Medicine miracolose non ce ne sono
La diffusione di libri e programmi di genere investigativo mette in luce un aspetto costante della psiche del genere umano: l’impellenza di poter risalire alle cause di ogni male, ovvero al rintraccio di un colpevole.
Chiaramente l’omicidio, ovvero la materia della letteratura gialla, è una modellizzazione sin troppo facile di questa predisposizione a disegnare il mondo in modo manicheo diviso fra le forze del Bene e quelle del Male, in primis perché l’irreversibilità del delitto toglie di mezzo l’inquilino più scomodo di ogni indagine, ovvero il Tempo che passa e che tutto muta ad ogni passo successivo, ma secondariamente perché la parola fine imposta dalla morte consente di scavare nel solo passato, ovvero su dati oggettivi o presunti tali, dunque passibili di scienza.
Kurosawa aveva (inutilmente) ammonito sulla difficoltà di riconoscere colpa e colpevole in modo oggettivo in Rashomon (1950) specie quando c’è di mezzo più di un osservatore, una sorta di apologia delle teorie quantistiche in cui proprio chi guarda modifica la scena del crimine, dove il dato più evidente che ne risulta è la scientificità acclarata dell’Amleto e delle molte più cose che ci sono in cielo e in terra rispetto alla nostra filosofia, ovvero null’altro di quanto sostenuto da Platone con le sue ombre.
Così nelle vicende materiali, inevitabilmente intrecciate e complicate dal Tempo e dalla interconnessione di individui e istituzioni, non è certo agevole trovare il bandolo della matassa per riportarla al capo di un filato lineare.
L’abbaglio della concorrenza perfetta come ottimo di Mercato nasce dal fatto che le schematizzazioni matematiche da cui deriva ragionano esattamente come l’investigatore dopo l’omicidio, senza considerare variabili tecnologiche, ciclicità o condizioni geopolitiche, ovvero il dinamico mondo capitalistico (in realtà l’analisi economica moderna è di fatto l’analisi di tutto quanto modifichi il modello di base di equilibrio economico generale, la cui vera ragione prima non scavalcabile, ovvero l’interconnessione del tutto, fu ben espressa dal solito Galiani quando affermava che se uno avesse potuto alzarsi in volo avrebbe visto che il grande guadagno del mercante in Europa corrispondeva alla perdita di un contadino indiano).
Il decisore politico necessita però di semplicità e di strumenti agibili così come il comune cittadino ha bisogno di sapere chi sia il Buono e chi il Cattivo: la somma di queste due aspirazioni riconduce costantemente in modo drammatico la Politica Economica alla matrice della letteratura investigativa.
Esemplare è il caso attualissimo della transizione verso l’elettrico che parte, appunto, da un cattivo conclamato (l’utilizzo di combustibili fossili non rinnovabili) su cui nessuno ha dei dubbi, ma che è stato costretto ad arrivare a frettolosa soluzione finale con una modalità che assomiglia a quella della stanza pulita da mostrare agli ospiti avendo buttato tutta la polvere sotto al tappeto, più che ad una razionale transizione fra un prima e un dopo, entrambi dotati di ottime ragioni.
Se decido che l’ultimo miglio dev’essere elettrico perché questo non mostra localmente nessuna combustione (vale per gli autoveicoli, vale per le pompe di calore) e affido questa transizione al solo sistema privato ignorando che la gran parte della produzione elettrica e della sua distribuzione appartengono a un mondo in cui ha sin qui dominato la termovalorizzazione (e nella Hybris che ha travolto la Germania ci mettiamo pure la scelta dissennata di abbandonare il nucleare due minuti prima che il grande alleato e spacciatore a costo zero di gas si rivelasse per quel che tutti sapevano chi fosse, ovvero un despota cinico) so già che da un problema, riconvertire le produzioni nazionali, me ne trovo due, il nemico cinese dentro casa e un sistema distributivo inetto in quanto basato su fonti tendenzialmente erratiche e in assenza di un adeguato sistema di conservazione dell’energia che ne limiti i picchi.
