ATTO PRIMO – Strada di campagna, con albero. È sera. Estragone, seduto per terra, sta cercando di togliersi una scarpa. Vi si accanisce con ambo le mani, sbuffando. Si ferma stremato, riprende fiato, ricomincia daccapo. Entra Vladimiro e domanda: «Come sto?» Ed Estragone risponde: «Non so».
I dialoghi tra i due protagonisti dell’opera Aspettando Godot di Samuel Beckett sembrerebbero ben descrivere l’incertezza che Donald Trump sta generando sui mercati. Le sue continue giravolte lasciano il mondo economico in balia di un turbinio di reazioni che non sono un bel segnale per il futuro. E i mercati finanziari seguono l’imprevedibilità di Trump come su un ottovolante.
Circa un mese fa è stato sufficiente che girasse voce che i dazi sarebbero stati sospesi per 90 giorni affinché il Dow Jones virasse da un profondo rosso verso un pareggio. Poi si è scoperto che la notizia non era veritiera e l’indice di borsa è crollato di nuovo. Sono passati alcuni giorni e, per prima cosa, Trump ha invitato a fare acquisti e poi è giunta la notizia da parte della Casa Bianca che i dazi sarebbero stati sospesi per 90 giorni (di nuovo?). I mercati finanziari hanno ripreso fiato. Tutto ciò porta ad alcune riflessioni. Una è relativa all’estrema sensibilità e volatilità del mercato azionario che indica una vulnerabilità del sistema. Ma ne discuteremo in un futuro.
Non è chiarissima invece la strategia di Trump di lungo periodo. Si intravvede una logica, cioè quella di rendere gli Stati Uniti ‘di nuovo grandi’ con una riduzione del deficit commerciale, una spinta verso un processo di reshoring e di produzione interna, un rallentamento del processo green nel breve periodo, il tempo necessario per recuperare il gap con la Cina verso la inevitabile futura transizione. Ma la domanda è se la scommessa non sia stata troppo ambiziosa e priva di una rete di protezione di fronte ad una possibile (qualcuno dice ‘altamente probabile’) caduta.
Trump ha già adottato i dazi nel 2018: hanno generato una ritorsione da parte di altri Paesi nei confronti degli Stati Uniti. Per esempio gli USA hanno incrementato le proprie tariffe verso la Cina dal 3% al 19%, il Dragone ha risposto con un balzo dal 8 al 21%. Le ricerche successive hanno mostrato che l’effetto congiunto è stato quasi nullo in termini di occupazione nei settori in cui gli Stati Uniti hanno applicato i dazi per spingere la produzione interna, mentre è stato fortemente negativo nei settori soggetti alla ritorsione da parte dei Paesi esteri, soprattutto in agricoltura; l’import-export si è ridotto in volume, con una significativa perdita di reddito nazionale reale.
Allora cosa resta? L’incertezza e il teatro dell’assurdo di Beckett. L’imprevedibilità è sempre stata un po’ il marchio di fabbrica di Trump nelle campagne elettorali. Ma mentre può funzionare molto bene in politica, può generare potenziali disastri in economia. Gli economisti hanno da tempo riconosciuto che quando il futuro è più nebuloso del solito, i consumatori e le imprese tendono a rimandare consumi ed investimenti. E tutto ciò, ovviamente, rallenta l’economia. Già nel 1936 Keynes sottolineava come «la propensione al consumo può essere fortemente influenzata dallo sviluppo di un’estrema incertezza». L’ex presidente della FED e premio Nobel 2022, Ben Bernanke, nel 1980 sottolineò come, in linea con ampia letteratura economica, «un aumento dell’incertezza possa spingere le imprese a sospendere alcuni progetti di investimento fino a quando le cose non diventeranno più chiare».
Nelle ultime settimane, le giravolte della Casa Bianca hanno spinto l’indice di incertezza di politica economica (l’EPU) ad un livello superato solo durante i primi giorni del COVID-19. È più alto di quanto non fosse dopo l’11 settembre o durante la crisi finanziaria del 2008, quando il sistema bancario è quasi collassato o durante la crisi del debito del 2011. Alla luce del quadro che ci si staglia davanti, Robert Engle, premio Nobel 2003, prefigura l’arrivo di una inevitabile recessione con il timore che possa addirittura trasformarsi in stagflazione, la combinazione tra ‘stagnazione’ e ‘inflazione’. I mercati infatti hanno ben compreso che i dazi generano inflazione e questa, a sua volta, ha un effetto sui tassi di interesse. A cascata si rallentano gli investimenti ed aumenta il costo dell’enorme debito americano che ha superato il 120% del PIL e che ammonta a oltre i 35mila miliardi, pari al 178% del PIL della Unione Europea, ed a circa il 228% della somma del PIL di Germania, Italia, Francia, Inghilterra, Olanda e Spagna. Sicuramente il problema del debito americano fa parte delle concause di questo periodo di turbolenza ed è un elemento che mina la crescita futura.
Il Congressional Budget Office lo proietta al 156% del PIL nel 2055 ma, in caso di adozione stabile dei dazi, avrebbe un ulteriore aumento di 47 punti. Nel contempo l’indebolimento del dollaro aumenta la incertezza: da un lato infatti si ha un aiuto alla bilancia commerciale, favorendo le esportazioni, dall’altro però una valuta debole non corrisponde esattamente a Stati Uniti ‘di nuovo grandi’ e c’è il rischio che il dollaro perda il ruolo di valuta di riferimento.
In ogni caso bisognerà vedere le prossime mosse della Casa Bianca anche se alcuni danni sono già stati fatti. Bisognerà aspettare. Aspettare qualche politica economica, forse da parte della UE. Aspettare qualcuno. Forse Godot. Estragone: «È da tanto che dormivo?» Valdimiro: «Non so». Silenzio.