Fondamenti dell’economia di domani

Il dilemma tra crescita e non crescita attraversa le nostre società. La politica non dovrebbe ignorarlo, ma decidere. Una prosperità senza crescita è qualcosa di nuovo.

Autore

Tim Jackson

Data

15 Dicembre 2022

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DATA

15 Dicembre 2022

ARGOMENTO

PAROLE CHIAVE


Economia

Società

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Giugno 2019 – È un immenso piacere essere qui 1 per parlare della differenza tra crescita e sviluppo e prosperità e sviluppo, temi che hanno occupato una parte importante della mia vita accademica, in particolare a partire dal rapporto intitolato Prosperità senza crescita 2 che scrissi nel 2009 per il governo inglese. Come imprenditori, economisti e politici sarete sicuramente scettici sul concetto di prosperità senza crescita ma, premesso che comprendo il vostro scetticismo, non vorrei indugiare oltre sul dilemma crescita/non crescita, un dibattito che si trascina da secoli, e certo non per problemi ambientali, nel momento in cui le economie avanzate rallentano nell’Europa occidentale e in altre parti del mondo. Desidero invece soffermarmi sull’architettura della nostra economia, ossia sul nostro sistema macroeconomico, per indurvi a pensare diversamente ai fondamenti dell’economia di domani, partendo dal ruolo delle imprese e dei governi nel sistema.

Produttori e consumatori

Inizio con la macroeconomia perché, per gli economisti, l’economia circolare corrisponde al cosiddetto «flusso circolare dell’economia», un concetto nato circa ottant’anni fa nell’ambito della contabilità nazionale, mentre in quello ambientalista il concetto di economia circolare si è sviluppato negli ultimi dieci-vent’anni. Il flusso circolare dell’economia si presenta come un’immagine molto «circolare» e riflette il rapporto tra produttori e consumatori. Le imprese producono beni e servizi che vendono agli utilizzatori che in cambio mettono a disposizione un capitale fatto di lavoro, tempo e risparmi, reinvestito nella filiera produttiva. Le aziende, infine, pagano gli stipendi ai loro dipendenti, persone che poi acquistano i loro prodotti.

Questa è una visione tranquillizzante dell’economia. La cosa straordinaria da comprendere, ed è un concetto fondamentale, è che in questo aggregato siamo tutti consumatori, imprenditori, produttori e lavoratori.
Il fatto che le persone abbiano interessi diversi nei vari ruoli che assumono non deve allarmarci, se riusciamo a visualizzare in modo creativo il funzionamento pratico dell’economia nel suo insieme.

Questa visione dell’economia circolare non dà indicazioni sulla crescita e sullo sviluppo. Mostra solo, da un lato, la produzione di beni e, dall’altro, il loro consumo. Ma esiste un aspetto del comportamento umano che tende ad accelerare questo sistema. È prevedibile che gli utilizzatori non
spendano subito tutto il proprio reddito in beni e servizi, ma tendano a risparmiarne una parte da investire in uno strumento sicuro che possa assicurare loro un reddito più alto o, perlomeno, una stabilità economica futura. Risparmieranno, per esempio, per i periodi in cui potrebbero avere un reddito più basso, e questo comportamento è essenziale per la sostenibilità economica delle persone nel corso della vita. L’aspetto critico è rappresentato dalla distanza che separa i risparmi dagli investimenti nelle imprese, perché determina quale sarà la nostra economia di domani.


Mi soffermo, ora, sull’idea che gli investimenti siano un legame tra il presente e il futuro. Nelle economie di ieri, gli investimenti erano prevalentemente indirizzati al mantenimento o al miglioramento del sistema esistente attraverso l’acquisto di macchinari e beni finalizzati ad aumentare la produttività del lavoro. Questo cosa significa? Significa accrescere la quantità di lavoro svolto da un lavoratore in un’ora di tempo. Migliorare la produttività del lavoro vuole dire che tra un anno saremo in grado di produrre di più per ogni ora di lavoro e così via, anno dopo anno.