La semplicistica sciocchezza dell’aver imposto una transizione all’elettrico senza le infrastrutture energetiche e senza un fondo infinito destinato a finanziare la necessaria trasformazione industriale, è evidente quando si osservino le decisioni di politica economica in capo all’Europa dove, esaurita la fase del Next Generation EU, ci rimangono solo le operazioni sul tasso di sconto operate dalla BCE: e qui torniamo all’agognato semplice ricettario da cui siamo partiti.
Il Tasso di Interesse è una delle grandezze più complesse dell’economia, incontro naturale fra preferenza, spesso obbligata, per il presente e profittabilità futura degli investimenti, ma che in un sistema regolato centralmente come il nostro diventa un’arma destinata a modificare in modo forzoso gli equilibri produttivi in un’algida neutralità rispetto a quel che ne faranno i mercati e, soprattutto, senz’altro strumento che l’acquisto di Titoli di Stato e tutto questo perché l’unico obiettivo condiviso fra gli europei, altra semplificazione-feticcio, è quella del contenimento dell’inflazione attesa, ovvero un altro indicatore circa la preferenza per il presente, senza specificare da dove questa preferenza origini. Ben diverso i casi del debitore dopo sfortunata giocata al Casinò che deve urgentemente ripianare, dall’industriale che apparecchia un investimento ritenuto proficuo premendo sui beni presenti o da uno speculatore che si accaparra merci scommettendo su di un rialzo: eppure tutti determinano pressioni sui prezzi correnti.
Dunque decidiamo di immettere liquidità nel sistema non per finanziare infrastrutture e investimenti che forniranno risparmi e profitti futuri, ma per tenere un indice generico ad un livello genericamente assunto per buono, dunque un feticcio al pari del 3% di deficit imposto ai bilanci pubblici, come se entrambe le ricette fossero di utilità in un momento storico dove transizione, innovazione e competizione internazionale spingono gli investimenti altrui a livelli mai visti.
Ecco che due cose apparentemente distanti come la transizione all’elettrico e la regolazione del tasso di sconto della BCE risultano figlie di due indecisioni strettamente correlate: nel primo caso un atteggiamento pilatesco sulla rivoluzione infrastrutturale imposta dalla soluzione elettrica integrale, nel secondo caso il presentarsi volutamente a mani vuote all’appuntamento con la Storia e con decisioni di investimento in grado di fornire un futuro a gran parte dell’industria europea che la stessa normativa da ultimo miglio virtuoso ha vessato con imposizioni energetiche assai rigide, senza peraltro aver saputo o potuto imporre alcunché di analogo agli altri sistemi produttivi extra-UE.
Come da più parti suggerito, la variazione che sarebbe auspicabile in entrambi gli approcci è piuttosto quella di calibrare i percorsi privilegiando la trasformazione industriale e infrastrutturale europea (leggi finanziandole whatever it takes sempre che soddisfino il requisito fondamentale, ovvero quello di condurre a risparmi e profitti) a parità di indifferenza fra gli strumenti impiegati.
È chiaro che la decarbonizzazione dei consumi e delle produzioni è il risultato finale atteso, ma consumatori e industrie devono poter giungere vivi all’appuntamento e soprattutto il tutto non deve desertificare l’apparato produttivo europeo (e in prospettiva il fratello minore africano) a favore di USA e Cina come invece accade ora.
È altrettanto evidente che l’aver posto un orizzonte ambizioso di lungo periodo come il 2050, anno in cui in modo per nulla casuale è data la comparsa dei primi impianti commerciali a fusione nucleare, deve poter diventare un orizzonte di investimento condiviso fra Politica e Industria, e non un muro imposto a quest’ultima, che si avvicina rapidamente mentre noi corriamo senza freni a schiantarci come nel premonitore Runaway Train del 1985, sempre da un soggetto di Kurosawa.
Un simile orizzonte dotato di Finanza Europea permetterebbe di ripartire fra pubblico e privato gli oneri della trasformazione ma soprattutto di poter scegliere le soluzioni più efficienti, senza l’obbligo per ricchi e poveri di doversi adeguare con l’acqua alla gola agli speranzosi sogni dei politici europei, in una guerra ai mulini a vento avendo a disposizione i soli soldi/debiti propri costretti a trangugiare ciò che passa il Convento, senza poter ambire alle soluzioni più efficienti già da ora impiegabili.