Mercati zonali: equilibrio tra efficienza, equità e politica

Mercati zonali: come funzionano, criticità e cosa insegnano i diversi esempi nel contesto Europeo.

Autore

Marta Moretto

Data

14 Ottobre 2025

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5' di lettura

DATA

14 Ottobre 2025

ARGOMENTO

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I mercati elettrici di tutto il mondo sono sempre più messi alla prova dalla congestione delle reti, determinata dalla crescita della domanda di elettricità, dall’espansione della generazione da fonti rinnovabili e dai vincoli infrastrutturali della trasmissione. Garantire l’affidabilità della rete e al tempo stesso il buon funzionamento del mercato è diventata la sfida centrale della transizione energetica, soprattutto in condizioni di variabilità climatica, come ha messo in evidenza il recente blackout in Spagna e Portogallo.

Il sistema di pricing zonale

In questo contesto, il sistema di zonal pricing  è emerso come l’approccio dominante nell’Unione Europea, dove il mercato interno dell’elettricità ha adottato un’architettura a zone per bilanciare l’efficienza del mercato con la fattibilità del sistema. La prezzatura zonale viene applicata suddividendo la rete di trasmissione in aree geografiche predefinite o ‘zone di offerta’, all’interno delle quali si assume che i prezzi dell’elettricità siano uniformi. Questa semplificazione implica che i vincoli di trasmissione interni vengano ignorati nel processo di clearing del mercato day-ahead, cioè durante l’asta che si svolge il giorno prima della consegna dell’energia, in cui domanda e offerta si incrociano e viene determinato il prezzo di equilibrio per il giorno successivo. In linea teorica, ciascuna zona aggrega più nodi caratterizzati da costi marginali e condizioni di rete simili. Tuttavia, nella pratica, questa assunzione si rivela spesso poco realistica. Con l’evoluzione dei modelli di generazione e consumo, in particolare con la rapida diffusione delle fonti rinnovabili, i colli di bottiglia interni alla rete sono diventati sempre più frequenti, minando l’assunto di base di omogeneità all’interno delle zone.

Oggi, il modello di prezzatura zonale è sempre più sotto scrutinio. Nonostante la sua semplicità e la sua accettabilità politica, l’efficacia nella gestione della congestione è contestata. I vincoli interni alla trasmissione all’interno delle zone richiedono spesso costose azioni di ridispacciamento da parte dei gestori di rete (TSO) dopo il clearing del mercato, con conseguenti inefficienze, segnali di prezzo distorti e aumento dei costi complessivi del sistema. Per esempio, dati recenti dell’Agenzia per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia (ACER) riportano costi di gestione della congestione pari a 4,2 miliardi di euro in Europa nel solo 2023, con un incremento annuo del 14,5%. Queste tendenze sollevano interrogativi sull’adeguatezza dell’attuale configurazione zonale e sulla sua capacità di affrontare i crescenti colli di bottiglia intra-zonali e garantire flussi elettrici efficienti dal punto di vista economico.

Perché l’Europa ha scelto le zone?

In Europa, il modello di mercato elettrico a zone è stato introdotto tra gli anni ’90 e i primi 2000, durante la transizione dai monopoli pubblici verticalmente integrati a mercati elettrici più aperti e concorrenziali. All’epoca, si conosceva già l’alternativa del prezzo nodale, utilizzata da alcuni Paesi come la Nuova Zelanda (1997) e la grande rete interconnessa PJM negli Stati Uniti (1998). Tuttavia, nazioni europee come Italia, Norvegia e Svezia optarono per la prezzatura zonale. Questa scelta non fu casuale, ma il risultato di un compromesso storico e politico: serviva un modello che fosse efficiente, ma anche percepito come equo da consumatori e investitori. Inoltre, un sistema nodale avrebbe richiesto un’autorità centrale europea capace di gestire le regole del mercato oltre i confini nazionali, superando i poteri delle singole autorità di regolazione. Una prospettiva che, negli anni ’90, era politicamente impraticabile. Per questo si preferì una soluzione più semplice e rispettosa delle frontiere nazionali, che permise comunque di avviare l’integrazione dei mercati attraverso il market coupling, ossia il coordinamento degli scambi elettrici tra Paesi confinanti.

Il modello zonale fu quindi una scelta pragmatica e relativamente rapida da realizzare. Negli Stati Uniti, invece, diversi mercati passarono presto al sistema nodale, anche per evitare manipolazioni e inefficienze. In Europa, dove le regole erano più rigide e le infrastrutture più robuste, i mercati zonali hanno retto meglio. Applicare un sistema nodale in Europa sarebbe, infatti, molto complicato: mancano un operatore unico e regole standardizzate per la gestione della rete a livello comunitario. Per questo il sistema zonale resta oggi lo standard, con il vantaggio di offrire un prezzo unico per area, chiaro e facilmente leggibile da tutti gli attori del mercato. Questo aumenta la trasparenza e facilita il commercio di energia tra Paesi, un elemento cruciale per ridurre i colli di bottiglia transfrontalieri. D’altra parte, la prezzatura uniforme presenta limiti importanti: non incentiva l’adattamento alle oscillazioni sempre più forti introdotte dalle rinnovabili, può comportare perdite di benessere economico e genera elevati costi di ridispacciamento, cioè di correzione ex post dei flussi elettrici.

