«L’analfabeta del XXI secolo non sarà chi non sa leggere e scrivere, ma chi non sarà capace di imparare, disimparare e reimparare». Con queste parole Alvin Toffler nel 1970, nel suo libro Future Shock1, guarda a una direttrice precisa che, ai suoi tempi, aveva provocato diversi confronti. Toffler è un classico caso di figura poliedrica nella quale la conoscenza della sociologia e una capacità creativa, quasi preveggente, si intrecciano insieme a ulteriori contesti di sapere e di curiosità. Difficile collocarlo in una tassonomia che già negli anni Settanta era indissolubilmente legata alle competenze specialistiche, più semplice coglierne spunti dagli scritti.
Qualche secolo prima Francesco Bacone, altra figura poliedrica di grandissimo spessore, politico, avvocato, scienziato, arrivato fino a noi con la più corretta connotazione di filosofo, discettava di conoscenza e di altre cose e, nelle sue vesti di consigliere dell’ambasciatore d’Inghilterra in Francia, aveva addirittura inventato uno dei primi linguaggi crittografati, proprio per comunicare con il suo governo. Nel suo vastissimo curriculum troviamo la formulazione di un nuovo metodo induttivo, con un approccio che farà poi da apripista a Leibniz e a tutto l’Illuminismo, tanto da arrivare alla dedica ne L’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. E anche una parte importante di utopia che lo traghetterà più facilmente ai giorni nostri. A lui è attribuita la frase «Scientia potentia est», ovvero «Sapere è potere». È una massima che non si trova in nessuno dei suoi scritti, ma è verosimilmente compatibile con il suo pensiero filosofico, in particolare con la sua visione del ruolo della conoscenza nel progresso umano e nel dominio della natura. L’uomo che conosce domina. La natura e, ovviamente, gli altri uomini.
In questa prospettiva chi possiede la conoscenza ha la capacità di influenzare, controllare o agire in modo efficace sul mondo circostante. Una visione in cui il sapere acquisito conferisce direttamente potere a chi lo possiede. Questo modo di intendere il sapere è legato all’idea che la conoscenza rappresenti un mezzo per comprendere e quindi controllare o trasformare la realtà, che si tratti di conoscenze tecniche, scientifiche o sociali.
«Sapere è potere» mette il focus su una dimensione di “attualità” (il possesso della conoscenza) che rappresenta un fondamento all’esercizio di potere. Ma cosa accadrebbe se, nel contesto attuale, caratterizzato da instabilità e rapidità di mutamento, si spostasse l’attenzione dalla relazione tra potere e un elemento statico (il possesso della conoscenza) a quella tra potere e un elemento dinamico (il processo di apprendimento)? Se a essere “potere” nel mondo contemporaneo non fosse più il sapere ma l’apprendere, o meglio, l’abilità di farlo in qualsiasi momento sia ritenuto necessario?
Gli agenti artificiali per l’apprendimento
Il sapere non è mai stato sistema statico, ma se ai tempi di Bacone poteva avere un perimetro a grandi linee riconoscibile e, in qualche misura, conoscibile, ora non è più così: siamo di fronte a un sistema senza una forma stabile e con una tendenza continua all’espansione in tutte le direzioni.
Nella nostra contemporaneità, l’accessibilità diffusa dei Large Language Models (LLM), come ChatGPT, Gemini, Copilot o Claude, ha radicalmente trasformato il nostro rapporto con la conoscenza, ampliando in modo pressoché improvviso il potenziale umano di accesso al sapere. Si sta delineando, in una prospettiva quasi istantanea, la diffusione di veri e propri AI agents, personalizzati, il cui scopo è il supporto attivo e proattivo all’individuo, nel raccogliere informazioni, nello svolgere compiti, ma anche nell’apprendere. Strategia attuata non solo da OpenAI, ma chiaramente sottesa a tutti i miglioramenti in termini di personalizzazione delle prestazioni attuate dai principali LLM nel corso del 2024. Con l’avvento degli agenti artificiali, quei limiti circoscritti che il Premio Nobel Herbert Simon2, uno dei padri fondatori della scienza cognitiva, aveva definito nel concetto di bounded rationality (razionalità limitata) già nel 1982, hanno subito una trasfigurazione. Simon evidenzia come gli esseri umani, nel prendere decisioni, siano limitati dalla quantità di informazioni che possono elaborare e dalle capacità cognitive che possiedono: come andiamo a definire i limiti cognitivi di esseri umani che possono apprendere ovunque, in tempi contenuti, grazie al supporto di agenti artificiali? E non si tratta semplicemente di acquisire informazioni, ma dell’intero processo di elaborazione, connessione, integrazione e consolidamento di conoscenze o abilità che è proprio della trasformazione di chi impara. In una parola: dell’“apprendimento”.