Questa spinta verso una crescente produttività del lavoro è sia un bene, sia un male, e a breve ritornerò sull’aspetto negativo di questo fenomeno.
Ma ora concentriamoci sull’aspetto positivo. Una maggiore produttività ci consente di fare di più in meno tempo, una brevità impensabile per i
nostri antenati. Questo miglioramento accorcia le nostre vite lavorative e ci permette di abbassare i prezzi, perché se i lavoratori riescono a produrre di più in meno tempo i costi diretti di produzione sono inferiori ed è possibile tagliare i prezzi al consumo. Ci permette inoltre, ma non sempre, di aumentare lo stipendio dei lavoratori, perché cresce il valore del tempo da loro prestato all’impresa. Ma come sicuramente saprete, uno degli argomenti più dibattuti nell’ultimo decennio, più negli Stati Uniti e nel Regno Unito che in Italia, è il fatto che la maggiore produttività del lavoro non abbia avuto ricadute positive sui salari dei lavoratori, ma solo sui profitti e ai dividendi dei proprietari del capitale. La consapevolezza di questo fatto è molto interessante perché, sebbene io sia partito affermando che il ruolo delle persone è in qualche modo intercambiabile, in realtà non lo è. All’interno del sistema sono presenti asimmetrie di proprietà e di potere, e la distribuzione dei dividendi per migliorare la produttività del lavoro è una questione controversa, perché dipende dalle scelte fatte sull’utilizzo di quei dividendi.


La prima scelta possibile è quella di reinvestire il dividendo in macchine più efficienti per aumentare produttività e crescita economica. La seconda può essere quella di alzare i salari dei lavoratori. Questa soluzione avrebbe un impatto positivo sul mercato, perché i lavoratori avrebbero più soldi da spendere per i beni che producono. La terza scelta possibile è quella di restituire la maggiore produttività agli azionisti sotto forma di dividendi o utili. La scelta relativa alla suddivisione degli utili ottenuti, determina non solo la direzione di sviluppo dell’economia, ma anche altri aspetti d’importanza vitale per la stabilità delle nostre società. È sufficiente osservare quanto sta avvenendo nel mio Paese, negli Stati Uniti e in Europa, e la diffusa instabilità sociale e politica, per capire dove sono stati investiti gli utili ottenuti con la maggiore produttività del lavoro. Ed è il nostro sistema economico che ci sprona ad andare sempre più avanti per creare qualcosa di nuovo.

Chi di voi conosce l’industria delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Ict), capirà immediatamente il valore di questa creazione del nuovo. Si espandono i mercati dei consumatori, si creano nuove offerte, si consente all’industria di proseguire il suo impegno nella «distruzione creatrice» descritta da Joseph Schumpeter, ossia l’idea di buttare il vecchio a favore del nuovo. Ed è qui che la macroeconomia deve fare i conti con la psicologia umana, perché noi umani siamo sensibili alle novità.

Noi amiamo le novità, ma non solo le cose nuove, amiamo le esperienze nuove, le case nuove, gli ornamenti nuovi, le macchine nuove, le vacanze nuove. Le novità ci stimolano, ci trasmettono la speranza di un domani più brillante, di un mondo migliore per noi e i nostri figli. E capirete immediatamente come questa idea di un’economia circolare, di un flusso circolare dell’economia, stimolata dal nostro comportamento prudenziale, che è la tendenza a risparmiare più che a spendere, unita alla creatività del capitalismo moderno che punta a produrre di più, a lanciare novità, a tagliare i prezzi e a espandere i mercati, rappresenti un sistema non solo economico ma sociale, un sistema ad alto consumo di materiali, risorse ed energia.

È così che una parte importante dei nostri investimenti non viene utilizzata per rendere più efficiente il nostro sistema energetico e per raggiungere degli standard ambientali superiori a quelli minimi, in modo da proteggere il nostro habitat e trasformare le nostre infrastrutture. Spesso gli investimenti sono semplicemente destinati a perseguire la «distruzione creatrice» che richiede un maggior dispendio di risorse all’interno del sistema, senza creare le condizioni per un’economia equa e coerente con la vita su un Pianeta finito. Ma l’ambiente in cui viviamo non può più aspettare. La sua sofferenza si esprime nel cambiamento climatico, nella perdita di biodiversità, nell’erosione del suolo, nella perdita di qualità dei terreni agricoli, nella distruzione dell’habitat, nell’inquinamento dell’aria e dell’acqua. Il nostro sistema economico deve trovare un equilibrio all’interno dei confini planetari per assicurare una prosperità sostenibile alla specie umana e uno sviluppo che abbia un senso reale.

