È del tutto scontato osservare come la natura abbia da sempre fornito i materiali per l’esecuzione di manufatti artistica dell’homo sapiens. Fin dalla preistoria materiali inorganici, e organici stabilizzati, di diversa origine, sono stati fondamentali per la composizione di pigmenti, per realizzazione di opere scultoree, per la lavorazione dei metalli, per la tessitura e l’architettura; caso esemplare tra i molti che si potrebbero citare, le Grotte di Lascaux. Più rari, perché facilmente deperibili, sono invece i manufatti prodotti con materiali organici.
Considerazioni alquanto superficiali a parte, un particolare tipo di materiale organico per l’arte permette di sviluppare una riflessione critica sul rapporto tra arte e natura. Prima ancora della concettualizzazione critica di secondo Novecento circa l’uso di materia organica nelle arti, in opere come Merda d’artista (1961) di Piero Manzoni, si può guardare a una tipologia di prodotto organico che, così come nella chiacchieratissima messa in scena con la supposta produzione biologica di Manzoni, si fonda in modo problematico sulla vita stessa di viventi del regno animale: l’avorio.
Materiale da sempre approvvigionato abusando specie animali diverse, in particolare gli elefanti, l’avorio è oggi soggetto a un apparato normativo internazionale che ne vieta la commercializzazione e ne regola la circolazione con l’obiettivo di limitare il bracconaggio di elefanti e altri animali selvatici, pesantemente minacciati nei loro habitat naturali da campagne di uccisioni illegali1. Questa normativa, basata su decenni di confronti e dibattiti internazionali, fatica a limitare una domanda internazionale per questo materiale che ancora alimenta comportamenti abusivi nei confronti di molteplici specie animali, in particolare gli elefanti2. Ma come vedremo non solo questi animali hanno sofferto della brama per questo materiale da parte di sapiens.
L’avorio di cui c’è stato maggiore utilizzo è quello proveniente dai denti incisivi, zanne, della mascella superiore dell’elefante africano e asiatico (Loxodonta africana e Elephas maximus). Le zanne dell’elefante africano pesano in media 23 kg, e misurano fino a 2 m di lunghezza con un diametro di 0,18 m. Le zanne hanno una cavità conica che misura circa un terzo della lunghezza e sono costituite sia da materiale organico sia inorganico. La componente organica dell’avorio è l’osseina, di natura proteica e deriva della matrice extracellulare del tessuto osseo, il secondo inorganico è l’idrossiapatite, fosfato di calcio associato con carbonato e fluoruro.
Ma in natura di tipologie di avorio ne esistono molte altre. Oltre dall’elefante, l’avorio è stato ricavato in epoca preistorica dal mammut (Mammuthus primigenius), e successivamente da altri animali come l’ippopotamo (Hippopotamus amphibius), il facocero (Phacocoerus aethiopicus), il narvalo (Monodon monoceros) e il capodoglio (Physeter catodon e Physeter macrocephalus). A fronte una continua domanda di materiali eburnei, nel contesto di una precisa fase del Medioevo europeo, si intensifica l’uso di un particolare tipo di avorio, quello derivante dalle zanne di tricheco (Odobaenus rosmarus).
Nella molteplicità di prodotti animali utilizzati nella produzione artistica, l’avorio, e in particolare l’avorio di tricheco, ci permette di considerare il fattore del cambiamento climatico in relazione ai processi di produzione ed elaborazione artistica, quanto meno in contesto alto medievale.
Nel lungo corso della storia di homo sapiens, l’avorio è stato utilizzato in diversi contesti culturali per molteplici oggetti simbolici, tanto religiosi quanto secolari, e anche per oggetti di uso pratico oltreché per prodotti di gioielleria, per intarsi e, quando bruciato, come pigmento. Il suo colore e il suo aspetto liscio e traslucido uniti alla facilità con cui può essere intagliato e colorato, lo hanno reso un materiale alquanto popolare e rintracciabile in svariati contesti geografici e culturali, non solo in quelle zone del Pianeta dove era di facile reperimento ma anche in quelle dove arrivava come materiale esotico via scambi commerciali rendendolo un materiale esogeno e prestigioso con associazioni simboliche e magiche.
