Quel cerchio di luci, ombre, vaghe figure che continua a inanellarci col suo tessersi, smagliarsi, ricomporsi – solo che si esca per un attimo dalle metropoli – ci arriva sempre come paesaggio, persino nella prospettiva degli aerei, resta l’epifania più adeguata della ‘natura’.
Verso-dentro il paesaggio, 1994
Andrea Zanzotto (1921-2011), nato a Pieve di Soligo, in provincia di Treviso, è considerato uno dei più grandi poeti e saggisti dell’ultimo secolo. Partecipò alla Resistenza veneta nelle file di Giustizia e Libertà occupandosi della stampa e della propaganda del movimento. Nel 1946 decise di emigrare prima in Svizzera e in seguito in Francia per poi rientrare in Italia alla fine del 1947.
La sua raccolta d’esordio, Dietro il paesaggio (1951), raccolse il plauso tra gli altri di Ungaretti, Montale e Quasimodo, dando il via a una produzione ininterrotta in versi – tra le sue opere Elegia e altri versi (1954), Vocativo (1957), IX Egloghe (1962) – e in prosa – Sull’altopiano (1964) – che lo ha portato più volte alla candidatura al premio Nobel per la Letteratura.
Il tema prevalente nella poesia e nella prosa di Zanzotto è indubbiamente il paesaggio. Elemento legato all’uomo, esso si genera solo con l’interazione tra persona e ambiente. Il paesaggio quindi non esiste sempre, ma solo quando l’uomo circola nel luogo che abita e vede sé stesso come integrante quel luogo. Non è un rapporto sempre idilliaco, anzi può essere addirittura estraniante, portatore di un’ansia dell’inafferrabile, del «vuoto originario». Come scrive Zanzotto, il paesaggio è «più che mai esposto al pericolo di una disintegrazione nei momenti di forte crisi, sia sociale che individuale». La mancata comunicazione tra l’Io e il paesaggio la si deve tanto al decadimento dei luoghi quanto ai turbamenti interiori.
I luoghi più famigliari possono addirittura diventare i più lontani ed estranei quando manca l’interazione desiderante: per comprendere i territori abbiamo bisogno di viverli fino a oltrepassarli per poi renderli ‘nostri’. È solo con l’insediamento nell’ambiente che il paesaggio realizza le sue piene potenzialità. I luoghi hanno bisogno dell’umano, lo attendono per disvelarsi.
Il paesaggio assume dunque un ruolo che trascende la semplice rappresentazione mimetica o lo sfondo idilliaco. Per Zanzotto, esso diviene anche uno spazio profondamente stratificato e dinamico, un archivio vivente intriso di memoria personale e collettiva, segnato in modo indelebile dall’esperienza traumatica della Seconda guerra mondiale, in particolare dalla violenza che ha devastato il suo Quartier del Piave.
Più che uno sfondo neutro, il paesaggio in Zanzotto si trasforma anche in questo caso in un vero e proprio «luogo della memoria», dove le tracce del passato, in particolare i traumi della guerra, si sedimentano e riaffiorano incessantemente, influenzando il presente. Questo legame intrinseco tra paesaggio e memoria è evidente nei continui riferimenti ai luoghi segnati dal conflitto, come la ‘Linea degli Ossari’, ‘l’Isola dei Morti’ e la ‘Valle dei Morti’, che punteggiano la sua topografia poetica.
Zanzotto non si limita a descrivere la bellezza naturale del suo Veneto, ma la intreccia con l’orrore della guerra e la fragilità della memoria umana, dando vita ad un’allegoria complessa e stratificata. La natura, con i suoi cicli di vita e di morte, diventa uno specchio della condizione umana e della Storia, riflettendo sia la bellezza effimera della vita che la distruzione e la perdita portate dal conflitto.