Il nostro sistema, nonostante i suoi aspetti positivi e la sua creatività, ci spinge però sempre più verso un’economia insostenibile. E quando questo meccanismo si inceppa, come accadde nel 2008, entra in crisi l’intera società, dal cittadino comune ai politici, al mondo dell’impresa. Un’economia in recessione non è un luogo felice né per i produttori né per i consumatori, e sicuramente non per i governi che devono gestirla e che si trovano presto «esautorati» se le loro risposte non sono adeguate alla situazione che si è creata.

L’economia di domani

Negli ultimi decenni, in realtà a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, per far funzionare il nostro sistema economico, si è fatto ricorso a una politica monetaria meno rigida, abbassando il costo del denaro in modo da favorire gli investimenti. Questo concetto di creazione del credito è fondamentale per le famiglie che hanno bisogno di risparmiare e per le imprese che hanno bisogno di investire per avviare e mantenere attivo il processo di «distruzione creatrice».

E come molti di voi sanno, ed è uno degli argomenti più dibattuti, queste non sono le uniche due destinazioni del credito nell’economia capitalistica moderna. In particolare, negli ultimi due decenni, la maggiore flessibilità della politica monetaria ha incoraggiato comportamenti speculativi e una parte importante, la maggior parte dei prestiti netti emessi dalle banche, non è andata alle famiglie o alle società non finanziarie, ma è finita nel settore finanziario, un «casinò» dove si scommette sul valore futuro di asset e soldi.

Perché andiamo in questa direzione? Le ragioni sono diverse. Una di queste è naturalmente la disparità tra chi paga i costi di questo credito e chi ne raccoglie i benefici a breve termine (tra cui sicuramente le società finanziarie). Inoltre, pensiamo che questo sistema stimoli la crescita assicurandoci la prosperità, pensiero degno di rispetto, ma purtroppo non veritiero. In realtà quello che abbiamo creato è in molti casi un’economia che non funziona. La
mia città [Guilford] 3 è stata messa a ferro e fuoco nel 2011 durante i disordini innescati dalla crisi finanziaria.

Ma i disordini erano ovunque e, come ho detto prima, ritengo che la creazione di un’economia iniqua abbia avuto una responsabilità importante nell’instabilità sociale e politica del 2008, perché intere comunità erano state trascurate e interessi importanti ignorati, perché gli utili ottenuti dalla maggiore produttività del lavoro non erano stati usati per aumentare i salari dei lavoratori, perché erano mancati gli investimenti in tanti settori e i fondamenti stessi della macroeconomia erano stati, in un certo senso, sovvertiti. Si è così arrivati a una concezione distopica dell’impresa, equiparata a terreno per il gioco d’azzardo, e del lavoro vissuto come schiavitù che ci chiede di rinunciare ai diritti fondamentali in cambio di un salario minimo per occupazioni precarie.

Lo stesso denaro è diventato una forma di potere che ci ha portati a considerare il costo totale, le spese in conto capitale (capex) e quelle complessive in modo diverso. Siamo arrivati a un punto dove i guadagni sono stati privatizzati e l’investimento nel sociale è rimasto fuori dall’equazione.

Ma non sono solo le imprese impegnate nel processo creativo a pagare il prezzo dell’inquinamento chimico dell’ambiente, della perdita di habitat e dell’integrità di un sistema circolare naturale che ci consentirebbe di godere dei frutti della Terra, bensì il governo, il contribuente e tutti coloro che vivono in un clima che imporrà costi enormi alle generazioni future.

Tutti noi subiamo le conseguenze di un sistema di accountability incompleta. I costi della crisi finanziaria di dieci anni fa hanno portato prima l’austerity, poi l’aumento del debito pubblico e infine – e questo gli italiani lo conoscono bene – il pagamento degli interessi sul debito. Ed è proprio la rapida ascesa di questi costi che impedisce all’Italia di investire in una prosperità reale e in un percorso verso un’economia diversa.

Non voglio dilungarmi su questa distopia, perché il titolo della mia relazione è Fondamenti dell’economia di domani. Possiamo costruire dei fondamenti nuovi in termini concettuali e poi chiederci: «Che significato avrebbero queste nuove practice per le nostre industrie?». Questo pensiero non è una visione utopica e rosea del futuro, ma è la cosa più pragmatica e significativa che possiamo fare oggi. Spero di avervi convinto del fatto che alla base dell’economia circolare c’è il rinnovamento che nasce dalla domanda: «Che cosa possiamo fare per riformare l’economia?». L’economia circolare è l’ambito giusto per pensare alle riforme e al rinnovamento proprio perché richiede la chiusura materiale delle nostre economie. L’economia lineare, che sta provocando il cambiamento climatico, distruggendo il nostro habitat e consumando le nostre risorse, è un’economia senza futuro.

