Filiere produttive: dalla società dei consumi a una scelta consapevole  

Autore

Irene Ghaleb

Data

8 Settembre 2023

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5' di lettura

DATA

8 Settembre 2023

ARGOMENTO

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Questo articolo esplora la complessa relazione tra commercio internazionale e sostenibilità sociale e ambientale. Per capire a fondo come rispondere alle sfide di oggi è necessario distinguere tra beni di prima necessità e beni secondari. Solo un approccio equilibrato tra produzione e consumo può alleviare il peso del sistema odierno.

Commercio internazionale: sostenibilità sociale e ambientale

Il commercio internazionale svolge un ruolo cruciale nel fornire beni e servizi alle nazioni, promuovere la crescita economica e migliorare la qualità della vita in tutto il mondo. Tuttavia, il perseguimento della prosperità economica non va di pari passo con la sostenibilità sociale e ambientale. Nell’era dell’ESG (Environmental, Social, and Governance), la logistica sostenibile apre nuove possibilità di sviluppo per le imprese e nuovi modelli di business. Inoltre, la crescente presa di coscienza globale dell’impatto del commercio sulla società e sul pianeta, palesa la responsabilità delle politiche commerciali e aziendali. A chi spetta il compito di integrare misure per garantire un futuro sostenibile? Da anni osserviamo la complessa relazione tra commercio internazionale e sostenibilità sociale e ambientale e oggi più che mai è necessario un approccio olistico ed equilibrato che leghi il produttore al consumatore. 

Le sfide sono chiare. Da un lato l’Impatto sociale, maschera e complice del sistema. Infatti, la globalizzazione del commercio ha dato la possibilità a nazioni intere di ridurre notevolmente la povertà estrema, di creare posti di lavoro e conseguentemente migliorare le condizioni di vita. Tuttavia, questa è solo una faccia della medaglia. La produzione porta con sé ritmi incessanti di lavoro, sfruttamento e violazioni dei diritti. Per sanare questa ferita è indispensabile promuovere salari equi, condizioni di lavoro sicure e la tutela dei diritti umani all’interno degli accordi commerciali internazionali. L’attuazione di tutele sociali, come gli standard di lavoro, può garantire una distribuzione equa dei benefici economici e promuovere il benessere sociale nelle varie nazioni. Le aziende devono fare riferimento alla Dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite, ai Patti internazionali sui diritti civili, politici ed economici, ai Patti internazionali sui diritti umani. I diritti civili e politici, così come i diritti economici, sociali e culturali, sono stabiliti dalla Dichiarazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro, nonché dalla Dichiarazione tripartita dei principi relativi alle imprese multinazionali e alla politica sociale (Dichiarazione OIL sulle imprese multinazionali), che stabilisce aspettative comuni su un’ampia gamma di questioni relative al lavoro, all’occupazione, alla sicurezza sociale, alla politica sociale e ad altri aspetti1.

Dall’altro lato l’Impatto ambientale del commercio internazionale complice del degrado ambientale negli ultimi 40 anni. Le implicazioni ambientali sono palesi e si aggravano nei paesi in cui le norme ambientali sono scarse, la pressione sui prezzi è elevata e le risorse naturali sono (o si pensa che siano) abbondanti. Alcune delle conseguenze già palesati sotto i nostri occhi sono: rifiuti tossici, inquinamento idrico, perdita di biodiversità, deforestazione, sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, danni a lungo termine agli ecosistemi, scarsità d’acqua, emissioni atmosferiche pericolose e relativo inquinamento dell’aria. Le aziende che vogliono essere competitive sul mercato di oggi e vogliono preservare la salute delle generazioni future hanno il dovere di collaborare con i loro fornitori per affrontare le problematiche ambientali, incoraggiando la totale responsabilità ambientale e sostenendo l’uso di energie rinnovabili. L’adozione di standard ecologici e la promozione di pratiche di produzione ecocompatibili possono ridurre, ma non eliminare, gli effetti dannosi del commercio sull’ambiente.