L’autore, inoltre, sottolinea l’impossibilità di una memoria univoca e oggettiva. Il passato si manifesta attraverso frammenti, immagini sovrapposte, percezioni sensoriali e spesso contraddittorie, come emerge dall’utilizzo di mappe geografiche che, lungi dall’offrire una rappresentazione oggettiva, diventano esse stesse luoghi della memoria soggettiva.
L’atto di scrivere, per Zanzotto, si configura come un tentativo di dare voce a questa memoria frammentata e stratificata, di confrontarsi con i fantasmi del passato e di trasformarli in memoria collettiva. La poesia diventa così uno strumento di conoscenza e di elaborazione del trauma, un modo per dare un senso al paesaggio e alla storia che lo ha plasmato.
Attraverso un linguaggio spesso surreale e frammentato, Zanzotto esprime il senso di disorientamento e le cicatrici psicologiche lasciate dalla guerra. Il paesaggio diventa il palcoscenico di un dramma interiore, in cui la bellezza della natura si scontra con la brutalità della storia, e la memoria si rivela come un processo frammentario e doloroso, ma necessario per affrontare il passato e dare un senso al presente.
In definitiva, il paesaggio per Zanzotto non è un elemento statico o decorativo, ma una presenza viva e pulsante, un interlocutore privilegiato del suo discorso poetico. Attraverso il paesaggio, Zanzotto esplora la complessità della memoria, il rapporto tra l’uomo e la storia, e la possibilità di una riconciliazione con un passato traumatico. La sua poesia, profondamente radicata nel paesaggio veneto, diventa così un’esperienza universale, capace di parlare a tutti coloro che hanno vissuto l’esperienza del trauma e della perdita.
Nel paesaggio costruito dall’uomo, Zanzotto vede nella sua produzione anche altro: un’opera d’arte che evolve quotidianamente nei secoli: è la civiltà che indaga i luoghi e li rende propri. L’opera dell’uomo modifica lo spazio e lo riempie di senso.
L’architettura e l’urbanistica dei territori dovrebbero essere patrimonio comune e le scelte di cambiamento dovrebbero essere condivise da chi quel luogo lo abita, poiché i mutamenti del paesaggio possono ripercuotersi duramente sugli equilibri delle persone e delle comunità. Anche per arginare speculatori e decisioni di intervento non in linea con la storia dei luoghi. Gli impatti del boom economico sui territori e la violenza delle nuove costruzioni sono indagati dal Poeta. Ed è proprio all’inizio degli anni Sessanta che Zanzotto scrive sul pittore Cima da Conegliano:
«L’armonia veneta si atteggia qui in un suo sogno di onesta fanciulla, sogna se stessa come agreste e soda vitalità, che non vuol nemmeno sapere di quali fatiche e rischi vinti sia testimonianza: e i castelli premono pingui di logge finestre e torri, le stradicciole e le mura gironzolano per balze a misura d’uomo, la chiesetta conversa col querciolo che le fa compagnia, i dirupi si sciolgono in serenante accessibilità, le piante sono quelle che ci donano ombra e che portano dovizia sulla nostra tavola; le donne i giovani i bambini i vecchi vengono dalla campagna di sempre: salute baldanza grazia dignità immediate. È quella di Cima, la variante in cui la realtà veneta appare come ‘distesa’ in un mito benigno e terrestre, senza ieri né domani».
Zanzotto qui parla di un legame tra presente e passato e, nel volgere lo sguardo alle contrade dipinte da Cima, richiama l’armonia che si sta sgretolando. Per un uomo nato all’inizio degli anni Venti come Zanzotto, paesaggi come quelli di Tiziano e Giorgione potevano ancora far parte di una certa quotidianità, mentre le modifiche sostanziali del paesaggio durante il miracolo economico gli «portano via la terra sotto i piedi». Negli anni ’60 i paesaggi cinquecenteschi hanno ormai lasciato spazio alle villette e ai capannoni, destinati a svuotarsi dalle crisi.
Divenuti inospitali i luoghi vengono sostituiti dalla poesia, destinata a «costruire il ‘luogo’ di un insediamento autenticamente ‘umano’».