Innanzitutto dobbiamo pensare in modo diverso i punti di partenza, sia quello macroeconomico sia quello sociale. Inizio partendo dall’impresa. Si è detto che, in generale, le persone non attribuiscono molta importanza ai beni. Un’affermazione di questo genere può sembrare inappropriata in una società dei consumi, ma era già presente nel saggio Goods Are Not Goods («I beni non sono un bene») scritto dall’economista Kelvin Lancaster nel 1966, più di cinquant’anni fa. Il testo, dal titolo paradossale e un po’ filosofico, sostiene che i nostri acquisti sono dettati da motivi precisi: soddisfare le nostre necessità. I prodotti, come ho già detto, possono diventare un servizio.

L’idea delle imprese come erogatrici di servizi è un modo interessante di pensare al futuro. E perché dovrebbe esserlo? Prima di tutto perché i servizi sono generalmente di natura immateriale. Anche un bene essenziale come il cibo non è considerato solo in termini di quantità prodotta in un determinato luogo e consumata altrove. Il cibo ha caratteristiche importanti come la qualità, l’apporto nutritivo e il sapore, ma ha anche una connotazione sociale. Gli animali si nutrono in stalla alla mangiatoia, ma per noi umani mangiare è un’attività sociale la cui qualità implica dei servizi.
Ne consegue che anche alcuni beni come il cibo possono essere considerati una forma di servizio.

È interessante osservare che, una volta stabilita questa distinzione, diventa evidente il fatto che «più cibo» possa significare «meno servizi». È per questa ragione che le società avanzate soffrono di obesità e di malattie croniche, perché noi abbiamo frainteso la differenza tra produrre una quantità maggiore di cibo e migliorarne le proprietà nutrizionali per salvaguardare la nostra salute. Questa osservazione ci induce a pensare che, in alcuni casi, sia preferibile fare di «più» con «meno», più servizi con meno cibo e di migliore qualità. E quanto ho detto in riferimento al cibo vale anche per l’energia. Nessuno dei presenti dirà mai «Quanto vorrei avere qualche pezzo di carbone in più in salotto!». Sono le proprietà termiche dei combustibili fossili e il calore che emanano che ci permettono di godere della qualità di questo materiale sotto forma di servizio. Il servizio è il comfort termico, la luce, la mobilità, o la comunicazione. Una volta fatta la distinzione tra il volume di produzione dei combustibili fossili e i servizi che questi ci offrono, si può iniziare a ristrutturare le nostre industrie a partire da questa idea.

È possibile, per esempio, pensare all’industria elettronica come a un’industria di servizi? Pensare ai servizi resi dai prodotti elettrici e, anziché aumentarne la quantità, considerare modalità meno energivore per la loro produzione? Fu questa la sfida che dovetti affrontare quando pubblicai per la prima volta il mio saggio Prosperità senza crescita e iniziai a parlarne in pubblico. Un giorno mio padre, che aveva lavorato quarant’anni nell’industria elettronica e aveva letto il mio saggio mi disse, «Tim, devo ripensare a quello che ho fatto per una vita intera sotto una nuova luce».
Alla Philips, nel settore elettronico, ai ricercatori si chiedeva di usare la loro creatività per produrre delle cose. A volte, l’obiettivo era di farle in modo più efficiente, ma l’impegno principale era di fabbricare delle cose. E io penso che le persone vogliano continuare a farlo. Il desiderio di fare delle cose è innato, ma accanto a questa visione degli umani come produttori vorrei parlare della visione degli umani come erogatori di servizi, ossia persone che offrono servizi ad altre persone e, al tempo stesso, di una visione dell’economia come luogo dove avvengono degli scambi di servizi per migliorare la qualità della vita degli altri.

Creare beni e servizi immateriali

Oltre a pensare alla materialità di un’economia basata sui servizi o, meglio, alla loro immaterialità, dobbiamo pensare alla struttura e alla prompio. Il pub è un’impresa di servizi. Ce n’era uno che frequentavo in una località inglese a nord di Broads in cui la clientela scarseggiava e quindi rischiava di chiudere perché i profitti erano bassi e non si trovava un investitore. La comunità locale si riunì e decise che il pub non era solo una fonte di guadagno e un luogo dove si beveva birra, ma anche un posto che erogava servizi alla comunità. A quel punto i membri decisero di rilevare il locale investendo i loro risparmi. Oggi il pub funziona come un’impresa di loro proprietà. Non essendoci ricchi dividendi da pagare ad azionisti esterni, i profitti del pub sono redistribuiti nella comunità sotto forma di stipendi o di erogazione di cibo e bevande.

