Le recenti dinamiche dell’occupazione in Europa sono segnate da fenomeni relativamente nuovi, come il crescente disallineamento fra la domanda e l’offerta di lavoro (mismatch), unito a un tasso elevato di posti di lavoro vacanti e alla carenza di manodopera (Eurofound 20231).
In concomitanza, si sta disegnando una sorta di rimescolamento del mercato del lavoro, frutto di una maggiore mobilità fra i posti di lavoro (turnover), entro cui va collocato anche l’aumento delle dimissioni volontarie e dei nuovi occupati. Tale difficoltà di incontro fra il lavoro domandato dalle imprese e il lavoro offerto dalla popolazione in età da lavoro, è di carattere strutturale, ma si è accentuato molto e in modo quasi repentino nella fase post-pandemica, in coincidenza con la ripresa della domanda.
Ci troviamo dunque di fronte a un evidente paradosso, che consiste nella compresenza di ampie aree di inattività e di disoccupazione – concentrate nelle fasce giovanili e femminili in particolare – e di un numero molto elevato di posti di lavoro scoperti.
Il fenomeno del mismatch ha diverse facce: può significare la distanza fra le qualifiche richieste e le qualifiche possedute dai lavoratori (skill gap); può indicare invece una situazione in cui le competenze esistono, sono state formate, ma per qualche ragione non incontrano il mercato (skill shortage), per via ad esempio dei salari troppo bassi, delle cattive condizioni di lavoro, dell’abuso di contratti precari, di breve durata, di forme di lavoro irregolari o sommerse.
Nel caso italiano si presentano entrambe le forme, aggravate da una generalizzata carenza di offerta di lavoro in molti settori di attività economica che, come vedremo, dipende da due macro fenomeni specifici: la crisi demografica e l’interruzione dei flussi migratori durante il periodo della pandemia. Il mismatch può essere ricondotto anche al disallineamento fra il titolo e l’ambito di studio e la posizione occupazionale non corrispondente, dando origine a effetti di sovra qualificazione o di sotto qualificazione.
L’inefficienza del mercato del lavoro comporta naturalmente anche dei costi economici collettivi, derivanti dai posti vacanti e quindi dalla perdita di produttività e dalla disoccupazione, con l’aumento della spesa pubblica in servizi, sussidi, e altri ammortizzatori sociali.
Ci domandiamo allora quali sono le radici di questa difficoltà contro la quale le imprese stanno combattendo.
Sulla base di rigorose evidenze empiriche, ci sembra che il fenomeno sia dovuto a tre aspetti sociali distinti, ma interconnessi e concomitanti.
Il primo, abbastanza ovvio è di carattere istituzionale, si riferisce cioè al rapporto fra l’offerta del sistema di istruzione e della formazione professionale e i cambiamenti della domanda di competenze e di profili professionali nuovi e più qualificati, come quelli legati alla transizione verde.
Il secondo è di natura demografica, dettato dall’invecchiamento della popolazione e dalle dinamiche dei flussi migratori.
Il terzo, di carattere eminentemente sociologico, si riferisce a un probabile e inaspettato cambiamento in corso nella cultura del lavoro, favorito fortemente dalla potenza delle tecnologie digitali, che sembra caratterizzare la componente giovanile della struttura occupazionale.
Gli effetti sono di tale dirompente portata sociale – prima ancora che lavorativa e organizzativa – che imporranno non soltanto una forte spinta al ripensamento dei modelli di organizzazione del lavoro nelle imprese, come già sta avvenendo, ma si imporranno sull’intera organizzazione dei rapporti sociali, familiari e di produzione.
La domanda inevasa di forza lavoro: una responsabilità collettiva
Le imprese dunque non trovano il personale con le competenze adeguate, sia al livello di medio-bassa qualificazione, sia con le competenze di qualità legate alla spinta delle due grandi transizioni di questo secolo, quella ecologica e quella digitale, che sempre più chiaramente si completano e si supportano reciprocamente.
È necessario tuttavia distinguere fra le figure di alto, medio e basso livello di professionalità, sapendo che il lavoro di media e bassa qualificazione è quello più critico in tema di mismatch. I dati sulle dinamiche fra domanda e offerta di lavoro (ANPAL -Unioncamere 2023)2 mettono in rilievo da un lato la velocità delle trasformazioni tecnologiche e della necessità di competenze nuove e specialistiche, dall’altro le difficoltà di reperimento della manodopera di fronte a una crescita della domanda superiore a quella precedente alla pandemia.
Si stima che nel 2022 ci siano state oltre due milioni di assunzioni di ‘difficile reperimento’ pari al 40,5% del totale delle assunzioni, riguardanti prioritariamente le professioni qualificate nelle attività commerciali e di servizio, gli operai specializzati e le professioni tecniche. Il tempo medio impiegato per coprire le posizioni scoperte con il profilo ricercato è di circa quattro mesi e prevalgono ancora nettamente i canali di ricerca informali, basati sulla conoscenza personale dei candidati, a eccezione del settore dei servizi avanzati, dove si ricorre maggiormente a sistemi di ricerca più evoluti come Internet o con accordi diretti con le scuole e le università. In linea generale si segnala una crescita proporzionalmente maggiore di personale con un diploma professionale.