I primi oggetti in avorio lavorato che sono giunti fino a noi risalgono al Paleolitico superiore. Sono gioielli decorati e rappresentazioni stilizzate di figure di animali o di essere umani, come la testa femminile nota come la Signora di Brassempouy, realizzata in avorio di mammut nel contesto della cultura gravettiana (22.000-18.000 a.C.) attestata tra la Siberia e la Francia sud-occidentale.
Nel corso dei secoli l’avorio è stato molto utilizzato nelle regioni di immediata reperibilità, in particolare nel subcontinente indiano, in Africa e nelle regioni artiche della Siberia e dell’America nord-occidentale. Sebbene l’avorio non fosse presente da un punto di vista naturale nel contesto Euro-Mediterraneo il suo utilizzo, grazie a strutturati scambi commerciali, fu significativo nell’espressione artistica fin dall’antichità, e successivamente nell’arte paleocristiana e nel corso del Medioevo.
L’avorio come bene di lusso ha visto fin dall’antichità un complesso sistema di rotte commerciali per la sua commercializzazione. Insieme all’Egitto faraonico anche il mondo miceneo e le civiltà microasiatiche erano grandi consumatori di avorio di origine africana anche se in piccola parte veniva importato dal sub-continente indiano. Fonti sumere menzionano avori importati, assieme a oro, argento e altri beni di pregio, da Meluhha, grande civiltà protostorica delle foci dell’Indo3. Dal terzo millennio a.C., grandi quantità di avorio indiano arrivavano in Mesopotamia durante la civiltà di Ur tramite i mercati come quello del Bahrein4. Nel contesto della civiltà dell’Indo (circa 2550-2000 a.C.), l’avorio era utilizzato per intarsi e per oggetti di uso comune come pettini rinvenuti ad Harappa.
Nell’antico vicino Oriente e nell’antico Egitto, l’avorio era già dal neolitico una preziosa merce di scambio con uno status spesso di natura regale. Utilizzato in Egitto sia per beni pratici che di lusso come contenitori per cosmetici, gioielli e pezzi da gioco prodotti dal periodo predinastico fino a quello dell’Egitto romano e bizantino (circa 4500-30 a.C.). Oggetti in avorio del periodo dinastico del Nuovo Regno, come il manico di frusta in forma di cavallo (ca. 1390–1352 a.C.), mostrano che da questa periodizzazione quasi ogni tecnica di lavorazione dell’avorio a noi nota era già pienamente sviluppata e utilizzata.
L’avorio fin dall’antichità classica e poi in epoca ellenistica è quindi merce globale. Insieme all’avorio africano, quello indiano circolava abbondantemente nel Mediterraneo. Polibio racconta di festeggiamenti e celebrazioni di sovrani ellenistici, come il trionfo di Antioco IV a Daphne nel 166 a.C., in cui grandi quantità di avorio, ottocento zanne, vengono donate al sovrano per l’occasione5. In epoca romana, l’approvvigionamento di avorio si estenderà al Sri-Lanka, al Sudan, e alla Tanzania, e da quella tardo imperiale e alto medievale interesserà l’Africa sahariana, la Mauretania e la Libia. Il traffico di questa merce nel Mediterraneo romano e poi cristiano diventa un bene di lusso diffuso alla portata delle classi medioalte. Del resto, l’editto di Diocleziano, all’inizio del IV secolo d.C. aveva già stabilito che una libbra d’avorio, circa 329 g., valeva 150 denari, pari allo stipendio giornaliero di un pittore di scene figurate6. Un prezzo significativo ma non spropositato.
