L’ambiente/La pianta assassina

Agosto 1998 - La pianta chiamata «giacinto d’acqua» è diventata un grave problema ed è al primo posto nelle priorità dei governi africani.

Autore

Gunter Pauli

Data

5 Gennaio 2023

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5 Gennaio 2023

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Ambiente

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Agosto 1998 – La pianta chiamata «giacinto d’acqua» è diventata un grave problema. È al primo posto nelle priorità dei governi africani. Numerose agenzie internazionali e la FAO, preso atto della gravità del problema, hanno stanziato finanziamenti nel tentativo di trovare una soluzione. 

Il giacinto d’acqua soffoca le acque, intasa i fiumi, riduce il flusso d’acqua delle centrali idroelettriche, assorbe l’ossigeno e mette a repentaglio la sopravvivenza della flora e della fauna acquatica, con gravi danni alla pesca, alla produzione di energia, agli scambi, al turismo e ai trasporti. 

Molti tentativi pochi risultati

La comunità scientifica, nonostante gli enormi sforzi profusi nel tentativo di risolvere questo problema, non ha ottenuto sostanziali risultati. Il giacinto d’acqua è stato fino a oggi combattuto ricorrendo all’impiego di pesticidi o di agenti di crescita (es. il 2.4D) che rilasciano diossina. Tuttavia, le preoccupazioni derivanti dall’uso di tecniche di irrorazione chimica non possono limitarsi al solo aspetto economico: si tratta infatti di un approccio alquanto discutibile poiché produce danni permanenti e irreversibili alla qualità delle acque trattate, senza contare che l’utilizzo di pesticidi e diserbanti provoca un avvelenamento del patrimonio ittico, impedendone in molti casi l’esportazione (è la sorte toccata al persico del Nilo in Tanzania, Kenia e Uganda) in quanto supera i limiti previsti dalle norme igieniche stabilite dagli Stati che importano. L’impatto ambientale a lungo termine dell’irrorazione chimica viene spesso sottovalutato.

Inoltre, l’esempio del Malawi ha dimostrato che sei mesi dopo lo «sradicamento chimico» il giacinto d’acqua aveva ricominciato a proliferare nel lago. L’impiego di sostanze chimiche è una strategia da extrema ratio, dovrebbe pertanto essere evitato per le ragioni sopra citate. Non va inoltre dimenticato che il giacinto d’acqua ha un periodo di germinazione di 15 anni.

La guerra chimica dell’uomo contro queste piante acquatiche è destinata all’insuccesso a meno che non si riescano a raggiungere le radici della pianta nel letto dei fiumi o sulla superficie dei laghi, provocando l’avvelenamento dell’intero sistema acquatico nel tentativo di trovare una soluzione radicale e duratura. Si tratta dunque, come evidente, di un’opzione non praticabile.

Residui organici sul letto dei fiumi

Sulla scorta di queste considerazioni, si è passati ad esplorare la strada del controllo biologico. In Africa orientale e occidentale si è tentata, con grande dispendio di energie, la coltura di un coleottero importato dall’Australia, ma, anche in questo caso, con risultati decisamente modesti. Questa particolare coltura richiede infatti molto tempo e gli insetti rischiano di essere distrutti dagli uccelli attratti dalla presenza di un nuovo cibo. Ma se l’insetto riesce a deporre le uova, le larve mangiano le foglie, che nel giro di giorni o settima ne muoiono e si depositano sul fondo lasciando pulita in superficie l’acqua dei fiumi.

Non si tratta neanche in questo caso di una vera soluzione, poiché questa grande biomassa che precipita sui fondali crea massicci residui organici sul letto dei fiumi, continuando a consumare ossigeno e mettendo dunque a repentaglio la sopravvivenza delle diverse specie ittiche. Se si pensa che sulla superficie del Kariba Lake, ubicato tra lo Zambia e lo Zimbabwe, è stata stimata la presenza di 4.000 ettari di giacinti d’acqua, non è difficile capire che una biomassa di questa entità sul fondo del lago equivarrebbe a una sentenza di morte per milioni di pesci, privati delle necessarie riserve di ossigeno. 

È evidente a questo punto che anche il ricorso alla guerra biologica non è in alcun modo una strada praticabile. Il ragionamento è molto semplice: combattere una pianta importata (il giacinto d’acqua) con un insetto importato (il coleottero australiano) significa rischiare il disastro biologico. Non esistono infatti dati sicuri sull’impatto a lungo termine che si verrebbe a creare nel caso in cui il coleottero divenisse un nemico naturale del giacinto d’acqua.