Ed è questa l’idea al centro dell’economia di domani. Che significato avrebbe un’impresa presa in considerazione in base ai servizi offerti? E al di là dei servizi materiali come il cibo e l’energia, cosa può migliorare la qualità della nostra vita? Che cosa ci dà prosperità? Esistono moltissimi servizi essenziali al nostro benessere e possiamo elencarli con facilità: la salute, l’istruzione, la cura delle persone, il rinnovamento e il restauro delle case, la futura costruzione di edifici più confortevoli, l’artigianato, la creatività, la produzione di meravigliose opere d’arte che migliorano la qualità delle nostre vite e ci fanno sentire parte di una società che non attribuisce un valore solo ai beni ma anche alla cultura. E questi servizi soddisfano tre criteri estremamente interessanti. Il primo ci indica lo scopo dell’economia, ossia la prosperità.

Sono servizi diretti non solo alla vendita di cose o materiali per ottenere un utile da redistribuire in modo equo nella società, ma anche indirizzati a migliorare la qualità della nostra vita. Pensarli in questo modo significa pensare in modo diverso il lavoro rispetto all’idea disfunzionale che lo associa alla schiavitù. Significa porsi la domanda: «Possiamo considerare il lavoro come una forma di partecipazione significativa alla società?». Quando iniziai lo studio per la Commissione sullo Sviluppo Sostenibile del Regno Unito, rimasi colpito dai significati diversi che le persone attribuivano al termine prosperità. Dalle loro risposte era evidente che nessuna di esse considerava la prosperità una mera questione di reddito.
Se la domanda veniva posta al cittadino medio, al primo posto veniva la salute, poi la famiglia, gli amici, la comunità e infine la connettività, la comunicazione e la creatività. Ma al primo posto non c’era mai il reddito.

Uno degli elementi fondamentali che emerse da questa inchiesta di natura sociologica fu l’importanza attribuita alla partecipazione nella società.

Nessuno vuol recitare la parte del «cattivo»: persino Donald Trump si presenta come la cosa migliore degli Stati Uniti e come l’uomo che renderà di nuovo grande questo Stato. I modi in cui intende raggiungere il suo obiettivo potranno essere profondamente diversi dai nostri, ma non credo che Donald Trump pensi di essere «il cattivo». Fare «il buono» è probabilmente l’obiettivo che ci accomuna tutti, e uno dei modi in cui cerchiamo di realizzarlo è il desiderio di partecipare alla società. Molto tempo fa, parlando di consumi e di consumatori, l’antropologa Mary Douglas disse: «L’obiettivo del consumatore è di creare un mondo sociale e di ritagliarsi uno spazio credibile all’interno di esso».

In fondo non si tratta di cose, non è una questione di beni materiali, ma della creazione di un mondo sociale all’interno del quale possiamo pensare a noi stessi come a esseri sociali credibili. Per il lavoro è la stessa cosa. Come produttore di beni di qualità, mio padre mi fece capire che le persone desiderano essere impegnate nella creazione materiale delle cose e nella prestazione creativa dei servizi. Perché, per esempio, gli infermieri sono disposti ad accettare salari così bassi per svolgere un lavoro così fondamentale per la società? La società approfitta del loro
desiderio di essere parte dei servizi resi ad altre persone. E noi dovremmo sostenere che meritano una ricompensa adeguata. E invece cosa facciamo? Cerchiamo di aumentare la produttività di infermieri, medici e insegnanti.

Facciamo in modo che gli infermieri siano sempre più produttivi, che possano accudire un numero maggiore di pazienti l’ora. Rendiamo sempre più lungo il giro di medici e infermieri e allunghiamo la lista dei pazienti perché dobbiamo aumentare la produttività del settore sanitario. Eppure è proprio il tempo dedicato alle cure e ai servizi resi alle persone che produce gli effetti migliori sulla salute! In altre parole, la cura delle persone è uno dei casi in cui non ha senso puntare a una maggiore produttività come nella filiera produttiva per i consumatori.

