L’All you can wear e i vestiti degli uomini bianchi morti

Autore

Anna Paola Lacatena

Data

15 Aprile 2025

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5' di lettura

DATA

15 Aprile 2025

ARGOMENTO

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Il fenomeno di riempire una borsa di capi seconda mano e pagarli pochissimo, indipendentemente dal numero di vestiti, è soltanto l’ultima mania che fa il gioco della fast fashion: la bulimica industria dei capi d’abbigliamento a basso costo, ma con ricadute negative ingenti sulla salute delle persone e del pianeta. 

Se da una parte si cercano delle soluzioni per contenere le conseguenze della fast fashion, ossia la pratica di produrre capi di abbigliamento rapidamente e a basso costo, dall’altra va sempre più diffondendosi un nuovo trend. L’All you can wear consiste nel prendere una borsa e riempirla con capi di seconda mano, vintage o in stock presenti in magazzini che hanno abbracciato la tendenza, pagando poi il tutto ad un prezzo fisso, generalmente molto basso e quindi particolarmente invitante.

Dieci capi o venti il prezzo non cambia, sebbene risulti abbastanza evidente che il cliente sarà indotto a prendere anche ciò di cui non ha necessità. L’affermazione trionfale dello spreco e del susseguente problema dello smaltimento per l’ambiente.

La felicità artificiale dei clienti della parte più ricca del mondo può giustificare la sofferenza di intere città e Paesi nel mondo, costellati da discariche illegali e altamente inquinanti?

Se la società dei consumi si fonda sulla permanente insoddisfazione, verosimilmente traducibile come infelicità, sì.

I vestiti dell’uomo bianco morto

Li chiamano “Obroni W’awu”, in lingua akan “vestiti dell’uomo bianco morto”, perché in Ghana, come in gran parte dell’Africa, è inammissibile disfarsi di cose ancora utilizzabili a meno che non siano appartenute a una persona non più in vita, e sono il simbolo della società dello scarto e della sostituzione.

Se l’abito nuovo non fa la felicità, il nuovo acquisto, però, è quanto di più autotelico sia stato concepito dall’attuale società dei consumi.

Al mercato di Kantamanto, sette ettari dedicati nel centro della capitale ghanese Accra, arrivano ogni settimana circa quindici milioni di indumenti di seconda mano, scartati dalla parte più ricca del pianeta. L’affaire, avviato negli anni ’60 e consolidatosi con l’indipendenza del Paese nel 1975, crea lavoro per decine di migliaia di persone del posto attraverso i 5000 negozi distribuiti in città, ma anche grossi problemi di inquinamento.

Le tante catene d’abbigliamento mondiali mettono in vendita stagionalmente e a prezzi sempre più irrisori enormi quantità di prodotti di bassa qualità, che vengono a stretto giro sostituiti dai consumatori con quelli delle nuove collezioni, fino ad arrivare come scarti ad Accra o in altri centri del continente africano. Secondo Oxfam, sono la destinazione del 70% degli indumenti usati del mondo.

Contro la fabbrica degli scarti

Nel 2016 il Rwanda ha cercato di porre un freno al fenomeno, innalzando le tariffe sull’importazione di indumenti second-hand da 0,20 a 2,50 dollari al kg. Questo evidente tentativo di rilanciare l’industria della moda locale non ha tuttavia prodotto i risultati attesi. Non sono bastate poche migliaia di nuovi posti di lavoro per assurgere a vera alternativa agli oltre 300 mila impieghi legati al mercato degli abiti usati. 

Sono soprattutto le donne – Kayayo, le schiave degli indumenti – a essere impiegate nei lavori di riciclo e rammendo. Spesso dormono per terra negli stessi depositi, con i propri figli, impiegati anch’essi a partire dai 6 anni: per miseri guadagni quotidiani, portano pesanti pile di vestiti dalle discariche o nella direzione opposta. Dei capi ammassati in balle – il cui costo si aggira tra i 25 e 500 dollari – da smistare successivamente, solo il 60% è riutilizzabile.

La maggior parte degli arrivi di indumenti viene infatti scaricata nel Golfo di Guinea e bruciata nelle baraccopoli, con inevitabile produzione di sostanze tossiche, o accumulata nelle tante discariche a cielo aperto, con ricadute altamente dannose per flora e fauna locali, per la salute degli abitanti della zona e per l’ambiente tutto.

Poco importa se l’eccesso significa sommergere di rifiuti ampie zone dell’Africa Subsahariana o del deserto di Atacama nel nord del Cile – in questo caso quasi esclusivamente jeans provenienti dal mercato statunitense.

La fast fashion, approfittando di vuoti normativi che non riconoscono il materiale tessile come rifiuto o di emergenze che esauriscono l’attenzione di Governi e Polizie locali, riversa nelle aree più povere del globo i loro scarti.

Di recente, sussulti di etica sembrano scuotere il settore, sebbene ancora limitati e prontamente contrastati dal nuovo fashion trend dell’All you can wear.

Se c’è una Accra, deve esserci una Leonia (e viceversa)

Leonia, tra “Le città invisibili” di Italo Calvino (1972), è una metafora di un mondo dove al consumo frenetico corrisponde la rapidità dell’oblio. 

Fast!

Stare fermi è stagnare, stagnare è autoescludersi dalla ribalta.

L’economia globale ha bisogno di consumatori desideranti e veloci.

L’acquisto va rinnovato perché il capriccio è a tempo, «va da sé che non esercitiamo alcun controllo, ex ante, sull’insieme delle cose fra cui possiamo scegliere» (Seiter, 1993, p.3).

L’urgenza del consumo chiede la corresponsione della certezza della reificazione di ogni bisogno per farsi garanzia di una vita piena e realizzata. L’azione deve divorare ogni possibile malessere, facendosene cura. 

Fast è il principio dell’attuale società dei consumi (rapidi), la soddisfazione appagata il suo peggiore incubo.

Nell’enorme ammasso di indumenti a basso costo, spesso di qualità scadente per materie utilizzate e manifattura, ognuno di noi cerca il “rifarsi” un’identità ad libitum.

Gli scarti che buttiamo via, però, sono le nostre identità transitorie e rinnovabili, la soggettività a perdere.

Il brand PIL chiede di cambiare continuamente abito, di mettere da parte quello del giorno prima, di rivendicare una felicità a impatto emotivo zero, ma a impatto ambientale altissimo.

L’Io e il suo abito: compra, godi, butta via. 

Fast!

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