L’effetto della crisi demografica e delle dinamiche migratorie
I paesi dell’Europa meridionale soffrono di una permanente bassa fecondità e in Italia il numero medio di figli per madre si è dimezzato, passando da una media di 2.66 nel 1964 a una media di 1.24 nel 2020. Nel 2050 la popolazione del paese diminuirà di 5 milioni di persone, nell’ipotesi di un saldo migratorio netto di 120 mila persone. Non solo, ma cambierà anche la sua composizione per età: la popolazione con più di 65 anni salirà al 35% e ciò significa che, mentre all’inizio del 2023 il rapporto fra persone in età lavorativa (16-64 anni) e persone non età da lavoro (minori di 15 e over 65) era tre a due, nel 2050 sarà uno a uno. La popolazione in età da lavoro diminuirà di nove milioni di unità. Si porrà dunque il problema di sostenere il pagamento delle pensioni di chi ne ha maturato il diritto, da parte di un numero insufficiente di persone che lavoreranno.
Il cosiddetto inverno demografico pesa naturalmente anche sul fenomeno del mismatch: dal 1998 al 2022 i giovani fra 15 e 34 anni di età sono diminuiti di 4,4 milioni, mentre crescono di 4 milioni gli anziani (+40%). Il rapporto giovani/anziani si è invertito prima nel Centro-Nord del paese e poi nel Sud.
Alla crisi demografica, che sta creando un forte scompenso nelle forze di lavoro, perché anche se dovesse esserci una ripresa delle nascite, ci vorrebbero dei decenni per avere una crescita numerica delle persone in età lavorativa, si aggiunge il problema della carenza di manodopera immigrata dovuta all’interruzione dei flussi migratori durante la fase della pandemia. Davanti agli occhi di tutti sono le difficoltà che l’Europa sta incontrando nel pianificare e regolare la programmazione dei flussi migratori in relazione al fabbisogno di personale, già ora visibile in molti settori di attività, dalla sanità all’agricoltura.
Un cambiamento nella cultura del lavoro
Un ulteriore aspetto che può essere messo in campo nel cercare le ragioni del fenomeno di cui si sta parlando, ha a che fare con un apparente ridimensionamento della sfera del lavoro nella scala dei valori individuali, almeno da parte dei giovani. Per primi gli Stati Uniti hanno coniato il termine di great resignation per indicare le dimissioni volontarie da parte di un numero elevato di occupati. Le ultime ricerche condotte sul turnover negli Stati Uniti segnalano quanto il ritmo di crescita delle dimissioni volontarie durante la fase della pandemia sia stato un fenomeno statisticamente più significativo rispetto a quello delle precedenti crisi economiche, come la grande recessione del 2007-20091.
L’analisi segnala che il relativamente alto numero di persone che decidono di lasciare il posto di lavoro non è spinto da motivazioni di natura economica e salariale, come suggerisce la teoria economica (spesso una retribuzione migliore offre ai lavoratori motivati di cambiare lavoro senza passare dalla disoccupazione), bensì da un cambio di attitudine verso la natura e il tipo di lavoro che (alcune) persone sono disposte a prendere in considerazione.
Anche in Italia si osserva un aumento delle dimissioni volontarie che riguarda circa 2 milioni di lavoratori, in misura superiore da parte di uomini (+35%) rispetto alle donne (+25%). Tuttavia i dati sulle cessazione dei rapporti di lavoro in Italia (ISTAT 2023)2 nel triennio 2019-2021 indicano che la quota maggiore (65%) riguarda la cessazione dei contratti a tempo determinato3. La modalità prevalente di cessazione corrisponde quindi alla scadenza naturale del contratto, ma a seguire vi è la cessazione richiesta dal lavoratore (dimissioni volontarie) nella misura del 20% e in crescita rispetto al 2020 in tutte le regioni, con incrementi superiori nel Nord. Un aggiornamento al 20224 ci dice che sono state registrate quasi 2,2 milioni di dimissioni, circa il 14% in più rispetto al 2021, ma nel quarto trimestre questo trend di dinamismo del mercato del lavoro si interrompe, segno che l’accelerazione del turnover è in fase di conclusione.
