Quando le semplificazioni fanno vittime
Nella sua labirintica Storia dell’analisi economica (History of Economic Analysis, 1954) Schumpeter fa emergere la scienza economica da una lunga e secolare serie di precetti sin lì sparsi in opere filosofiche, giuridiche e morali, sintanto che la rinascita post-medievale e i saldi delle bilance commerciali nazionali non rendono necessaria una sistematizzazione complessiva volta a fornire ai decisori della politica economica strumenti pratici con cui maneggiare produzioni, commerci e moneta.
Sul perché a un certo punto l’economia sia diventata scienza emergendo dal buon senso civile e religioso, è abbastanza intuibile soprattutto alla luce del Dio Orologiaio che Cartesio aveva apparecchiato per tutte le altre scienze, immaginando per i corpi una serie di relazioni meccaniche la cui conoscenza avrebbe permesso di fare quel che il meccanico preposto fa di un qualsiasi mezzo: riparare, migliorare e progettarne di nuovi.
Il precetto morale e giuridico viene così sostituito da regole che emergono ‘naturalmente’ dall’osservazione focalizzata del mondo delle transazioni materiali precedentemente confuso con la vita di tutti i giorni, soluzione assai comoda perché consente di individuare una serie di studiosi cui affidare il compito di trovare leve e cacciaviti per agire su tale mondo materiale, ovvero la ricerca di ricette per la felicità di Governanti e Governati.
Così l’Economia è diventata una fabbrica di queste ricette, via via adattantesi alla crescita strabordante del mondo materiale che andava imponendosi sugli statici sistemi sociali sin lì sperimentati: come per tutte le novità di successo il rischio di trasformarsi poi in slogan semplicistici è sempre stato dietro l’angolo e nessuna delle linee di pensiero via via affermatesi nelle Corti dei Re, è mai sfuggita al ridicolo di chi la fa troppo facile.
La prima lettura che andrebbe imposta agli studenti delle Facoltà di Economia interessati a conoscere il mondo delle cose materiali sono i Dialoghi sul commercio dei grani di Ferdinando Galiani (Dialogues sur le commerces des blés, 1770) dove la prima grande ricetta prodotta ad uso del Re dagli ‘économistes’, ovvero i Fisiocratici, viene messa alla berlina dal pensiero vichiano dell’Abate che, con somma grazia e ironia, illustra quante più cose ci siano in cielo e in terra rispetto agli schematismi economici (c’è da ricordare che lo stesso Galiani nel 1751 aveva pubblicato anonimamente, essendo poco più che un ragazzo, il bellissimo Della moneta dove la complessità del mondo delle cose materiali viene sistematizzata con dieci anni di anticipo su Quesnay in modo assai più praticabile, non ultimi i capitoli dedicati al governo dell’inflazione).
I grandi schematizzatori ad uso pratico (dopo i Fisiocratici arrivarono fra gli altri Smith, Ricardo, di cui Marx fu un corollario non trascurabile, Malthus, Say, Walras e infine Keynes) di fatto hanno sempre usato un simile schema meccanico cartesiano animato da un singolo tratto psicologico predominante, ipotizzando che la Res Cogitans appartenga a chi decide mentre il mondo, la Res Extensa dei fatti materiali, segue le sue regole necessarie come il mondo animale: da questa impostazione volutamente schematica e cronicamente afflitta dall’utilizzo del Ceteris Paribus arrivano le parodie alla Galiani.
Nel recente rapporto Draghi alla Commissione Europea uno dei caposaldi comunitari, la necessità di un Commissario alla Concorrenza dotato di forti poteri contro le concentrazioni in tutti i settori dell’economia continentale, viene giustamente messo all’indice nel momento in cui i contrapposti muscolarismi americano e cinese impongono la creazione di campioni comunitari: posto che i Cinesi sono dotati di sguardo secolare e se ne fregano dei danni collaterali delle loro politiche, cosa distingue gli Antitrust americani da quelli europei?
