia il derivare da risorse fossili e l’accumulo nell’ambiente quando non la smaltiamo e gestiamo correttamente. Questo vuol dire che una bioplastica del genere sparisce se la dimentico nel parco? Assolutamente no: anzi stai facendo un grande errore.
Innanzitutto plastiche bio-based biodegradabili sono per esempio l’acido polilattico (PLA) usato per la produzione di oggetti in plastica rigida come le bottiglie e le posate, e il MaterBi®, usato per esempio per i sacchetti dell’umido e packaging flessibile. Il PLA deriva dall’unione di molecole di acido lattico, a loro volta derivante dalla fermentazione degli zuccheri da parte di batteri, in un processo simile a quello della produzione dello yogurt. Il MaterBi® deriva invece in parte da amido di mais e in parte da bioplastiche (tra cui il PLA), sia di origine rinnovabile sia fossile, pur mantenendo la biodegradabilità.
Ma chi mi dice se gli oggetti che ho tra le mani sono davvero biodegradabili? Dovrebbero contenere sulla confezione loghi specifici che fanno riferimento a test di biodegradabilità normati a livello internazionale. Ne esistono tre principali per la biodegradabilità in suolo, mare e acque dolci, che garantiscono la sparizione del materiale in un massimo di due anni. Che è poco rispetto alle centinaia necessarie per la plastica convenzionale, ma che comunque in quel lasso di tempo può causare danni agli ecosistemi.
Quindi questo non vi giustifica assolutamente ad abbandonare gli avanzi del vostro pic-nic nel prato. Vanno smaltiti correttamente, ma in quale cestino? Non nella plastica, e nemmeno nell’umido: infatti vanno nell’indifferenziata. A meno che siano certificati anche come compostabili. Questo vi permette di buttarli nel cestino dell’umido, in quanto potranno essere trattati nell’impianto deputato e trasformati in utile fertilizzante. Attenzione però alle vostre indicazioni comunali, perché in alcune zone d’Italia non ci sono strumenti adatti a questo processo. Il mondo delle bioplastiche è apparentemente semplice, ma è in realtà molto complesso, e restare informati è la sola chiave per evitare errori che danneggiano l’ambiente, quando invece pensiamo aiutarlo.