La popolarità dell’avorio già in antico, ha avuto effetti negativi dal punto di vista faunistico e ambientale. La domanda di avorio nel Mediterraneo romano resterà così alta nella tarda antichità e nell’Alto Medioevo che si ritiene questa in parte responsabile per l’estinzione di una sottospecie di elefante africano, quella nordafricana. Secondo Isodoro di Siviglia, l’uso di quest’animale da parte dei romani per attività belliche, per esibizioni circensi e per l’approvvigionamento di zanne d’avorio portarono, intorno al 600 d.C., all’estinzione di questa sottospecie7. Conseguentemente le rotte di approvvigionamento dall’India e dall’Africa trans-sahariana si consolidarono tra il IV e il X secolo8, alimentando la produzione di avori lavorati in molteplici contesti, tra cui i califfati della penisola iberica dell’al-Andalus, l’impero Bizantino, l’Egitto Fatimide, l’impero Carolingio e poi quello Ottoniano.
A fronte di una costante domanda globale di avorio, nei secoli del Basso Medioevo dal IX secolo in poi, e fino al XIV, l’avorio di tricheco divenne progressivamente più accessibile e più richiesto. In questo periodo, in contesti di produzione come il nord della Spagna, il nord-Inghilterra, la Francia settentrionale e la Renania, si assistette a un progressivo aumento della produzione di oggetti realizzati con questa tipologia di avorio. Le motivazioni di questo aumento dell’uso delle zanne di questo animale sono molteplici e in parte imputabili alle fluttuazioni di temperature e al cambiamento climatico del periodo caldo medievale o dell’anomalia climatica medievale (medieval climate anomaly)9.
L’avorio di tricheco si ricava dalle larghe zanne del grande mammifero marino. Le zanne, estensioni degli incisivi dell’animale, sono utilizzate per stanare crostacei e raggiungono fino ai 3 m di lunghezza e hanno sezione ovale o a forma di ‘otto’ deformato. Sono ricoperte da uno strato spesso di cemento. La parte esterna del dente ha grana fine ed è caratterizzata da una struttura a strati concentrici molto sottili. La parte esterna è inizialmente bianca, e gradualmente diventa gialla con l’età e l’esposizione. Ha struttura più uniforme nella sezione trasversale ed è priva delle nervature che si trovano nelle zanne di elefante, ma assai più sottile rispetto alle stesse. Al suo interno la zanna ha un nucleo costituito da un deposito secondario di dentina che riempie la cavità pulpare originale man mano che la zanna cresce. Questa sostanza del nucleo è di colore leggermente più scuro e appare traslucida se illuminata da luce intensa, in netto contrasto con la parte esterna opaca. Questa sostanza contraddistingue questo tipo di avorio.
Le zanne di tricheco sono chiaramente diverse da quella di elefante ma per le caratteristiche morfologiche qui sopra accennate, divennero nel Medioevo particolarmente ricercate per la produzione di oggetti d’avorio compositi o di oggetti più piccoli, ma non per questo meno ricercati, rispetto a quelli prodotti dalle zanne di elefante.
Storicamente l’avorio di tricheco è stato utilizzato dalle popolazioni che vivevano sulla costa occidentale dell’Alaska. Manufatti decorati con incisioni molto intricate sono state trovate vicino a Point Hope sulla penisola di Lisburne sul mare di Chukchi10. Da qui poi l’uso dell’avorio di tricheco si diffonde nelle popolazioni native del nord America per finalità pratiche e rituali, in oggetti, databili tra il IV e il XIII secolo e decorati con incisioni come contrappesi per arpioni e occhiali da neve.

Contrappeso per arpione
Old Bering Sea III, Native American
300–500 CE
The Met Fifth Avenue nella Gallery 746
L’uso di questo tipo di avorio è anche attestato nell’Europa occidentale e settentrionale prima delle varie fasi dell’espansione norrena dall’VIII secolo in poi. Una zanna di tricheco, datata alla prima metà del terzo millennio a.C., è stata trovata nel sito neolitico di Skara Brae, nelle Orcadi. C’erano poi colonie di trichechi nel Mar Bianco almeno fino al XVII secolo dell’era corrente e sappiamo da racconti che mercanti norvegesi proprio in quel mare si recavano in cerca di avorio già nel IX secolo11.