Tra venti o trenta anni, l’introduzione di questo insetto, che porta con sé funghi e batteri, potrebbe turbare l’equilibrio ecologico attraverso l’introduzione di fattori sconosciuti. Le soluzioni proposte da un approccio di tipo chimico o biologico sono soluzioni da Homo «non» Sapiens, l’uomo che non sa che cosa fare. È giunto il momento di immaginare una soluzione degna dell’Homo Sapiens, l’uomo che sa.

Massiccio impiego di mano d’opera

Dopo i tentativi sopra citati, il problema dell’asfissia dei fiumi e dei laghi in Africa e in Sud America è stato combattuto ricorrendo a tecniche di raccolta di tipo manuale e meccanico. La rimozione manuale comporta un massiccio impiego di mano d’opera, quella meccanica consumi energetici decisamente elevati. Nessuno dei due processi è dunque efficiente.

Nel primo caso, le donne costrette a stare tutto il giorno immerse nell’acqua fino alla vita sono condannate a condizioni di lavoro altamente disagevoli. Dati i costi risibili (pochi dollari al giorno) della mano d’opera, la rimozione viene effettuata principalmente a mano. Nel caso di superfici particolarmente estese, si ricorre all’intervento dell’esercito: è ciò che è accaduto nello Zambia per fronteggiare l’invasione di fiumi e laghi. 

L’approccio integrato di guerra chimica, biologica e meccanica al giacinto d’acqua, abbinato alla rimozione manuale, non ha tuttavia dato frutti soddisfacenti. Al contrario, dopo dieci anni di guerra aperta, la pianta prospera come non mai. Si impone a questo punto un approccio di tipo completamente diverso: è questo il motivo per cui l’iniziativa ZERI (Zero Emissions Research Initiative) ha deciso di affrontare il problema in maniera radicale e innovativa, chiamando a raccolta da tutto il mondo scienziati e imprenditori particolarmente «creativi». 

L’iniziativa ZERI basa il suo approccio sul semplice assunto che nulla debba essere sprecato e che le eccedenze di un processo possano essere utilizzate come risorse in un altro processo. Utilizzando tutto, non si spreca nulla e si raggiunge la produttività totale dei materiali. Questo concetto, oggi ampiamente accettato, ha trovato applicazione in oltre 50 settori economici. Nel caso del giacinto d’acqua, questa logica e questo concetto vengono applicati per la prima volta a un seme anziché al sottoprodotto di un processo industriale. 

ZERI parte dal presupposto che il problema non sia tanto il giacinto d’acqua quanto l’uomo. Questa pianta in effetti prolifera in zone colpite dall’erosione dei suoli e dall’uso eccessivo di fertilizzanti. Finché l’attività umana continuerà a generare sprechi da un lato, e un eccessivo sfruttamento dall’altro, il giacinto d’acqua continuerà ad alimentarsi delle sostanze nutritive che trova.

La vera soluzione a lungo termine del problema consiste nell’arrestare l’erosione del suolo ed equilibrare l’uso di nutrienti quali i fertilizzanti, in special modo quelli non solubili che si accumulano nel terreno e vengono facilmente trasportati nei fiumi. Si tratta di una soluzione difficile e di lunga attuazione, poiché potrebbe occorrere una generazione per raggiungere risultati duraturi. Ciò nonostante, è un’opzione a lungo termine che dovrebbe informare qualunque azione si intenda intraprendere da qui in avanti.

Come trasformare un problema in risorsa

Il secondo passo, secondo la filosofia ZERI, consiste nel considerare il giacinto d’acqua una risorsa anziché un problema. Dobbiamo firmare un armistizio con questa pianta e smettere di combattere un organismo biologico che cerca di recuperare le sostanze nutritive e di assorbire i minerali condannati, per negligenza e ignoranza, a scomparire per sempre nel mare. 

