Apprendere reciprocamente

Un’idea di scuola come laboratorio civile, fondata sul dialogo, la cooperazione e la partecipazione attiva di studenti e docenti, in cui una relazione viva con il sapere offra la possibilità di 'pensare insieme' e scoprire i propri talenti. È l’educazione controvento proposta dal maestro Franco Lorenzoni, per contrastare disuguaglianze che si trasformano in discriminazione.

Autore

Giuliano Di Caro

Data

26 Maggio 2025

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6' di lettura

DATA

26 Maggio 2025

ARGOMENTO

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C’era una volta il Maestro Manzi che, conducendo tra il 1960 e il 1968 la celeberrima trasmissione tv Non è mai troppo tardi, divenne un’icona nazionale e aiutò un milione e mezzo di italiani a prendere la licenza elementare. E Mario Lodi, per trent’anni maestro alle elementari della sua città natale, una vita spesa a contribuire allo sviluppo dei metodi e delle proposte pedagogiche del Movimento di Cooperazione Educativa. Nell’immaginario italiano c’è sempre almeno un maestro appassionato, impegnato sul campo con alunne e alunni, formatore, narratore e divulgatore dell’arte dell’insegnare e dell’imparare. Da tempo quel testimone – potremmo dire anche simbolico e collettivo, di maestro che vorremmo per i nostri figli – è passato a Franco Lorenzoni, fondatore nel 1980 della Casa-Laboratorio di Cenci ad Amelia, un luogo di sperimentazioni e scoperte educative in cui centinaia di classi hanno frequentato i campi scuola proposti nella campagna umbra. Il suo ultimo libro, Educare controvento. Storie di maestre e maestri ribelli (Sellerio, 2023) affronta un tema chiave: la responsabilità di chi insegna nel contrastare ogni discriminazione.

Giuliano Di Caro: Maestro Lorenzoni, quanta diseguaglianza che potremmo definire cognitiva, educativa, incontra nelle nostre scuole? Il suo concetto di ‘educare controvento’ nasce come possibile risposta per contrastarla?

Franco Lorenzoni: Io credo che l’educazione sia tale soltanto se è inclusiva e sa andare controvento, se lavora per rendere cosciente la società dei propri limiti e prova a dare il suo contributo a superarli. Non può appiattirsi sul presente, deve saper immaginare e costruire trasformazioni in cui al centro ci sia la crescita degli studenti, ma anche di noi insegnanti.

Nei corsi di formazione che conduco faccio spesso questa domanda ai docenti: «quante cose avete imparato dalle vostre alunne e alunni questa settimana?» Se non abbiamo imparato nulla, vuol dire che la relazione è limitata e univoca, rischiando così di lasciare indietro molti nell’apprendimento.

Il termine ‘reciproco’ ha due radici, recus e procus, andare indietro, andare avanti, come in un passo di danza. Come maestro posso proporre un tema, un’attività, una domanda, ma poi devo fare un passo indietro, lasciare spazio e tempo alle bambine e bambini per rispondere, per elaborare ed esprimere le loro idee e le loro emozioni.

Il primo elemento chiave dell’educare controvento sta proprio in questa relazione, in questa costruzione collettiva della conoscenza. Chi insegna fa parte di una piccola comunità provvisoria che ricerca e si deve mettere in gioco. È il concetto di ‘asimmetria antiautoritaria’ elaborato da Paulo Freire, che sosteneva: quando propongo una conoscenza o un tema cerco di adattarlo al gruppo con cui lavoro e, per farlo, lo ristudio e mi rimetto in discussione. Ascoltando poi le reazioni che suscita in ciascuno di loro ho l’occasione di comprenderlo in modo nuovo, arricchito dei loro apporti.

La conoscenza si sviluppa sempre attraverso una serie articolata di relazioni. Quando si propone un apprendimento separato dalla relazione, le diseguaglianze spesso si approfondiscono perché il sapere viene percepito come qualcosa di esterno, che bisogna limitarsi a saper ripetere, ma non riguarda personalmente chi apprende perché nessuno può apportarvi qualcosa di suo.