Il confronto con PJM, uno dei più grandi mercati statunitensi, è istruttivo: lì il modello nodale funziona su una scala molto più ridotta rispetto all’Europa, che oggi conta ben 61 zone di offerta distribuite tra diversi Stati membri. Alcune di queste corrispondono ai confini nazionali, come Francia o Germania, mentre altre sono interne ai Paesi, come in Italia, Norvegia e Svezia, per riflettere meglio i vincoli strutturali di rete e le differenze regionali di domanda e offerta. Questa frammentazione, unita alla varietà di regole e infrastrutture, rende difficile applicare un sistema nodale uniforme a livello continentale. Nel tempo, alcuni Paesi hanno comunque valutato il passaggio al nodale. La Polonia, ad esempio, aveva programmato di introdurlo nel 2015, ma ha poi rinunciato anche a causa delle resistenze della Germania, che temeva complicazioni nella gestione dei flussi transfrontalieri. L’esperienza americana, quindi, resta un riferimento utile ma difficilmente replicabile in Europa, dove potrebbe essere necessario un approccio più graduale e differenziato.

Un esempio interessante arriva anche dal Regno Unito. Negli anni ’90, durante le privatizzazioni volute dal governo Thatcher, Inghilterra e Galles operarono come un’unica zona di mercato, mentre la Scozia mantenne inizialmente una struttura separata con due grandi utility integrate verticalmente. Solo nel 2005, con l’introduzione del British Electricity Trading and Transmission Arrangements (BETTA), la Scozia entrò a pieno titolo nel mercato britannico unico, nonostante i colli di bottiglia lungo il confine con l’Inghilterra. L’Irlanda del Nord, invece, seguì un percorso diverso e nel 2007 creò insieme alla Repubblica d’Irlanda un mercato unico dell’energia, il Single Electricity Market (SEM), che ancora oggi coordina gli scambi su tutta l’isola.

Alcuni esempi di mercati zonali

Una delle domande più frequenti nel dibattito sull’energia sembra semplice: quante zone dovrebbe avere un mercato elettrico? In realtà, non esiste una risposta applicabile per tutti. Il numero ‘giusto’ dipende da fattori tecnici, economici e geografici: la struttura della rete, la distribuzione di domanda e offerta, la direzione dei flussi di energia e gli obiettivi generali del sistema, come efficienza, sicurezza e trasparenza.

I casi internazionali mostrano bene questa diversità. L’Italia, ad esempio, è spesso citata come modello: la sua rete lunga e stretta, con produzione distribuita e domanda concentrata, ha reso necessario adottare un sistema multi-zonale già vent’anni fa, composto da sette zone da Nord a Sud e le due isole. Una scelta che ha permesso di gestire meglio gli squilibri strutturali e ridurre i colli di bottiglia. Per anni, però, ai consumatori italiani è stato applicato un prezzo medio nazionale, per evitare che le forti differenze geografiche e di produzione elettrica tra Nord e Sud penalizzassero le famiglie e le imprese meridionali, che sperimentavano prezzi sensibilmente più alti. Solo recentemente, grazie a investimenti mirati e allo sviluppo delle rinnovabili, questo sistema ‘ibrido’ non è più stato necessario, rendendo l’Italia un esempio di successo del pricing zonale, in cui i prezzi delle zone si sono sempre più allineati, diventando quasi identici su tutto il Paese. 

Altri Paesi hanno fatto scelte diverse. In Norvegia e Svezia, ad esempio, i prezzi zonali si applicano anche ai consumatori, con conseguenze evidenti: nelle regioni del Sud, dove la popolazione è più numerosa ma la produzione energetica scarsa, le bollette risultano sensibilmente più alte rispetto al Nord, ricco di impianti e con una domanda più contenuta. Queste disparità hanno alimentato malumori e acceso il dibattito politico, mettendo in discussione se il modello zonale sia davvero preferibile a un prezzo nazionale unico. 

In California, invece, si è scelto un approccio ibrido dopo essere stata per diversi anni interamente zonale: i produttori ricevono prezzi nodali, mentre i consumatori al dettaglio pagano un prezzo medio calcolato su tre grandi zone. Questi esempi mostrano che non esiste un modello unico, ma una gamma di soluzioni adattabili alle caratteristiche di ogni sistema.

Il tema è particolarmente attuale anche in Gran Bretagna, dove il governo sta valutando una profonda riforma del mercato elettrico. Le ipotesi variano da un sistema a 7 zone fino a uno a 12 zone, tra i più dettagliati mai proposti. Anche la Germania è al centro del dibattito: nonostante la forte congestione Nord-Sud, acuita dall’uscita dal nucleare e dall’espansione delle rinnovabili, Berlino continua a mantenere un’unica zona di mercato. Una scelta dettata più da ragioni politiche e istituzionali—coesione economica, interessi dei Länder meridionali, equilibrio federale—che da valutazioni tecniche. La lezione che emerge da questi casi è chiara: non esiste un numero ideale di zone valido per tutti i mercati. Ogni Paese deve trovare il proprio equilibrio, basandosi su dati concreti e sulla capacità di bilanciare efficienza economica, equità sociale e accettabilità politica. Guardare all’esperienza altrui non significa copiarla, ma prendere spunti per costruire un modello adatto alle proprie sfide1.

Note

  1. M. G Pollitt e M. Moretto, How Many Zones Should an Electricity Market Have? A Cross-Country Perspective on Bidding Zone Design. EPRG Working Paper No. 2515; Cambridge Working Paper in Economics CWPE 2541, Energy Policy Research Group, Judge Business School, University of Cambridge, 2025 Disponibile online: https://www.jbs.cam.ac.uk/wp-content/uploads/2025/06/eprg-wp2515.pdf
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