Le filiere produttive alimentari come beni primari 

Noi come consumatori giochiamo un ruolo fondamentale: influenziamo la domanda di beni e servizi. Però, se da una parte vi sono consumi che sono fondamentali per la nostra sopravvivenza (beni primari), come nel caso del settore alimentare, dall’altra vi sono consumi ‘secondari’ che racchiudono alcune spese volte all’acquisto di beni che soddisfano bisogni non indispensabili. Un esempio è il settore moda.

Come possiamo ridurre il nostro impatto e far migrare l’offerta della catena globale di produzione alimentare verso una maggiore sostenibilità? Innanzitutto dobbiamo considerare che questo settore raggruppa una complessa rete di attività interconnesse che trasformano la materia prima in cibo e lo trasportano dalle fattorie alle nostre tavole. La totalità del processo racchiude molteplici attori, luoghi, spostamenti e materie prime. Per tale motivo, sebbene l’agricoltura sia fondamentale per nutrire la popolazione mondiale, ha anche importanti ripercussioni ambientali e sociali.

L’espansione delle terre agricole e l’eccessivo uso del suolo è causa di diversi problemi ambientali, tra cui il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità e l’inquinamento di acqua, suolo e aria. Le conseguenze possono essere immediate, come la distruzione di paesaggi ed ecosistemi naturali, o indirette, come l’impermeabilizzazione del suolo e la deforestazione, che aumentano il rischio di inondazioni. La desertificazione, i cambiamenti nella copertura del suolo e le alluvioni improvvise sono tutti fenomeni causati dal cambiamento climatico2. Inoltre, il settore alimentare è il primo per consumo di acqua dolce in Europa, si stima che corrisponda al 40%. Le pratiche di irrigazione e l’allevamento intensivo possono causare scarsità d’acqua e inquinamento idrico a causa dell’uso eccessivo di fertilizzanti e pesticidi. Il consumo di acqua e del suolo può essere ridotto promuovendo una gestione efficiente e sostenibile di gestione del territorio, come l’agricoltura e la permacultura combinate con iniziative di riforestazione, possono contribuire a conservare la biodiversità.

Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO), l’allevamento di bestiame è responsabile di oltre il 18% delle emissioni mondiali di gas serra. Inoltre, il settore zootecnico è uno dei sotto settori agricoli in più rapida crescita al mondo3 oltre che il settore alimentare con maggior sfruttamento di suolo. L’ unica via è la promozione di pratiche agricole a bassa emissione di carbonio e la riduzione degli sprechi alimentari (oggi il 17% del cibo prodotto viene gettato4). Le catene di produzione alimentare sono essenziali per il sostentamento della crescente popolazione globale, ma le nostre scelte quotidiane possono ancora abbracciare pratiche sostenibili, e così trasformare i nostri sistemi alimentari in strumenti di cambiamento.

La società dei consumi e la standardizzazione della produzione 

Vi sono altri settori però che non sono indispensabili. La società dei consumi si distingue per l’adozione diffusa di consumi secondari, o non legati al cibo. Questa ‘democrazia del benessere’ è iniziata negli anni tra le due guerre negli Stati Uniti e si è diffusa nei Paesi dell’Europa occidentale nella seconda metà degli anni Cinquanta. La standardizzazione della produzione, l’aumento del benessere nazionale e pro capite, l’urbanizzazione, l’emergere del welfare state e l’espansione del modello americano sono tutti elementi che ne hanno favorito lo sviluppo della società dei consumi considera il consumo come un aspetto importante dell’esistenza sociale di un individuo. In quanto tale, si basa sulla democratizzazione del lusso, ossia sull’ampliamento dell’accesso al consumo ‘secondario’ per quella vasta parte della popolazione le cui risorse erano state in precedenza totalmente o quasi interamente consumate dal soddisfacimento delle necessità primarie. La società o civiltà dei consumi si fonda quindi sull’acquisto di prodotti superflui, come l’acquisto eccessivo di capi d’abbigliamento, che, molto spesso, rispondono a bisogni creati dalla pressione pubblicitaria e/o da fenomeni di imitazione sociale diffusi tra ampi segmenti della popolazione5.