Un anno, in quarta primaria, abbiamo letto un libro di Roald Dahl e ho domandato a ogni alunna e alunno di scegliere una pagina del romanzo da leggere alla classe. Nessuno dei ventidue ha scelto lo stesso passaggio e, nel presentarlo ai compagni, abbiamo avuto l’occasione di entrare in quell’opera da tante finestre diverse. Ha inoltre colto l’occasione per presentarsi, perché in ogni scelta ciascuna bambina o bambino racconta qualcosa di sé, della propria intelligenza e sensibilità, e mette in evidenza qualche particolarità del proprio carattere.

Se non hai occasione di fare tuoi alcuni argomenti e ragionamenti, di conoscerti rimbalzando insieme ai tuoi compagni e agli insegnanti su oggetti culturali che appartengono all’arte e alla pittura, alla letteratura, alla storia o alle scienze, rischi di trascorrere gli anni della scuola in un mondo che ti è estraneo.

Il nostro è uno dei Paesi più ricchi al mondo. Eppure, drammaticamente, abbiamo un numero di iscritti all’università e laureati tra i più bassi d’Europa. Una situazione inaccettabile. Significa che troppo spesso, nelle nostre scuole, non siamo stati in grado di appassionare alla conoscenza, di farla sperimentare a generazioni di studentesse e studenti come qualcosa di vivo e vibrante.

GDC – Esistono però anche condizioni oggettive di disparità.

FL – Certamente. Uno degli aspetti che la scuola non può risolvere da sola sono le condizioni familiari di partenza. C’è qualcosa di feudale e di intollerabile nel fatto che chi è figlio di chi ha studiato poco abbia, ancora oggi, molte meno probabilità di andare all’università. Contano poi enormemente le condizioni dei diversi istituti: una scuola degradata fornisce un’immagine evidente di cosa la società degli adulti pensa dell’istruzione. Esistono forti disparità anche a livello di procedure e prassi. Quando, all’inizio degli anni Sessanta, si inaugurò la scuola media unica, quella grande scommessa, che rappresentò la più importante riforma della scuola italiana, prevedeva l’istituzione del tempo pieno in tutte le scuole elementari e medie italiane, come strumento e condizione essenziale per superare i gap e le disparità tra le diverse classi sociali e tra le diverse regioni del nostro Paese. Ma il tempo pieno si realizzò soltanto nel 1971 e, cosa ancor più grave, su richiesta. Così sorsero scuole a tempo pieno al Centro Nord e nelle città industriali, mentre sono ancora oggi praticamente assenti nel Sud, rendendo ancor più difficile l’occupazione femminile. Dopo cinquant’anni la situazione è rimasta praticamente la stessa. L’assenza del tempo pieno fa sì che oggi in Sicilia, per fare un esempio, riguardo ai cinque anni delle elementari, i bambini meridionali o delle zone interne frequentino la scuola un anno di meno rispetto ad alunni che vivono nelle città del centro e del nord Italia. 

Offrire meno scuola, proprio nei luoghi in cui bambine e bambini hanno minori occasioni di crescita e apprendimento fuori dalla classe, è un evidente generatore di diseguaglianza. Specie in un periodo in cui è palese il crescente disagio e solitudine di tante ragazze e ragazzi, con un drammatico aumento di episodi di autolesionismo, disturbi alimentari o dell’attenzione, esplosi con la pandemia, ma che covavano già da prima.

GDC – Oggi si discute molto dei fattori territoriali, del legame tra le scuole e il tessuto sociale e produttivo in cui sono immerse. È una prospettiva in cui si ritrova?

FL – La rigenerazione urbana c’entra molto con la scuola. Senza dubbio la scuola funziona meglio in un territorio capace di progettare il suo futuro. Cosa c’è nel quartiere della tua scuola? Quali luoghi di aggregazione? Quante associazioni, parchi, cinema, teatri, spazi in cui far musica, spazi in cui bambini e ragazzi hanno libertà di muoversi con una certa autonomia, ci sono?

