La memoria del nostro passaggio. ‘Ercole al bivio’ di Annibale Carracci

Da questo capolavoro ci arriva una lezione universale: il nostro passaggio sulla Terra acquista senso grazie alla capacità di scegliere il bene comune e una memoria collettiva condivisa.

Annibale Carracci, Ercole al bivio, 1595/’96, olio su tela, 167 x 237 cm, Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli

Autore

Enrico Chiarugi

Data

18 Novembre 2024

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6' di lettura

DATA

18 Novembre 2024

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PAROLE CHIAVE


Arte

Pittura

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«Quando la Pittura volgevasi al suo fine, si rivolsero gli astri più benigni verso l’Italia e piacque a Dio che nella Città di Bologna, di scienze maestra e di studi, sorgesse un elevatissimo ingegno e che con esso risorgesse l’Arte caduta e quasi estinta. Fu questi Annibale Carracci, di cui ora intendo scrivere, cominciando dall’indole ornatissima, ond’egli innalzò il suo felice genio, che accoppiò due cose raramente concesse a gli uomini, natura ed arte in somma eccellenza» Giovan Pietro Bellori, Le Vite de’ Pittori, Scultori et Architetti moderni, Roma, 1672

Secondo il testo tratto dal libro di Giovan Pietro Bellori (Roma, 1613 – ivi, 1696), opera fondamentale della storiografia artistica, non solo del Seicento, la vita del pittore Annibale Carracci (Bologna, 1560 – Roma, 1609) avrebbe un significato emblematico, tanto che l’autore la colloca proprio all’inizio delle sue Vite: il ruolo di Carracci sarebbe stato quello di aver reagito al declino della pittura, che non si era più ripresa, se non episodicamente, dopo la scomparsa di Raffaello, e di averla avviata su una nuova strada. Alla soglia del Seicento esistevano infatti due «contrari estremi» – sempre citando Bellori – che andavano superati: «(…) l’uno tutto soggetto al naturale, l’altro alla fantasia. Gli autori in Roma furono Michel Angelo da Caravaggio (presente anch’egli nelle Vite) e Giuseppe di Arpino (Giuseppe Cesari, il Cavalier d’Arpino); il primo copiava puramente li corpi, come appariscono a gli occhi, senza elezione, il secondo non riguardava punto il naturale, seguitando la libertà dell’istinto». 

Il ‘naturale’ del Caravaggio (estimatore del Carracci, di cui aveva pubblicamente  elogiato la tela con Santa Margherita nella Chiesa di Santa Caterina dei Funari a Roma) e la ‘fantasia’ del Cavalier d’Arpino vengono superati e al tempo stesso unificati da Annibale, secondo il neo-platonismo propugnato da Bellori: il vero artista seleziona le diverse bellezze della Natura in base all’Idea del Bello e non accoglie semplicemente il naturale «senza elezione» (come invece in Caravaggio); al tempo stesso la sua Idea del Bello non può essere priva di contenuti, frutto puro ma artificiale della fantasia (come nel Cavalier d’Arpino). Le due vie, «natura ed arte», devono diventare (o tornare a essere) una sola. 

Annibale Carracci, Santa Margherita, 1599, olio su tela, 239 x 134 cm,
Chiesa di Santa Caterina dei Funari, Roma

Il tema delle ‘due vie’ si ritrova anche in un mito dell’antichità a cui Annibale Carracci seppe dare un’interpretazione magistrale (descritta minuziosamente nell’opera del Bellori) e a cui lo storico dell’arte Erwin Panofsky dedicò un suo importante studio: Ercole al bivio.