Lo sforzo a questo punto è prefigurare un possibile impiego del giacinto d’acqua. Questa pianta, fresca o compostata, non è un buon alimento per il bestiame: persino le zebre e gli elefanti dei parchi circostanti Harare, nello Zimbabwe, disdegnano il giacinto d’ac qua, sia esso fresco o marcito. È infatti un vegetale che hanno imparato a riconoscere come scarsamente digeribile. Il giacinto d’acqua è ricco di fibre ligneo-cellulose la cui struttura ne impedisce la digestione in tutti i ruminanti. Ricerche scientifiche hanno confermato che i soli enzimi capaci di rompere queste fibre sono quelli dei funghi. 

Dopo il primo International Training Workshop on Zero Emissions sponsorizzato dal United Nations De velopment Programme (UNDP) e svoltosi a Windhoek, Namibia, nel gennaio 1997, la fondazione ZERI ha finanziato una prima ricerca da cui è emerso che il giacinto d’acqua secco è un eccellente substrato per la coltivazione di funghi, con un tasso di efficienza biologica molto elevato.

Cento chilogrammi di substrato composto da giacinti d’acqua secchi si trasformano, in un tempo compreso tra 4 e 8 settimane, in 112 kg di funghi (Pleurotus sajur caju). La segatura, utilizzata tradizionalmente come substrato, ha un tasso di efficienza biologica del solo 30 per cento, e il giacinto d’acqua compostato raggiunge il 70 per cento, con tassi decisamente inferiori rispetto al substrato di vegetale fresco essiccato. 

Un substrato che risulta ricco di proteine

Il substrato utilizzato per i funghi, ciò che rimane dopo averli raccolti, risulta ricco di proteine: i miceli lasciati dai funghi costituiscono infatti il 38% del contenuto proteico del substrato. Il giacinto d’acqua, inizialmente povero di proteine, si ritrova arricchito di nutrienti. Inoltre, le fibre che ostacolavano il processo digestivo, risultano in questo modo parzialmente trasformate in carboidrati.

Il sottoprodotto derivante dalla coltivazione dei funghi si rivela, a questo punto, un’ottima base per la coltura di lombrichi o può essere utilizzato come foraggio per il bestiame. Se la concentrazione di proteine è superiore al 30%, come potrebbe accadere nel caso di periodi di vegetazione più lunghi e di diverse specie di funghi, il substrato utilizzato potrebbe addirittura essere trasformato in alimenti per gamberi o per molluschi. In questo modo si verrebbero a creare una serie di sottoprodotti in grado di contribuire in maniera decisiva alla soluzione di problemi creati dall’uomo con l’erosione dei suoli e l’eccessivo impiego di fertilizzanti. 

I lombrichi, a loro volta, producono humus, che potrebbe essere utilizzato come materiale di riempi mento dei suoli impoveriti. Senza contare che i lombrichi sono un ottimo mangime per i polli. Il bestiame e i polli producono ingenti quantità di letame, che può essere incanalato in un digestore generando così bio gas (+66 per cento metano e –34 per cento CO2), utilizzabile come fonte di energia per il riscaldamento del substrato. Si eviterebbe in questo modo di tagliare legname da fuoco per la sterilizzazione del substrato in quanto tutta l’energia necessaria a questo scopo potrebbe essere generata dal sistema stesso. Il risultato finale è la creazione di un sistema in grado di produrre reddito e posti di lavoro e di trasformare un problema in un’opportunità.

Concentrare i minerali anziché disperderli

I funghi hanno la capacità di recuperare residui di minerali dal substrato di giacinto d’acqua, vegetali noti per le loro proprietà di assorbimento di metalli e minerali. Questo doppio sforzo – da un lato del giacinto d’acqua e dall’altro dei funghi – di concentrare i minerali che si disperdono a causa dell’erosione del suolo può trasformarsi, a seconda dei casi, in un problema o in un’opportunità. È vero infatti che nell’evenienza in cui si riscontrasse nei fiumi e nelle dighe la presenza di metalli pesanti quali il cadmio e il piombo, il giacinto d’acqua li assorbirebbe in tempi molto veloci. In un caso simile, basterà utilizzare per la coltivazione dei funghi un substrato composto dalle sole foglie, scartando le radici in cui si concentrano i metalli. Ma nel caso in cui sia possibile stabilire con certezza che non vi sono rischi di contaminazione proveniente dalla presenza di metalli pesanti, i funghi potranno essere utilizzati per concentrare i minerali dispersi in una seconda fase, offrendo in questo modo un incredibile con centrato di sostanze nutritive o un ottimo additivo per il terreno. 