Ci sono altre professioni dove non ha senso aumentare la produttività. Per esempio, non ha senso insegnare in aule sempre più grandi, chiedere all’Orchestra Filarmonica di Londra di suonare la Quinta Sinfonia di Beethoven in modo sempre più veloce, anno dopo anno, o di ridurre il tempo dedicato alle prove prima degli spettacoli.

In questi settori l’intensità occupazionale è alta perché il tempo è importante ed è necessario trovare il giusto punto di equilibrio nel lavoro e nella concezione industriale dell’economia. La figura 1 rappresenta l’intensità occupazionale, ossia mostra sull’asse delle ascisse il numero di persone per unità di domanda finale, come si chiama in macroeconomia, mentre l’asse delle ordinate rappresenta le tonnellate di CO2 emesse per unità di domanda finale. Osserviamo gli ambiti creativi, l’artigianato, la salute e l’istruzione: hanno un’elevata intensità occupazionale e una bassissima intensità di carbonio. È così che vorremmo costruire le nostre economie, in modo equo, creando servizi con forte valore immateriale. È un ambito dove è possibile pensare di costruire un’economia circolare i cui dividendi possano essere dedicati al nostro Pianeta e all’occupazione per creare una società migliore per tutti.

Cambiare senso agli investimenti

Non è possibile dematerializzare tutta la nostra vita. Continueremo, per esempio, ad aver bisogno dell’elettricità, delle utenze e della comunicazione, settori ad alta intensità di carbonio e, mediamente, non a elevata intensità occupazionale. Ci sono degli studi sulle energie rinnovabili che puntano ad aumentare l’intensità occupazionale e ad abbassare le emissioni di carbonio. Una delle transizioni che chiaramente vorremmo implica la trasformazione dell’infrastruttura di un settore essenzialmente materiale per creare servizi a bassa intensità di carbonio. Che cosa dobbiamo fare adesso? Torniamo al discorso iniziale sugli investimenti (fig. 2). Dobbiamo cambiare senso agli investimenti, trasformarli da gioco d’azzardo a qualcosa che rifletta meglio il rapporto tra presente e futuro, rendendoli in questo modo un impegno per il futuro.

Il nostro portfolio degli investimenti ha un aspetto diverso da quello passato: non mira solo ad aumentare la produttività delle filiere e la «distruzione creatrice» perché c’è sempre qualcosa di nuovo in arrivo. In parte sarà ancora così, ma riguarderà anche l’uso delle risorse, la transizione verso la decarbonizzazione e la protezione del nostro habitat. Non vi sembreranno investimenti veri e propri, ma la differenza tra un paesaggio verdeggiante e uno desertico riflette la differenza tra due pratiche agricole molto diverse. Il primo preserva il verde e la biodiversità e l’altro li trascura. Sono gli investimenti a fare la differenza perché riguardano il finanziamento delle pratiche che preservano la biodiversità e aumentano la prosperità a lungo termine.


Il mio obiettivo è di creare un nuovo lessico per l’economia circolare, un nuovo vocabolario per l’economia di domani, così da attribuire un senso diverso ai fondamenti dell’economia odierna.
Non dirò molto su quest’ultimo punto, ma è un tema che in questo periodo gli italiani conoscono molto bene. Il sistema monetario non sostiene questo tipo di investimento, né questo tipo di economia, e in Italia avete un elevato debito pubblico. Oggi le rigidità dell’Unione economica e dell’Eurozona costituiscono la maggiore minaccia per l’Italia e forse anche per l’Europa. L’idea di pensare al denaro in modo diverso giunge quindi in un momento opportuno. Non mi dilungherò su questo argomento perché non abbiamo a disposizione tempo sufficiente. Un personaggio molto conosciuto, un giorno disse: «È un bene che il popolo di questo Paese non capisca il sistema monetario perché, in caso contrario, scoppierebbe una rivoluzione entro domani mattina». E non stiamo parlando di un politico radicale, ma di Henry Ford, che negli anni Trenta del secolo scorso parlava di un sistema bancario che provocava le crisi e che ha continuato a farlo per circa altri ottant’anni. L’opportunità di pensare in modo diverso il sistema monetario ha quindi un lungo pedigree.