Il territorio educa. Ciascuno è figlio del territorio che abita. E in alcune città ci sono quartieri il cui solo nome ti marchia. Così chi vive a Roma a Tor Bella Monaca o a Napoli a Scampia non può non fare i conti con ciò che si pensa e si dice di quel quartiere, anche se spesso frutto di giudizi affrettati che fanno di ogni erba un fascio. Capita per esempio che in luoghi difficili le scuole possano essere – e spesso siano nei fatti – veri e propri presidi di democrazia, in cui si sperimentano esperienze di grande valore per nulla scontate.

Abbiamo molte e molti insegnanti nel nostro Paese che ci provano e si spendono per migliorare la qualità dell’educazione nel loro instancabile lavoro quotidiano. Ma il problema gravissimo con cui si devono confrontare è che da decenni la classe politica non considera centrale la questione educativa. Il risultato è l’attuale disinvestimento in tutto ciò che riguarda la ricerca e l’istruzione. Nel Dopoguerra, fino agli anni Settanta, c’era una tensione positiva verso la scuola, vista come motore di sviluppo ed emancipazione sociale. È ciò che portò per esempio, a livello locale, alla creazione di scuole dell’infanzia comunali in diverse città dell’Emilia Romagna e della Toscana, che furono tra le migliori in assoluto a livello internazionale. La sinistra, infatti, che per note ragioni non poteva accedere al governo centrale, voleva dimostrare a livello locale la qualità culturale delle scuole dell’infanzia, allora prevalentemente comunali tra le laiche, che facevano a gara e si stimolavano l’una con l’altra.

Ci fu poi, nel 1977, un’altra grande riforma, che aprì l’accesso alla scuola a tutte le ragazze e ragazzi con disabilità, ponendoci tra i primi al mondo nello sposare l’integrazione e l’inclusione scolastica come elemento chiave di un’educazione democratica. Fu un’epoca di grandi visioni e sperimentazioni a cui la nostra scuola deve molto, mentre da tempo manca, a livello politico e nella società, una scommessa collettiva riguardo all’istruzione e all’educazione.

Io credo fermamente che la scuola dovrebbe essere il luogo pubblico più bello e curato di ogni quartiere. Molti sostengono che la scuola, da sola, non possa farcela a superare le disuguaglianze, che spesso si trasformano in forme palesi o velate di discriminazione. C’è bisogno del contributo di entità esterne, possibilmente in concorso tra loro, che diano vita a delle ‘comunità educanti’, frutto di una maggiore collaborazione tra la scuola e le istituzioni comunali, le ASL, l’associazionismo educativo e il terzo settore, per contribuire a rendere le città e in particolare i quartieri più degradati, dei luoghi educativi. Una delle associazioni più attive in Italia sul terreno dello sviluppo delle comunità educanti opera con fondi delle banche. Ben vengano interventi privati, intendiamoci. Ma mi interrogo sul perché non si riesca a imporre ben maggiori investimenti sulla qualità educativa dei territori da parte dello Stato, delle Regioni e dei Comuni, sapendo quanto il costruire luoghi per una socialità più ricca e creativa renda più vivibili e sicure le nostre città.

GDC – I fondi del PNRR dedicati all’istruzione non hanno sancito una svolta, un cambio di rotta, quantomeno un’occasione?

FL – I fondi del PNRR, quando spesi bene – e non è facile farlo – rendono possibili molti progetti, di cui alcuni interessanti. Ma se proviamo a coltivare una visione lungimirante, assolutamente necessaria, il giudizio non può che essere negativo. Con il PNRR le scuole di colpo si sono trovate a dover spendere una notevole quantità di fondi e hanno dovuto elaborare numerosi progetti. Ma perché non pensare che la scuola abbia bisogno di investimenti strutturali, duraturi nel tempo? Limitarsi a ideare e realizzare singoli progetti, che iniziano e finiscono, con tutte le fatiche di rendicontazione del caso, rischia di fare più male che bene alla scuola, perché ogni sperimentazione e innovazione educativa ha bisogno di tempo e continuità, anche per valutarne l’efficacia e i risultati. Oltretutto, una parte rilevante di questi progetti eroga molti fondi per le attrezzature informatiche e per chi conduce corsi supplementari, ma non prevede alcuna copertura economica per chi investe tantissimo tempo nell’ideazione e pianificazione di quei progetti. Un controsenso evidente che frustra, perché non riconosce la fatica delle e dei docenti più impegnati.