Sebbene i trichechi del Mar Bianco venissero cacciati ancora XII secolo, l’Islanda e la Groenlandia che nei secoli basso medievali sono le principali aree di caccia dei trichechi. I trichechi presenti in Islanda almeno dall’inizio della colonizzazione norrena dell’isola, nel IX secolo dell’era corrente, diminuiranno a causa della caccia eccessiva già dalla fine del XII secolo. Conseguentemente, dal XIII secolo la Groenlandia diventerà la principale fonte di avorio di tricheco. Alcuni studiosi sostengono che la colonizzazione norrena della Groenlandia durante il Basso Medioevo sia stata proprio sostenuta dalla caccia al tricheco per recuperarne l’avorio richiesto dai mercati europei12. La principale area di caccia era Norðurseta, che può essere molto probabilmente identificata con la baia di Disko13. L’accesso a queste aree del nord Atlantico era stato facilitato dalla colonizzazione norrena agevolata dalle temperature mediamente più alte dell’anomalia climatica medievale che avevano aperto vie di navigazione più stabili insieme all’accesso facilitato alle coste della Groenlandia prive di ghiacci per periodi di tempo prolungato14.
Un indice della maggiore disponibilità di avorio di tricheco viene dai cataloghi di quattro grandi musei con collezioni di oggetti in questo materiale. Il British Museum, il Victoria and Albert Museum, il Metropolitan Museum di New York e il Musée du Louvre conservano manufatti di questo materiale con datazioni prevalenti tra il IX/X e il XIII/XIV secolo, in diretta correlazione con il periodo di maggior sfruttamento dei trichechi in contesto Europeo15.
Recenti studi su rostri di tricheco atlantico (le parti frontali del teschio del tricheco da cui discendono le zanne) databili tra l’XI e il XV secolo e conservatesi in diversi contesti dove questi sono arrivati per essere processati, dimostrano come il commercio di questo tipo di avorio sia stato prevalentemente appannaggio delle rotte commerciali della Groenlandia controllate da mercanti norreni16. Manufatti riconducibili a queste rotte mercantili e a contesti di produzione sono numerosi.
Già a partire dall’anno 1000 d.C., quando le coste della Groenlandia venivano colonizzate, mentre i trichechi erano quasi estinti in Islanda17, nell’Inghilterra meridionale si utilizzava l’avorio di tricheco per oggetti preziosi spesso prodotti in laboratori ecclesiastici. Nella cattedrale di Winchester si producevano crocifissi con avorio di tricheco18, così come se ne producevano nello stesso periodo a Essen in Germania come dimostrato dalla croce reliquiario nella collezione del Victoria and Albert Museum in cui il corpo di Cristo crocefisso è in avorio di tricheco scolpito con uno standard di altissima qualità19.

L’uso di avorio di tricheco nell’Europa medievale vide quindi un incremento all’incirca a partire dall’anno 1000 d.C. non solo in relazione alla difficoltà di approvvigionamento di avorio d’elefante, ma fu anche influenzato da cambiamenti artistici che si esplicitarono in un apprezzamento per oggetti d’avorio più piccoli e di uso più intimo e religioso. È probabile che la domanda abbia superato di gran lunga l’offerta fino alla fine del XII secolo. Esemplari in questo senso sono i pezzi degli scacchi di Lewis datati alla seconda metà del XII secolo oggi conservati presso il British Museum.

Lewis Chess
British Museum
ca. 1150-1200
Esemplari di grandissimo valore artistico dell’uso di questo materiale sono il rilievo raffigurante la Deposizione di Cristo, databile intorno al 1200, con una straordinaria e delicata rase del momento in cui Giuseppe d’Arimatea depone il corpo senza vita di Cristo, e la croce di Sibilla contessa delle Fiandre prodotta nella Valle della Mosa prima del 1163. Alla base di questa croce finemente intagliata, c’è una figura femminile prostrata, che alza le mani verso il Cristo crocifisso. L’iscrizione la nomina ‘Sibilla’, che agì come reggente mentre suo marito era in crociata negli anni 1140. Dopo aver visitato Gerusalemme negli anni 1150, Sibilla si rifiutò di tornare a casa con suo marito, entrando invece in un convento appena fuori città. La croce stessa faceva parte della copertina di un evangelario20.