Primo punto. Chi impara trasforma e si trasforma. È un agente attivo del cambiamento
Se sollecitati correttamente, i LLM possono aiutare a strutturare un percorso. Dialogare e incoraggiare, discutere e criticare, rispondere e aprire nuove direzioni di esplorazione. Possono suggerire una guida allo studio, una timeline di apprendimento, e aiutare a monitorare i progressi identificando le aree di debolezza. Attraverso feedback mirati, si possono ricevere indicazioni specifiche a elaborati o esercizi per migliorare e rafforzare tali lacune. E tutto questo attraverso il canale mediale preferito: la multimedialità rappresenta, di per sé, un ulteriore livello di integrazione in questi strumenti.
È inoltre possibile inserire immagini, link a video o file audio, e ricevere trascrizioni di contenuti video o audio su cui dialogare direttamente. Strumenti come NotebookLM di Google permettono persino di trasformare i contenuti in nuovi formati, come podcast personalizzati, di selezionare e interrogare specifici set di contenuti, cambiando continuamente la selezione in base alle necessità e al percorso seguito per poi salvare e organizzare in forma di “blocco note” tutti i contenuti utili. Questa possibilità di modulare e riorganizzare attivamente le informazioni è particolarmente utile per chi desidera esplorare connessioni tra concetti e discipline diverse. Il risultato finale può essere non solo l’acquisizione di conoscenze, ma anche lo sviluppo di abilità metacognitive: imparo come si impara, e imparo a farlo meglio.
In un contesto in cui l’accessibilità di questi strumenti, o meglio, in accordo con il filosofo Cosimo Accoto, di questi costrutti socio-culturali, fosse diffusa, avrebbe senso dire che, nel mondo attuale, l’abilità di imparare – la predisposizione a crescere, svilupparsi e adattarsi – sia di per sé una risorsa di potere? Ma, se questa affermazione fosse vera, che tipo di potere sarebbe quello di imparare? Proviamo a fare un passo indietro e diamo un perimetro al concetto di “potere” e al modo in cui lo possiamo usare in questa riflessione.
Negoziare la propria identità con il potere. Con la propria agency
Non è dato parlare di potere senza riferirci a Michel Foucault. Il suo approccio ha rivoluzionato il modo in cui viene concepito nelle scienze sociali e umane, spostando l’attenzione dal potere inteso come una proprietà statica o monopolizzata da individui o istituzioni, a una concezione più fluida e diffusa: una forza di natura eminentemente relazionale, che permea le strutture sociali e si esercita in tutte le interazioni umane. Foucault ci ha insegnato che il potere non è soltanto la capacità di influenzare o controllare le azioni e i comportamenti altrui, ma si esercita attraverso il controllo delle conoscenze, dei discorsi e delle pratiche sociali. Tuttavia, l’individuo non è semplicemente un soggetto passivo del potere, ma è anche un agente che contribuisce alla sua perpetuazione o resistenza. Ed è proprio in questa dimensione di relazione che si inserisce quel tipo di potere, che in ambito sociologico e antropologico viene chiamata agency, ovvero la capacità degli individui di agire in autonomia e di esercitare una certa influenza sul mondo che li circonda.
In una prospettiva filosofica e antropologica, l’agency può essere vista come una forma di potere individuale, non semplicemente, però, l’esercizio di un controllo sugli altri. Piuttosto, sintetizza la capacità di agire per realizzare i propri obiettivi, negoziando strutture sociali, norme culturali e relazioni di potere preesistenti.