Una scuola, per divenire davvero inclusiva, deve organizzare una formazione continua degli insegnanti. Il dramma della scuola, oggi, è che spesso ci sono idee senza soldi, e soldi spesi senza idee. Soltanto con una formazione approfondita e possibilmente collettiva, cioè capace di coinvolgere interi collegi di docenti, può crescere la capacità di progettare, che richiede una grande quantità di tempo e lavoro.

La cultura è relazione, perché la cultura non si può trasmettere come fosse un oggetto inerte. Le conoscenze si acquisiscono davvero se si costruiscono e si sviluppano all’interno di ciascuno, in contesti fondati sul dialogo, capaci di sviluppare rapporti reciproci in cui tutti devono potersi mettere in gioco senza il timore di essere continuamente giudicati. Una formazione al pensiero critico richiede impegno, preparazione, creatività e immaginazione: tutte qualità che possono essere sviluppate solo lavorando e ricercando insieme. Allora le scuole diventano dei luoghi di creazione culturale, capaci di generare nuove idee ed esplorare nuove strade.

GDC – Lei descrive una scuola in cui è un problema che gli insegnanti non abbiano un tempo di lavoro retribuito per ricercare insieme?

FL – Abbiamo un gran lavoro da fare per attenuare le diseguaglianze, trasformando profondamente la didattica e la scuola, che non può essere percepita come luogo in cui si viene continuamente giudicati. La scuola non può assomigliare a un tribunale, che fonda ogni valutazione sui voti, ma deve essere vista e vissuta come un laboratorio in cui si costruiscono conoscenze e competenze, un luogo di ricerca personale e collettiva per alunni e docenti. Per realizzare queste trasformazioni credo sia importante cominciare a ragionare su temi delicati, come prevedere un aumento sostanzioso dei salari, tra i più bassi in Europa, che comporti tuttavia anche un aumento di qualche ora la settimana dell’orario di lavoro delle e degli insegnanti delle superiori, che devono potere avere momenti riconosciuti e pagati per la ricerca, il confronto tra colleghe e colleghi, la programmazione.

Nella scuola primaria, per contratto, noi maestre e maestri, oltre alle 22 ore in classe, abbiamo due ore a settimana in cui ci incontriamo, parliamo delle bambine e bambini, ci confrontiamo e programmiamo le attività. È un momento che, se organizzato bene, è necessario e assai ricco e può fare la differenza riguardo alla connessione tra le diverse discipline e alla qualità delle proposte educative. Purtroppo questo tempo di lavoro non è riconosciuto nei contratti dei docenti delle superiori di primo e secondo grado.

Questa criticità strutturale impedisce di collaborare e sviluppare in pieno la loro capacità di immaginare, costruire e progettare insieme le attività in classe. Come formatori, noi della Casa-Laboratorio di Cenci promuoviamo da decenni corsi che prevedono la compresenza e il confronto tra insegnanti di diversi cicli scolastici, perché per esperienza lo riteniamo un confronto assai generativo.

Non si ha idea di quanto lavoro gli insegnanti svolgano a casa. Per correggere compiti, preparare le lezioni, ma anche per sviluppare progetti specifici. Negli ultimi anni, ore e ore passate a rendicontare e valutare come far funzionare al meglio i fondi che arrivano. Il paradosso è che tutto questo lavoro e questa energia da parte delle e dei docenti ‘militanti’ – coloro che tengono in piedi le nostre scuole – non viene riconosciuto e viene pagato con compensi ridicoli o inesistenti. E allora, se ci fosse la possibilità di prevedere un orario aggiuntivo da dedicare ai progetti e ai rapporti con il territorio, compensato il giusto, tutto sarebbe più chiaro e trasparente. Anche la formazione in servizio dovrebbe essere obbligatoria perché non esiste innovazione senza ricerca. 