Il settore moda: moda veloce, moda ultra-veloce e moda in tempo reale.

L’industria della moda ha subito una rapida trasformazione negli ultimi anni, con l’emergere della moda veloce, della moda ultra-veloce fino ad arrivare nel 2020 alla moda in tempo reale. Queste strategie commerciali pongono l’accento sulla rapidità, sulla produzione a basso costo e sul rapido ricambio delle collezioni di abbigliamento. Portando con sé un tragico impatto climatico e sociale. Agli occhi del consumatore offrono convenienza e tendenze istantanee, utili solamente per massimizzare i profitti.

Come siamo passati dalla moda veloce a quella in tempo reale? La moda veloce ha reso il settore accessibile, dando a tutti l’opportunità di seguire le tendenze. Si riferisce alla produzione e distribuzione di abbigliamento economico. Fin dagli albori la produzione è sempre stata decentrata e basata su salari bassi, dove i lavoratori sopportano lunghe ore di lavoro a condizioni insicure. Inoltre, questo modello ha plasmato una società in cui ricambio dell’abbigliamento è frequente, con conseguente spreco. 

Moda Ultra-Veloce 

La moda ultra-veloce porta il concetto di moda veloce all’estremo, mirando a portare nuovi stili di abbigliamento sul mercato in settimane o addirittura giorni. Pur capitalizzando la domanda dei consumatori per la costante novità, le sue conseguenze sono profondamente preoccupanti.

Contribuisce alla depredazione delle risorse, all’inquinamento dell’acqua dovuto alla tintura dei tessuti e al rilascio di gas serra durante la produzione e il trasporto. La maggior parte dei coloranti aggressivi e delle sostanze chimiche utilizzate per trattare e rifinire i tessuti finiscono per inquinare i corsi d’acqua e avere un effetto negativo sulla qualità della vita locale.  Inoltre, l’uso di fibre sintetiche negli indumenti di moda veloce peggiora la crisi dell’inquinamento da microplastiche. Il nostro abbigliamento è composto per almeno il 60% da tessuti sintetici come il poliestere e il nylon, e si prevede che questa percentuale aumenterà entro il 2030. Questi tessuti a base di petrolio contribuiscono al riscaldamento globale rilasciando nell’atmosfera gas pericolosi come il metano quando si decompongono nelle discariche6.

Il ritmo incessante dettato dalle tendenze continue della moda ultra-veloce mette un’enorme pressione sulle catene di produzione, portando a ritmi di lavoro incessanti. 

La moda in tempo reale massimizza la velocità nella moda sfruttando la tecnologia digitale e i big data per creare costantemente e istantaneamente nuove tendenze di abbigliamento. Così facendo porta la moda dal produttore al consumatore con un solo click. Pur mascherando e promettendo esperienze personalizzate e conseguente riduzione dei rifiuti, il suo impatto richiede una valutazione certosina. Confermato che queste aziende grazie all’uso della tecnologia possono prevedere più attentamente la domanda e seguire i comportamenti dei clienti, è necessario tenere in conto che la maggior parte delle produzioni avviene ancora prima dell’ordine. Ciò significa che domanda e offerta comunque non si incontrano.  Aziende come Shein possono raggiungere milioni di persone in tutto il mondo, senza attraverso i social media senza mai aprire un negozio fisico e intensificando le spedizioni compulsivamente. Un’altra pecca del sistema è la privacy dei dati e la pressione al consumo: la moda in tempo reale si basa pesantemente sui dati dei consumatori e sull’analisi algoritmica per prevedere e soddisfare le preferenze individuali. Un appagamento istantaneo del bisogno fittizio, che appaga il consumare costantemente e lo invita a partecipare al ciclo di moda iper-accelerato7.

Da considerare anche l’impatto ambientale dell’infrastruttura digitale: algoritmi di intelligenza artificiale, centri di dati e piattaforme online, portano con sé elevati costi energetici e elevate emissioni di carbonio. Prezzo da sommare a quello delle spedizioni a casa. 