In sintesi, l’economia circolare è un ambito che ci permette di parlare di un’economia diversa, un’economia della cura, dell’artigianato, della creatività in cui la comunicazione e i beni non sono più considerati fini, ma mezzi per raggiungere degli obiettivi di natura sociale e spesso immateriali. Forse non servirà pensare alle implicazioni macroeconomiche di questo nuovo assetto. È probabile che la crescita vissuta dalle economie avanzate negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso rimanga un ricordo. Inoltre, alcune delle idee che abbiamo discusso potrebbero rallentarla ulteriormente.

Per esempio, se non fosse possibile incrementare la produttività del lavoro e la filiera produttiva perché significherebbe rovinare la vita di infermieri, medici, insegnanti, pazienti e alunni, il sistema economico, nel suo complesso, subirebbe un rallentamento. Abbiamo visto che sono molte le ragioni che possono provocare il rallentamento di un’economia.

Proviamo a porci qualche domanda. La prima è: «Cosa faremmo se l’economia di domani fosse più lenta di quella di ieri? Come reagirebbe il nostro sistema macroeconomico?». È interessante fare queste domande agli economisti perché non se le pongono. Quasi tutto il nostro dibattito economico ruota intorno ai quesiti: «Cosa occorre fare per tornare a crescere? Per accelerare la crescita? Per incrementare il tasso di crescita in modo da liberarci dalla stagnazione secolare e dal lento declino? Per raccogliere le sfide della produttività?». Queste sono domande importanti, ma se sovrastano le precedenti significa che non ci stiamo preparando ad affrontare l’economia di domani. Se non possiamo interrogarci sulle implicazioni di una visione in cui le imprese sono considerate erogatrici di servizi e non industrie estrattive, filiere produttive o industrie per lo smaltimento dei rifiuti, e se non possiamo interrogarci sul tasso di crescita, significa che la macroeconomia non sta svolgendo bene il suo compito.
La seconda domanda è: «Cosa occorre fare per far funzionare le nostre economie?». E questo ci riporta a un’altra serie di domande. Nel vostro invito mi chiedevate espressamente di parlare di modelli macroeconomici. Ed ecco il motivo per cui vorrei parlarvene; è una bellissima citazione di Joan Robinson: «Lo scopo dello studio dell’economia non è quello di acquisire una serie di risposte alle domande economiche, ma di capire come evitare di farsi ingannare dagli economisti». E per farlo, io e il mio gruppo abbiamo lavorato su tantissimi argomenti. È un modello economico-ambientale input-output a 12 settori per economie avanzate. Questo è tutto quanto dirò in proposito, un po’ come gli avvisi in fondo alle pubblicità, ma se volete sono disponibile ad approfondire l’argomento.

Una delle cose interessanti che discende dall’output di uno di questi modelli ci riporta a una delle domande sollevate nelle discussioni durante il convegno: «Cosa c’entra il governo con tutto questo?». Il governo è, per sua natura, un regolatore. Dovrebbe essere anche un facilitatore che delinea gli standard del futuro e si erge a guardiano contro la disuguaglianza. Un’altra funzione del governo, spesso ignorata, è quella di riequilibrare un’economia instabile. Il governo è l’attore principale di un’economia ed è in grado di giocare un ruolo regolatorio nello stabilizzare una situazione che altrimenti potrebbe diventare instabile. Naturalmente potremmo parlare ancora dei consumi, c’è un’ultima citazione di Elise Boulding associata all’idea che di «più» può essere di «meno», più soddisfazione può essere il risultato di meno beni: «La società dei consumi ci ha fatto credere che la felicità sia possedere delle cose, non è riuscita a insegnarci la felicità di non averle». Ognuno di noi deve decidere che cos’è la prosperità e che tipo di futuro vogliamo, high tech o una vita più lenta, e che significato ha l’idea di prosperità in un Pianeta finito.


Fonte/Testo originale: Tim Jackson ‘Fondamenti dell’economia di domani’ – pubblicato su Equilibri, Fascicolo 1, giugno 2019, Il Mulino.

Note

  1. Ringraziamo Tim Jackson e l’Associazione IMQ per averci autorizzato a pubblicare il testo, non rivisto dall’autore, dell’intervento al Convegno «Circular. L’economia che fa sistema» (Milano, 3 dicembre 2018). Trascrizione e traduzione dall’inglese di Barbara Racah.
  2. T. Jackson, Prosperità senza crescita. I fondamenti dell’economia di domani, Milano, Edizioni Ambiente, 2017.
  3. T. Jackson insegna all’Università del Surrey a Guildford (N.d.T.).
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