Questa tendenza all’aumento delle dimissioni volontarie in Italia si può interpretare da una duplice prospettiva. Per un verso, può intendersi come una fase di rimescolamento delle posizioni occupazionali che segue in modo quasi fisiologico una grande crisi: il turnover è basso durante le crisi e aumenta durante i periodi di ripresa, in modo proporzionale alla rapidità della crescita economica. Per altro verso, può rappresentare, come si diceva, la comparsa di una nuova cultura del lavoro, la spia di un cambiamento più radicale che sta segnando la storia recente. La rivoluzione digitale sta producendo un effetto diretto e profondo sulla vita delle persone, sulle modalità di relazione e nel rapporto con la conoscenza, che si ripercuote nella sfera lavorativa. È quindi la trasformazione sociale, attivata dalle tecnologie digitali, a trascinare il cambiamento nei modi di lavorare e nella concezione di lavoro. Difficile prevedere se i nuovi comportamenti, aspirazioni e preferenze si tradurranno in un riequilibrio dei rapporti di forza fra capitale e lavoro (con aumenti retributivi, migliori condizioni contrattuali, innovazioni organizzative più conciliative con la vita delle persone, maggiore attenzione a preservare e formare le risorse umane). In uno scenario di carenza di manodopera e quindi di maggiore competizione fra le imprese per l’acquisizione di personale, almeno i lavoratori più qualificati avranno potenzialmente un aumentato potere contrattuale e l’opportunità di negoziare delle condizioni di lavoro migliori; di incentivare un rinnovamento della cultura organizzativa delle imprese, facendo leva sull’uso strategico delle tecnologie digitali, incrementando lo smart-working e il lavoro impostato su 4 giorni alla settimana e organizzato per obiettivi.
Concludendo, il problema della carenza di manodopera e le difficoltà legate al mismatch, mostrano una duplice sfida a cui il sistema economico e il sistema istituzionale devono fare fronte.
La prima è di investire sulla qualità del lavoro, sulla formazione delle risorse umane in senso ampio, come si accennava più sopra, e sui processi di riqualificazione. E su questo fronte vi è una differenza marcata fra le buone prassi legate alle grandi imprese che fanno all’interno quello che manca all’esterno (academy, fondi impresa per la disoccupazione) e tutto il resto delle imprese.
La seconda è la creazione di un sistema di collaborazione stabile (non emergenziale o circoscritta a un’azienda o a un territorio) fra gli attori che ne sono parte: scuole, università, imprese, enti bilaterali, parti sociali, enti locali. Le politiche del lavoro e della formazione non possono più essere disgiunte da quelle di politica industriale e dell’innovazione e da una programmazione congiunta dei fabbisogni professionali e occupazionali, attraverso delle strategie di governo molto più integrate. La situazione delle banche dati sul lavoro, ad esempio, che non si parlano fra di loro, è rimasta a un livello primitivo, sebbene il progetto di un libretto elettronico del lavoratore (che funzioni alla stregua del suo DNA) risalga alla fine degli anni Ottanta. Manca una politica di orientamento degli studenti al mercato del lavoro e una logica di sistema istituzionale integrata con il sistema delle imprese.
E oggi le risorse da investire per migliorare il funzionamento di un mercato del lavoro in sofferenza ci sarebbero (PNRR), se solo fossimo in grado di utilizzarle.
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Note
- Monthly Labour Review, Empirical evidence for the “Great Resignation”, Washington 2022
- Istat, Rapporto, Rapporto annuale sulle comunicazioni obbligatorie, Roma 2022.
- Da notare che l’81% dei contratti nel 2021 presentava una durata inferiore a un anno e di questi il 50% giunge a conclusione entro 3 mesi.
- ISTAT, Rapporto Trimestrale sulle comunicazioni obbligatorie, Roma 2023.