Lo schematismo concettuale dei nostri nasce ideologicamente dalla sistemazione Walrasiana che ha condotto alla costruzione di uno schema di equilibrio economico generale, dove l’esito felice delle politiche di massimizzazione è strettamente legato alla concorrenzialità dei singoli mercati che provvedono a livellare i prezzi ai costi, mentre la formazione di oligopoli o ancor peggio monopoli, tende a creare sacche di extra-profitti ai danni dei consumatori; per gli americani le posizioni dominanti a livello mondiale dei loro campioni nazionali non sono certo un problema, basta che non extra-territorializzino troppo i bilanci, riservandosi invece di agire su settori maturi e ben definiti, dove le potenzialità espresse dalla quantità di futuro incorporate non dipendono necessariamente da una finanza strutturata al servizio di questo futuro. Ovviamente per i lungimiranti americani ricerca e innovazione non possono venire minimamente penalizzate scontando sin da subito il monopolismo di cui sono portatrici, e ciò avrebbe visto Schumpeter assolutamente allineato, rientrando il Progresso nella sua categoria-feticcio dell’imprenditore prometeico.
Quello che al contrario definirei il nostro Feticcio della Concorrenza è sostanzialmente un abbaglio ideologico cha ha partorito ricette buone (forse) a tecnologia data e per settori limitati, ma che sicuramente ha imposto come centrale la protezione del consumatore, come se questo in un’economia capitalista moderna ad alto tasso di innovazione, fosse un soggetto degno di tutela e non invece il fuco bulimico che (acutamente) coltiva Jeff Bezos per i suoi bassi scopi personali, sfruttando in modo per nulla concorrenziale tutto il lavoro di contorno.
Ancor di più, non solo molti futuri produttivi necessitano di monopoli locali ma spesso questi dovrebbero avere estensione continentale pur sotto il controllo vigile di Stati e Comunità, accanto a regimi fiscali occhiuti per i monopoli altrui extra-UE in un autarchismo che non è la semplice affermazione di micro-attributi autoctoni: in un lontano periodo di transizione industriale proprio l’Italia indicò la strada produttiva e finanziaria che potesse far da levatrice al futuro con la creazione dell’IRI, operazione a forte impronta statale destinata a favorire la riconversione di grandi aziende uscite malconce dalla Grande Guerra (Ansaldo e Edison su tutte) e le banche loro finanziatrici (Banca Commerciale e Credito Italiano) e che ebbe come risultato quello di far nascere un Paese fortemente industriale da uno che sino a lì era stato prevalentemente contadino.
Dunque l’intervento statale e il monopolio sono la ricetta economica di questa nuova epoca? Nemmeno questa è una ricetta ‘scientifica’, perché proprio come dimostrò la storia dell’IRI dagli anni ’60 in poi, Stato ed economia di mercato sono due cose distinte e spesso incompatibili, come testimoniarono le carrozzerie cadenti delle mie Alfa Romeo degli anni ‘80, però il periodo attuale con la forte contrapposizione tra due blocchi granitici e noi in mezzo, chiede meno schematismo proprio nelle politiche economiche e in quelle industriali, senza aggrapparsi a ricette precostituite per quanto figlie di teorie affascinanti.
Grande o piccolo, prodotto vicino o lontano, uno o centomila, sono risposte non univoche da dare alla principale domanda retrostante, ovvero come consentire al grande mercato di sbocco rappresentato dall’Europa e della sua sorella minore Africa in via di forte crescita, di trovare una strada produttiva e finanziaria propria.
La natura impropria di una tale domanda non rientra nei canoni delle teorie economiche che non contemplano una simile storicizzazione evolutiva e quindi al momento nelle pratiche correnti si sta già tornando alla precettistica da cui tutto è partito, non trascurando il fatto su cui Vico ha costruito la sua fortuna filosofica, che proprio il mondo materiale nella sua spesso erratica ciclicità racconta una storia organica, quindi non così meccanica come quella costruita sull’idea del sopra ricordato Dio Orologiaio di Cartesio, sposato opportunisticamente dagli economisti di ogni tempo.