Verso Alternative di Moda Sostenibile in Italia

Nell’anno 2022 è stato stimato che il 59,5% delle imprese manifatturiere italiane ha intrapreso azioni di sostenibilità. Di queste, il 50,3% si impegna con azioni di tutela ambientale, il 44,6% di sostenibilità sociale e il 36,8% di sostenibilità economica. Le grandi imprese sono mediamente le più attive in tutte le pratiche di sostenibilità: oltre i 4/5 delle grandi imprese (81,5%) e soltanto il 36,1% delle piccole imprese fanno azioni di sostenibilità8. Questi dati ci aiutano a capire che un’inversione di rotta può essere fatta. La soluzione ad oggi rimane comunque la via del consumo come scelta consapevole, basata sulla moda lenta e sui principi dell’economia circolare: enfatizzando la qualità rispetto alla quantità, l’uso di materiali sostenibili o riciclati e pratiche lavorative eque. Così facendo incentiviamo l’adozione di un approccio di durevolezza, in cui i capi di abbigliamento sono progettati per resistere, essere riparati e riciclati, riducendo gli sprechi e promuovendo l’efficienza delle risorse.

Inoltre i brand che promuovo la moda lenta creano catene di approvvigionamento etiche e trasparenti. Per debellare lo sfruttamento del lavoro e stabilire la responsabilità in tutto il processo di produzione, vengono stabiliti salari equi, condizioni di lavoro sicure e tracciabilità dei materiali.

Conclusioni


La collaborazione globale e il progresso economico possono essere favoriti dal commercio internazionale. Tuttavia è fondamentale capire come il commercio si intreccia con la sostenibilità ambientale e sociale. Le nazioni possono garantire che la prosperità economica sia raggiunta con uno sviluppo sociale equo e con la protezione dell’ambiente, integrando i fattori sociali e ambientali nelle politiche commerciali. Il commercio internazionale può fungere da catalizzatore per la creazione di un futuro sostenibile ed equilibrato per tutti attraverso la cooperazione, l’innovazione e l’adozione di pratiche sostenibili. Ma ancora più importanti sono l’educazione dei consumatori e le scelte consapevoli: è indispensabile aumentare la conoscenza dei consumatori su come le loro scelte di moda influiscono sulla società e sull’ambiente. L’incoraggiamento di pratiche di acquisto responsabili sia per beni primari che secondari, come l’acquisto di prodotti fair trade o di abiti usati, il noleggio di articoli e il sostegno alle aziende ecologiche, può portare a un cambiamento positivo. Sebbene le nuove tendenze della moda abbiano cambiato il settore, la società e l’ambiente hanno pagato un prezzo pesante. È fondamentale riconsiderare e reinventare l’industria della moda, orientandosi verso alternative sostenibili che pongano l’accento sul benessere dei lavoratori, riducano gli sprechi e abbiano un minore impatto negativo sull’ambiente. Un settore della moda più giusto e sostenibile, che valorizzi la durata della vita, l’etica e la tutela dell’ambiente, può essere realizzato attraverso la cooperazione tra le parti interessate, compresi i marchi di moda, i consumatori, i responsabili politici e la società civile.

Note

  1. Supply Chain Sustainability, A Practical Guide for Continuous Improvement (Second Edition). 2015, UN Global Compact Office
  2. https://www.eea.europa.eu/it/themes/landuse/about-land-use
  3. FAO (2020). Emissions due to agriculture. Global, regional and country trends 2000–2018. FAOSTAT Analytical Brief Series No 18. Rome
  4. United Nations Environment Programme (2021). Food Waste Index Report 2021. Nairobi.
  5. Umberto Eco (2014) , storia della civiltà europea. Il novecento storia.
  6.  https://mygreencloset.com/ultra-fast-fashion/
  7. https://www.informationweek.com/security-and-risk-strategy/buttoning-up-cybersecurity-to-avoid-fashion-retailer-s-fate
  8. https://www.istat.it/it/files//2023/04/Pratiche-sostenibili-delle-imprese.pdf
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