«Eracle, quando stava passando dalla fanciullezza all’adolescenza, in cui i ragazzi, acquistata ormai la padronanza di sé stessi, manifestano se nel corso della vita si indirizzeranno nel cammino della virtù o in quella del vizio, appartatosi in un luogo isolato, se ne stava seduto, indeciso su quale delle due vie indirizzarsi». L’attacco del testo di Senofonte (Memorabilia, II, 1, 21-34), che riporta la favola morale di Prodico di Ceo, sofista greco del V secolo a. C., mette in fila in poche righe tutti gli elementi fondamentali del mito di Ercole: chi, quando, dove e perché. Tutti elementi che ritroviamo anche nella tela del pittore bolognese realizzata fra il 1595 e il ‘96 per il camerino del cardinale Odoardo Farnese, all’epoca poco più che ventenne, nel grandioso palazzo di famiglia a Roma, oggi sede dell’Ambasciata di Francia. 

Era stato probabilmente il letterato Gabriele Bombasi, precettore e consigliere del giovane Odoardo e grande estimatore di Annibale (che proprio per la Cappella Bombasi realizzerà poi la Santa Margherita sopra citata) a chiamarlo a Roma, dove questi si recò già nel 1594, per stabilirvisi definitivamente a partire dalla fine del 1595; Agostino, suo fratello maggiore, anch’egli valente pittore oltre che poeta ed erudito, lo raggiungerà nel ’97. Ercole al bivio segnò quindi l’esordio, insieme romano e farnesiano, di Annibale Carracci, prima che questi si dedicasse, con l’aiuto del fratello e poi di altri collaboratori (tra cui il Domenichino e Giovanni Lanfranco) alla creazione del grandioso ciclo di affreschi della Galleria Farnese per cui è più universalmente celebre. 

Riconoscibile dalla clava, uno dei suoi attributi, Ercole occupa il centro della scena ed è il protagonista di un evento a cui il pittore bolognese ha saputo imprimere un senso di forte dinamismo. Vari sono gli elementi che lo segnalano: la torsione del corpo dell’eroe greco e la tensione insieme fisica e mentale che ne sprigiona e che esprime l’imminenza di una decisione di vitale importanza; il disegno della sua muscolatura tesa, accentuata dal gioco delle luci e delle ombre; la posizione delle due donne che sembrano ruotargli intorno a poca distanza, richiamando con gesti la sua attenzione.

Sono proprio le due donne a costituire il nucleo centrale e più noto del racconto di Prodico. Quella che, ‘battendo sul tempo’ la sua avversaria, si rivolge per prima a Ercole è Felicità, chiamata però Depravazione o Vizio da coloro che vogliono offenderla. Facendo mostra di una bellezza artificiosa, promette all’eroe la soddisfazione di tutti i desideri, senza alcuno sforzo, come simboleggia un sentiero fiorito che le sta di fronte. L’altra è Virtù: vestita in modo pudico, indica un sentiero ripido alle sue spalle, roccioso e privo di vegetazione – almeno nella prima parte, perché a coronare la cima dell’erta si intravede un bosco.

Le due strade fra cui Ercole è chiamato a scegliere sono però così divergenti? In realtà, leggendo attentamente il racconto di Prodico si nota una sfumatura significativa: Virtù non nega affatto la felicità, ma ne differisce soltanto l’evento, spostandolo verso il futuro, al culmine del sentiero, mentre Felicità-Vizio sposta il desiderio indietro nel tempo; per lei desiderio e piacere arrivano a coincidere e addirittura il piacere può essere provato prima ancora dell’insorgere stesso del desiderio. Rivolgendosi a Felicità-Vizio, Virtù dice infatti: «Tu non attendi nemmeno di avere desiderio delle cose piacevoli ma, prima ancora di desiderarle, ti riempi di tutte queste cose, mangiando prima di aver fame, bevendo prima di aver sete…»

Se di questo mito è sempre stata sottolineata la contrapposizione tra le necessarie fatiche richieste da una vita virtuosa e l’assenza di ogni sforzo promossa dal vizio, facendone una sorta di monito per adolescenti alle soglie della maturità, poca attenzione è stata forse prestata alla contrapposizione fra condotta individualistica e condotta socialmente utile. Rivolgendosi questa volta a Ercole, dice infatti la Virtù: «(…) se desideri essere amato dagli amici, tu devi fare del bene agli amici; se brami di essere onorato da qualche città, devi giovare a tale città; se pretendi di essere ammirato da tutta la Grecia per la tua virtù, devi impegnarti a far del bene alla Grecia (…)».