L’Africa e il Sud America, pur disponendo di circa il 60% della biodiversità mondiale di funghi, contribuiscono solo per lo 0,5% della produzione industriale globale. E la stragrande maggioranza di ciò che viene prodotto in Africa e in Sud America (in particolare l’Algaricus bisporus) non è originario del continente. Ciò dimostra che questi paesi non conoscono la loro biodiversità. Non conoscono le diverse specie di funghi, che rischiano addirittura di estinguersi ancor prima di essere state studiate. Non vi sono in questi continenti banchi di spore in grado di fornire il materiale di base di 20-30 specie originali di funghi ai potenziali acquirenti quali aziende agricole e imprese. 

Tutto ciò che è attualmente disponibile viene importato, spesso degenerato secondo un approccio che non valorizza in alcun modo la diversità dei continenti africano e sud americano. 

I funghi costituiscono una delle coltivazioni tradizionali di molte tribù africane. Tradizione che è andata via via scomparendo negli ultimi decenni a causa della maggiore urbanizzazione e della deforestazione. I funghi rappresentavano un raccolto stagionale che aiutava le tribù a sopravvivere tra le diverse semine. La domanda di funghi è molto debole e i prezzi sono troppo elevati per il consumatore medio. Provocando un ribasso dei prezzi attraverso la produzione locale e la conseguente riduzione delle spese di trasporto, la domanda potrebbe conoscere un rapido incremento, a condizione, ovviamente, che i funghi siano disponibili a prezzi contenuti e in quantità elevate. 

La fattibilità scientifica dell’impiego del giacinto d’acqua è stata dimostrata da uno studio pilota effettuato nello Zimbabwe sotto la direzione dell’eminente professore S.T. Chang in collaborazione con Margareth Tagwira della Africa University di Mutare, com’è stata del resto dimostrata la fattibilità tecnica ed economica della coltivazione di funghi utilizzando il giacinto d’acqua essiccato. Il costo della coltivazione dei funghi è costituito per il 60-80% dalla preparazione del substrato e dall’energia necessaria per il suo trattamento. Quando le materie prime sono disponibili gratuita mente e la spesa energetica è limitata all’investimento in un digestore che generi il gas metano, la coltivazione basata sul giacinto d’acqua può essere avviata a costi assolutamente competitivi.

Minimo investimento massimo profitto

Per una piccola azienda agricola è sufficiente un capitale di avviamento di 500 dollari e il primo raccolto di funghi potrà essere pronto per essere venduto non più tardi di un mese dalla raccolta dei giacinti d’acqua. I digestori progettati da George Chan per la Grameen Bank non costano più di 20 dollari e hanno una durata di due anni. Un’attività di tipo industriale richiede invece circa 5.000 dollari di capitale di avvia mento e un digestore di dimensioni da 10 a 20 metri cubi. Ma anche nel caso in cui si tratti di un capitale non indifferente per un imprenditore rurale locale, il denaro investito verrà, molto probabilmente, recuperato in meno di un anno. Ciò significa che si tratta di un’attività avviabile con microfinanziamenti. 

Gerben de Boer, ex direttore generale del centro di ricerca del Ministero dell’agricoltura olandese, ha dimostrato ampiamente che i lombrichi (la varietà rossa proveniente dalla California) si prestano ottimamente a processi di trattamento. Se ne possono infatti estrarre cinque varietà di enzimi di elevato valore commerciale. Questa tecnologia comporta costi ridotti, consumi energetici contenuti e può servire, ad esempio, a trasformare i tradizionali saponi prodotti in Africa in potenti concorrenti dei detergenti sintetici il cui impiego è massicciamente promosso nei paesi in via di sviluppo con conseguente contaminazione dei fiumi con brillantanti ottici e riduttori di tensioattivi. Senza con tare che l’Africa dispone di varietà originali di lombrichi, quali ad esempio, il mopane, il cui contenuto di enzimi è più elevato rispetto a quello del lombrico rosso della California. Anche in questo caso la biodiversità dell’Africa e dell’America può rappresentare un’inestimabile risorsa a patto che sia adeguatamente conosciuta e sfruttata.