C’è poi un gran bisogno di investire sugli spazi. Se una persona nata cento anni fa venisse catapultata nel nostro presente, sarebbe sorpresa e confusa riguardo a quasi tutto, ma si sentirebbe a casa in molte delle nostre aule con i banchi messi in fila, rivolti verso la cattedra, salvo per la presenza di qualche LIM, Lavagna Interattiva Multimediale.

Da diversi anni sembra che per adeguare la didattica alle sfide di oggi basti riempire le scuole di tecnologie sofisticate. Ma non è così. Dobbiamo ripensare spazi, tempi e paradigmi dell’apprendimento, immaginando, costruendo o riadattando spazi diversi e mutevoli, al chiuso e all’aperto, adatti alla lettura, al teatro, alla musica, alle scienze, valorizzando una libera esplorazione delle discipline fondata sul dialogo da parte di ragazze e ragazzi.

GDC – Proprio su questa esigenza profonda di spazi di cooperazione lei ha creato la Casa-Laboratorio, Cenci. È un modello replicabile?

FL – Non credo sia replicabile l’esperienza di Cenci perché frutto di una lunga storia, nata in un contesto diverso da quello attuale. Ciò che osserviamo con soddisfazione è che talvolta alcuni nostri metodi, pratiche e scoperte rivivono in altri contesti, nutrendo la ricerca educativa dentro e fuori dalla scuola.

La Casa-Laboratorio nacque nell’estate del 1980, quando decisi di andare a vivere in campagna. Dal 1977 facevo parte del Movimento di Cooperazione Educativa e avevo il desiderio di abitare in una casa grande e ospitale, dove potessero svolgersi gli stage residenziali che organizzavamo con il MCE romano, che tanto mi avevano formato ed emozionato.

Da quell’esperienza venne l’idea di costruire una Casa-Laboratorio, ma poiché non avevamo molti soldi, abbiamo ristrutturato una camera alla volta di quel vecchio casolare che avevo acquistato grazie al contributo dei miei genitori, cominciando a ospitare i primi stage residenziali in condizioni davvero spartane.

Nel gruppo originario che fece nascere Cenci c’erano alcune insegnanti del MCE e Sista Bramini, un’attrice e regista che poi fondò la compagnia teatrale O Thiasos-Teatro Natura. Quando abbiamo cominciato a portare i nostri allievi nella campagna umbra desideravamo dare loro la possibilità di vivere per quattro o cinque giorni in un luogo dove si potesse fare tutto ciò che a scuola non si può fare: scatenarci in corse a perdifiato, esplorare il bosco, camminare nella notte, osservare il cielo, accendere un fuoco, attendere l’alba in silenzio.

A nutrire quelle prime sperimentazioni c’erano tre esperienze che ci avevano particolarmente segnato: il teatro di partecipazione, l’ascolto come fondamento educativo e una relazione con il cosmo da riscoprire e approfondire. Nella primavera del 1982 avevamo ospitato a Cenci, per tre mesi, il Teatro delle sorgenti di Jerzy Grotowsky, noto regista polacco che negli anni Cinquanta rivoluzionò il ruolo dell’attore nel suo Teatro povero. Quando lo ospitammo, il cuore della sua ricerca riguardava il corpo, la percezione e la qualità dell’attenzione. Le azioni nella natura che proponevano le guide di quella particolare forma di ‘parateatro’ rielaboravano pratiche provenienti da culture diverse. Infatti il gruppo era composto da un colombiano, un peruviano, una polacca e due indiani.

Un’altra fonte di ispirazione derivava dai laboratori per adulti che vivevamo all’interno del MCE romano, un gruppo molto attivo e vivace impegnato in quegli anni a elaborare una ‘pedagogia dell’ascolto’, che metteva al centro di ogni pratica educativa la reciprocità e una nuova attenzione verso il pensiero infantile. Essa emergeva da esperienze coinvolgenti e innovative, e da continui dialoghi.

La terza fonte riguardava l’amore per il cielo portato a Cenci da Nicoletta Lanciano, un’astronoma con cui cominciammo a progettare azioni e costruzioni che portassero partecipanti di ogni età a riscoprire quanto concetti por-tanti del nostro pensiero come ‘spazio’ e ‘tempo’ si siano andati definendo a partire da osservazioni e relazioni intense con il cosmo, elaborate nei secoli dalle culture di ogni latitudine. La prima mostra che documentò il nascere dei nostri campi scuola la intitolammo, infatti, Con il cielo negli occhi.