I manufatti di cui abbiamo parlato, sono solo alcuni degli innumerevoli oggetti d’arte prodotti in età basso medievale utilizzando l’avorio derivato dalle zanne del tricheco. L’incremento di domanda di questo tipo di avorio da parte di numerosi contesti europei, in particolare tra l’XI e il XIV secolo, si deve probabilmente a una serie di fattori non sono solo legati al gusto e alle tendenze artistiche.
L’economicità di questo tipo di avorio rispetto a quello di Elefante ne ha fatto aumentare progressivamente la domanda insieme alla relativa facilità di navigazione lungo le coste della Groenlandia, dovuto all’innalzamento medio delle temperature dell’anomalia climatica medievale, ha consentito i cacciatori di trichechi di raggiungere con più agevolezza gli habitat naturali di questi animali nelle zone più a nord dell’isola e per periodi di caccia più lunghi21. L’eccessivo sfruttamento di questi animali e la relativa progressiva difficoltà di approvvigionarsi degli stessi possono aver influito sullo spopolamento della Groenlandia nel XV secolo.
In questo scenario forse un ruolo importante lo ha anche giocato il clima. Il fenomeno dell’innalzamento delle temperature arrestatosi con l’avvento della piccola era glaciale dal XII/XIV secolo in poi, ha ridotto le temperature rendendo più complessa la navigazione intorno alla Groenlandia e forse anche l’abitazione dell’isola. Non è un caso che una lettera di Nicolò V papa dal 1447 al 1455, datata al 20 settembre del 1448, riferisca che le ultime vestigia di attività cristiane nella sede episcopale di Garðar in Groenlandia risalgano all’incirca al 141822, indice di uno assottigliamento della popolazione con legami con la cristianità europea fosse in quel momento in corso. Se questo complesso di fattori non si fosse esplicitato, forse i trichechi di Groenlandia si sarebbero estinti per opera dello sfruttamento antropico, destino che hanno incontrato i loro cugini islandesi o i loro distanti parenti di terra, gli elefanti nordafricani.
Oggi i trichechi di Groenlandia sono protetti da un sistema normativo progressivamente introdotto dagli anni Cinquanta del Novecento. Grazie a queste misure si sono in parte recuperate le tre maggiori popolazioni di questo importante mammifero che stanziano nell’ovest, nord-ovest e a est della Groenlandia. Dopo un periodo di grave depauperamento della popolazione tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo, e grazie a monitoraggi più sistemateci, si è recentemente riusciti a riportare la popolazione a un livello subottimale23. Di fatto, al netto della storia qui solo brevemente accennata del rapporto tra noi Homo sapiens e Odobaenus rosmarus, si evince che questi importanti mammiferi marini siano stati meglio quando protetti dal freddo artico che ha tenuti alla larga noi sapiens. Oggi le temperature continuano ad alzarsi, e non solo quelle geofisiche ma anche politiche. Che fine faranno i trichechi nell’era della crisi climatica aggravata dalle posizioni negazioniste e di ingerenza nella politica della Groenlandia nell’era di Trump II? Nell’incertezza del nostro tempo, ci si augura che noi e i trichechi si possa stare al fresco per il tempo più lungo possibile.
Note
- A fini esemplificativi si rimanda qui alla normativa europea in materia di Wildlife Trade. Si veda: https://environment.ec.europa.eu/topics/nature-and-biodiversity/wildlife-trade_en
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Si veda per la protezione degli elefanti: https://cites.org/eng/prog/terrestrial_fauna/elephants -
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- Polibio, Storie, XXX, 25, 12.
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