In questo senso, il potere non è una questione di controllo o coercizione sugli altri, ma riguarda la facoltà di scelta e l’accesso alle opportunità che permettono agli individui di esercitare la loro libertà e creatività. Questa interpretazione del potere si avvicina all’idea di empowerment, ossia la possibilità di realizzare il proprio potenziale e di influenzare attivamente la propria vita e le condizioni sociali in cui si è inseriti. È intuitivo che le persone con maggiore accesso a risorse e reti sociali hanno più “possibilità di”, più “potere di” agire e plasmare il loro destino rispetto a coloro che sono privati di queste risorse. Con il concetto di habitus, Pierre Bourdieu, sociologo e filosofo francese, collega il potere al capitale sociale, culturale ed economico che gli individui possono accumulare e utilizzare, a volte ereditare, per influenzare il proprio status nella società, offrendo un’ulteriore prospettiva del rapporto tra potere e agency3. Per il sociologo, l’habitus è un insieme di disposizioni interiorizzate che orientano il comportamento degli individui in accordo con la loro posizione sociale. Queste disposizioni, però, non eliminano completamente la possibilità di agency: questa si manifesta nel modo in cui gli individui negoziano le norme sociali e culturali e le utilizzano per ottenere vantaggi strategici all’interno dei campi in cui si trovano. In altre parole, anche se l’agency è limitata dalle strutture sociali e dall’habitus che ne deriva, gli individui possono usare le loro conoscenze e abilità (acquisite tramite apprendimento) per navigare e manipolare tali strutture, esercitando una forma di potere su di esse. È quella che l’antropologa Sherry Ortner4 definisce agency trasformativa, in alternativa all’agency riproduttiva che riguarda la capacità degli individui di riprodurre le strutture sociali esistenti, mantenendo l’ordine sociale e le gerarchie di potere. L’agency trasformativa riguarda la capacità di sfidare e trasformare quelle stesse strutture. In questo contesto, può essere vista come una forma di potere, perché consente agli individui di plasmare attivamente la realtà sociale, invece di essere semplicemente plasmati da essa. E non si tratta solo di negoziare ruoli, compiti, funzioni, ma anche la propria identità. Nella sua teoria della performatività, Judith Butler, una delle più influenti personalità contemporanee nel campo della teoria del genere e studi queer, afferma che, poiché l’identità non è qualcosa di fisso o predefinito, ma si costruisce attraverso l’azione e la ripetizione di atti, una forma di agency trasformativa importante è quella che permette agli individui di esprimere identità che non conformano alle aspettative dominanti5
Apprendimento dinamico, non sapere statico
Se ci fermiamo al fatto di vedere il potere nella sua prospettiva di agency abilitante a scegliere e realizzare i propri obiettivi o a cambiare sé stessi o il mondo, sembrerebbe avere molto più a che fare con la disponibilità di sapere che con l’imparare, con l’abilità di apprendere. L’apprendimento non è però, come il sapere, uno strumento per affrontare il cambiamento, ma un’abilità che amplifica il potenziale di adattamento e innovazione. In questo senso, l’abilità di apprendere è un potere fluido, capace di modificarsi e di rispondere in tempo reale alle esigenze. L’abilità di apprendere non è solo una risorsa, ma un potenziale evolutivo che conferisce all’individuo o all’organizzazione la flessibilità e la forza necessarie per prosperare in condizioni di fragilità, non linearità e incomprensibilità, rivitalizzando in modo costante l’agency messa continuamente in crisi dall’evoluzione del contesto. Inoltre, in un mondo dove il fragile, il non lineare e l’incomprensibile dominano, l’abilità di apprendere rappresenta una forma di potere che non solo permette di rispondere ai cambiamenti, ma offre anche la capacità di adattarsi proattivamente, di creare soluzioni innovative e di generare valore in condizioni di caos. Chi sa apprendere è in grado di dominare l’incertezza, trasformando la vulnerabilità in un’opportunità di crescita.
In un contesto fragile, in cui i sistemi sono solo apparentemente solidi e possono collassare improvvisamente, l’abilità di apprendere diventa una forma di resilienza. Chi può acquisire rapidamente nuove competenze o adattare il proprio approccio è meno esposto agli shock sistemici. Il potere non risiede solo nella conoscenza attuale, ma nella capacità di apprendere velocemente e rispondere ai fallimenti dei sistemi, sapendo anche gestire il disorientamento generato dalla costante incertezza. Chi sa di poter imparare sa di poter trovare nuove risposte o scoprire soluzioni. Sapere di poter imparare genera fiducia: sapere di poter acquisire nuovi strumenti per affrontare i problemi diventa un fattore cruciale per mitigare l’ansia, sentimento chiave del nostro tempo, che andrebbe forse meglio descritta come “angoscia”, cioè come quella vertigine della libertà che Søren Kierkegaard ha così bene esplorato come sentimento associato alla possibilità di scelta e che nel nostro tempo è apparentemente, ma spesso ingannevolmente, infinita.
Kierkegaard afferma che l’angoscia ha una funzione positiva, in quanto spinge l’essere umano a confrontarsi con la propria esistenza e a scegliere con consapevolezza. In un contesto in cui la complessità diventa talmente alta da risultare spesso incomprensibile, l’abilità di apprendere è essenziale per decodificare il reale, man mano che lo attraversiamo. E per costruire quella consapevolezza che Kierkegaard6 ritiene centrale e che, in una prospettiva contemporanea, non trova più automaticamente realizzazione nella relazione con la divinità, ma si costruisce attraverso nuove modalità di comprensione della realtà.
Il potere di imparare – parte seconda
Note
- A. Toffler, Future Shock, Random House, New York, 1970.
- H. Simon, Models of bounded rationality, MIT Press, Cambridge (MA), 1984.
- P. Bourdieu, Outline of a theory of practice, Cambridge University Press, Cambridge, 1977
- S.B. Ortner, Making Gender. The politics and erotics of culture, Beacon Press, Boston, 1977.
- J. Butler, Gender trouble, feminism and the subversion of identity, Routledge, Londra, 2006.
- S. Kierkegaard, Il concetto di angoscia, SE, Milano, 1992 (ed. or. 1844).