Un approccio chimico, biologico e meccanico

L’impatto socio-economico dell’approccio ZERI rispetto all’approccio misto di tipo chimico, biologico e meccanico presenta un numero così elevato di vantaggi che dovrebbe indurre tutte le parti interessate a implementare l’opzione ZERI. I lavoratori che prestano attualmente la propria opera per una paga minima di 1,50 dollari al giorno, in particolare le donne che lavorano ore e ore immerse nell’acqua fino alla vita per rimuovere i vegetali infestanti, potrebbero arrivare a una paga giornaliera di 10 dollari.

Ciò comporterebbe un reddito annuo di oltre 3.000 dollari, cifra infinita mente superiore al reddito medio dell’Africa rurale. Il giacinto d’acqua può dunque rappresentare un motore di crescita. 

Se si includono in questo calcolo i vantaggi aggiuntivi derivanti dalla coltura dei lombrichi, la produzione di biogas e di mangime per polli gratuita, il reddito totale per lavoratore può subire un ulteriore incremento. Il ciclo giacinto d’acqua/funghi/lombrichi/digesto re è un’opportunità di generare reddito e occupazione con un modello di sviluppo sostenibile basato su una risorsa rinnovabile. 

I risultati evidenziati dai progetti pilota portati avanti nello Zimbabwe trovano ulteriore conferma negli esperimenti condotti in Tanzania (Lago Victoria) e in Namibia (Caprivi District). La valutazione di un’iniziativa sostenuta congiuntamente dall’Unione Europea e dalla FAO per combattere il giacinto d’acqua in Ghana attraverso il ricorso a un approccio misto di tipo chimico, biologico e meccanico ha fornito la possibilità di raffrontare i costi e i benefici delle opzioni attualmente a disposizione dei governi. Lo studio più con vincente proviene tuttavia dal Vietnam, dove oggi il giacinto d’acqua non è più considerato un problema, ma viene addirittura coltivato intensivamente valorizzandone il potenziale di motore di crescita.

Opportunità travestita da problema

È dunque giunto il momento di considerare il giacinto d’acqua una grande opportunità «travestita» da problema, capace di correggere e di porre rimedio ad alcuni dei più grossi errori compiuti dall’uomo. Spetta ora ai governi impegnarsi, la comunità scientifica ha fatto la propria parte. Se si agirà nel modo giusto, le popolazioni insediate in prossimità dei laghi Victoria e Malawi, di Zambezi e di Caprivi trarranno notevoli vantaggi. Ed è questo lo scopo principale della nostra iniziativa.

La metodologia ZERI, descritta nelle pubblicazioni Breakthroughs e UpSizing, dimostra che è assolutamente possibile trasformare gli scarti in cibo e genera preoccupazione e reddito contribuendo al tempo stesso alla soluzione di problemi creati dall’uomo. 

Un team di esperti di tutto il mondo

Il team impegnato nel progetto è composto da: C.G. Hedén, membro della Royal Academy of Sciences svedese, direttore esecutivo della Fondazione Biofocus; Keto Mshigeni, Africa Chair della UNESCO ZERI, Windhoek pro-vice rettore della Università della Namibia; B.J. Ndunguru, direttore SACCAR, Gaborone, Botswana coordinatore di ricerche agro-industriali in 20 paesi; Margareth Tagwira, lettrice e ricercatrice alla Africa University di Mutare, esperta in coltivazione di funghi su substrato di giacinto d’acqua; Nuhu Hatibu, rettore, docente nella facoltà di agricoltura della Sokoine University di Morogoro, Tanzania; F.K. Fianu, rettore, e docente nella facoltà di agricoltura dell’ Università del Ghana a Leon; E. Bisanda, professore associato nella facoltà di ingegneria dell’Università di Dar es Salaam, Tanzania; Gunter Pauli, presidente della Fondazione ZERI (Svizzera), imprenditore e autore; Leslie Hawrylyshyn, vice presidente della Fondazione ZERI, esperto in financial engineering; George Chan, Esperto in biodigestione sulla base di scarti agricoli, Mauritius; Shu Ting Chang, Università cinese di Hong Kong, esperto internazionale di funghi; G.F. de Boer, scienziato olandese e imprenditore, esperto di lombrichi ed enzimi; W.J. Meyer, esperta di lombrichi del Sud Africa; J. Hugh Faulkner, executive chairman SPM, Svizzera, ex membro del governo canadese.


Fonte/Testo originale: Gunter Paoli, ‘L’ambiente/La pianta assassina’ – pubblicato su Equilibri, Fascicolo 2, agosto 1998, Il Mulino.

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