Negli anni Duemila, con l’arrivo a Cenci di Roberta Passoni, che ora coordina le attività educative della Casa-Laboratorio, il tema dell’inclusione e di un’attenzione particolare a ogni tipo di fragilità ha profondamente arricchito la nostra ricerca. La proposta che facciamo alle e agli insegnanti che portano le loro classi a Cenci è quella di affidarsi e di cambiare ruolo, avendo la possibilità di osservare le loro alunne e alunni in una prospettiva non scolastica. Le nostre operatrici e operatori infatti guidano tutte le attività e abbiamo constatato molte volte che, cambiando luogo e contesto, ragazze e ragazzi rivelino qualità e tratti del loro carattere che stupiscono compagni e insegnanti.

GDC – In che fase della sua evoluzione è, oggi, la Casa-Laboratorio?

FL – In 44 anni di vita la Casa-Laboratorio si è molto trasformata, naturalmente, ma noi ci teniamo al fatto che, a parte le nostre cuoche meravigliose, nessuno ci lavori a tempo pieno. Le nostre ricerche si nutrono della scelta che chi porta le sue proposte a Cenci abbia anche altri ambiti di lavoro, che nutrono l’impegno educativo. C’è chi viene dal teatro o dalla danza, chi dal volontariato educativo, dall’artigianato, dalla ricerca scientifica o dall’impegno sociale.

Ci siamo poi noi che lavoriamo nella Casa-Laboratorio da più anni, che proponiamo alle operatrici e operatori una formazione continua, insieme a corsi di formazione residenziali per docenti su diversi temi: dall’astronomia alla narrazione orale, dalle riflessioni sull’apprendimento della lingua in un laboratorio che chiamiamo Testo e contesto all’Officina matematica, fondata a Cenci nel 2002 da Emma Castelnuovo, straordinaria innovatrice della didattica della matematica.

In questo momento siamo impegnati in una sfida che ci sta molto a cuore. Dopo la pandemia abbiamo dato vita a due esperienze per noi particolarmente significative. La prima, realizzata grazie al Bando ‘Educare’, promosso dal Ministero per le pari opportunità e la famiglia, prevedeva che ogni lunedì Cenci ospitasse, dopo la scuola, un nutrito gruppo di ragazze e ragazzi che avevano alcune difficoltà in classe. Per alcuni mesi hanno partecipato alle azioni e costruzioni nella natura che generalmente proponiamo. Ma l’aspetto più interessante di quel progetto è che, nella primavera, abbiamo avuto la possibilità di ospitare a Cenci, per una giornata, le loro classi. In quella occasione erano loro che guida-vano compagne e compagni alla scoperta di un luogo e di pratiche che avevano conosciuto e vissuto. Un ribaltamento di ruoli molto salutare, a nostro avviso, perché rendeva protagoniste e protagonisti coloro che, per diverse ragioni, rischiavano di sentirsi emarginati o esclusi nella scuola.

Il secondo progetto, che dura ancora oggi, ha portato alla realizzazione di un ‘Orto lunare’. Coinvolge un gruppo di giovani con disabilità cognitive che frequentano due centri diurni e un’associazione del ternano. Poiché gli incontri si svolgono da tre anni di giovedì, in quel giorno i giovani coinvolti propongono il lavoro nell’orto alle ragazze e ragazzi che partecipano ai campi scuola. Una mattina, spiegando perché sia sinergico il nostro orto che chiamiamo lunare, uno di loro ha detto che sinergico vuol dire che ‘le piante si aiutano tra loro’, esplicitando nitidamente il senso di ciò che andiamo cercando.

Partendo da questa esperienza vorremmo coinvolgere a pieno titolo nella gestione dei campi scuola otto ragazze e ragazzi con disabilità cognitive, pre-parandoli con giornate di formazione e tirocini. Ribaltare i ruoli, cercando di smontare e contrastare ogni forma di discriminazione, crediamo infatti che sia la principale sfida dell’educare oggi.

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