L’analisi delle tendenze indica anche che il disallineamento fra domanda e offerta di lavoro è in crescita, che il problema è comune a tutte le regioni italiane, con intensità diversa, e che sarebbe sbagliato generalizzare, dato che il fabbisogno occupazionale segue un andamento differenziato per i laureati e per i diplomati. Riportiamo di seguito qualche dato che possa rendere l’idea.
Per il quinquennio 2022-2026 il fabbisogno occupazionale e professionale espresso dal sistema economico nel suo complesso (settore privato e settore pubblico) consiste in 1,3 milioni di laureati e 1,5 milioni di diplomati. Dal confronto domanda-offerta mancherebbero circa 50mila laureati all’anno (-22mila nelle lauree STEM, -19mila nel settore medico-sanitario, -17mila nell’area economico-statistica), mentre per i diplomati l’offerta sarebbe superiore alla domanda, ma vi è un evidente mismatch concentrato in alcuni specifici settori (edilizia, trasporti-logistica e socio-sanitario). In forte disequilibrio è anche il rapporto fra il fabbisogno di diplomati nell’Istruzione e Formazione Professionale (IeFP) e l’offerta disponibile, inferiore di 38mila unità per ogni anno di previsione, riferita in particolare agli operatori meccanici, edili e elettrici, della logistica e dei servizi di vendita.
Sempre secondo la fonte ANPAL- Unioncamere sono previste delle difficoltà di reperimento dei profili altamente specializzati in linea con il trend del 2021, caratterizzato da una domanda di competenze digitali pari a 646mila posizioni, delle quali il 44% rivolta a personale laureato. Più nel dettaglio la domanda di lavoro inevasa è concentrata sulle funzioni di ‘implementazione dei processi di digitalizzazione’ e nell’area delle competenze legate alla transizione ecologica (+49% secondo Linkedin).
L’elemento chiave delle difficoltà del mercato del lavoro sta proprio nella forte accelerazione della forza delle tecnologie sul lavoro, che si è resa ancora più tangibile durante il periodo del confinamento. Il rapporto Skills for the Digital Transition (OECD 2022) descrive bene quanto aumenti esponenzialmente le probabilità di assunzione il possesso delle competenze digitali collegate alle attività di gestione di data base e di supply chain, al machine learning, all’uso di piattaforme open source, ai software come Tensorflow, Ubuntu, ai linguaggi di programmazione come Java, Pyton, Java Script, solo per fare qualche esempio.
Di fronte allo scenario abbozzato, si potrebbe essere indotti a pensare che le sofferenze del mercato del lavoro italiano possano ridursi alle difficoltà di trovare il personale idoneo – che le imprese oggi esprimono in modo sempre più allarmante e tutto sommato improvviso – come se dipendesse esclusivamente dal lato dell’offerta (insufficiente, inadeguata), vale a dire dai lavoratori e dalle lavoratrici. Se così fosse, questo modo di interpretare il problema sarebbe certamente riduttivo di fronte a una realtà da lungo tempo segnata da abbandoni scolastici, effetti di scoraggiamento nella ricerca del lavoro da parte dei più giovani (come sappiamo l’Italia ha la percentuale più elevata in Europa di giovani non occupati), da una precarizzazione reiterata dei contratti di ingresso al lavoro, da retribuzioni spesso troppo basse, oltre al fenomeno ormai costante dell’emigrazione delle giovani generazioni ( fra il 2021 e il 2022 hanno lasciato l’Italia circa 80.000 giovani di età compresa fra 18 e 34 anni) che passa quasi del tutto inosservato.
Inoltre, lo svilupparsi di un metodo di apprendimento per competenze e di un mercato di queste competenze, che avviene in larga misura attraverso l’esternalizzazione dei rapporti di lavoro, le consulenze, i contratti a progetto, gli appalti a cascata e così via, ha portato a un progressivo allontanamento da una visione ampia di sviluppo umano che in effetti contrasta con i metodi del capitalismo impaziente, che ha investito in modo molto selettivo e mirato sulle risorse umane.
L’attuale allarme per la carenza di manodopera sta forse innescando qualche cambiamento nelle strategie delle imprese sulla formazione, la mobilitazione e la conservazione delle risorse umane. A questo proposito è interessante osservare come le imprese stiano rispondendo alle difficoltà di reperimento dei profili richiesti: la maggioranza prevede di assumere personale da qualificare internamente (41%) soprattutto nei settori dell’industria e nei servizi, mentre nel settore ICT la percentuale scende al 28%, il 16% dichiara di offrire una retribuzione più elevata del livello medio di mercato (la percentuale sale al 23 per cento nel settore ICT) e il 21% delle imprese punta sulla mobilità geografica (nel settore ICT questa modalità sale al 35%).
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