Il Bene che sta in cima all’erta scoscesa, dove si trova anche Pegaso, il cavallo alato che «conduce al cielo» (Bellori), si raggiunge solo avendo di mira il bene collettivo; una cosa implica necessariamente l’altra. È l’umanità intesa come fine e non come semplice mezzo, se vogliamo scomodare Kant. Ercole è quindi un’immagine universale: unione di forza e intelligenza, l’eroe greco rappresenta ciascuno di noi unito a tutti gli altri esseri umani da un’identica comunità di intenti.

Piacere immediato e piacere differito. Tempo fatto di attimi irrelati e tempo lineare direzionale. Bene puramente individuale e bene comune. Al bivio dove incontriamo l’Ercole di Annibale Carracci e l’Ercole di Prodico di Ceo facciamo anche un altro incontro: quello con la memoria. Scrive Bellori, descrivendo il quadro: «Il poeta laureato, ignudo il petto…» – sulla tela, è la figura che occupa la parte in basso a sinistra, a cui forse, in un primo momento, non abbiamo prestato particolare attenzione – «…nel volgersi ad Ercole lo riguarda e promette di cantar di lui eternamente, ov’egli muova per le orme della virtù, denotando la gloria e l’immortalità degli eroici carmi». L’artista, secondo un tema antichissimo, garantisce l’immortalità a chi si è reso degno di essere ricordato per le sue opere, realizzando un passaggio di conoscenza tra vecchi e giovani e facendo diventare lo stesso ricordo un bene collettivo trasmissibile. 

Dice Prodico a proposito della morte di coloro che hanno compiuto grandi imprese: «Quando, poi, giunge il termine fissato, non vengono sepolti nell’oblio privi di gloria, ma, elogiati nei canti, fioriscono per sempre nel ricordo». È grazie a Mnemosyne, madre delle Muse e personificazione della memoria, che il ricordo viene continuamente alimentato dalle opere degli artisti, i quali spingono gli altri uomini all’imitazione e quindi all’azione virtuosa.

Nel quadro di Carracci la posizione del corpo di Ercole, fermato un attimo prima che l’eroe si alzi e intraprenda il cammino della Virtù, ci farebbe ben sperare, così come la palma posta alle sue spalle, segno di successo e di gloria. Più enigmatica è invece l’espressione del suo viso, dove sembra trasparire un velo di malinconia e di indecisione: concentrato «nell’operazione della mente» (Bellori) l’Ercole alle soglie del Seicento sembra essere portatore di un’inquietudine che forse sentiamo più vicina a noi della sicurezza possente dell’Ercole Farnese, la statua ritrovata nelle Terme di Caracalla intorno al 1546 e conservata a Palazzo Farnese nel momento in cui Annibale Carracci ne decorava la grande galleria, sempre più logorato da un umore malinconico che ne paralizzerà il lavoro e finirà per ucciderlo. «Trovandosi Annibale in Roma, restò sopraffatto dal gran sapere degli Antichi e si diede alla contemplazione e al silenzio solitario dell’arte (Bellori)». 

Che fare, quindi, della nostra vita – sembra chiedersi (e chiederci) l’Ercole al bivio di Annibale Carracci? Quale memoria vogliamo lasciare di noi e del nostro passaggio sulla Terra? Se sulle nostre spalle grava il peso schiacciante del passato, davanti a noi si apre una strada sempre più in salita che però dobbiamo tentare di percorrere. Meglio se insieme, guardando verso l’alto. Com’è scritto sulla tela di Santa Margherita, citata più volte, SURSUM CORDA.  


Nota

La traduzione del racconto di Prodico riportato da Senofonte è tratta dal libro I Presocratici, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2006.

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