Dimmi che festival fai e ti dirò che città sei. E non è poco, se è vero che l’ultimo ventennio è stato caratterizzato dalla competizione tra città sul terreno delle offerte culturali, col risultato di generare nuovi paradigmi e traiettorie inedite. Ma anche: che amministrazione hai, la vitalità intrinseca dei tuoi quartieri e cittadinanza, la capacità di creare nuove forme di dialogo e collaborazione tra alto e basso, pubblico e privato, centro e periferia. È il caso dei festival diffusi, format che dà il titolo al volume di Andrea Minetto e Silvia Tarassi, dettagliata disamina di una modalità di ingaggio culturale del territorio che non soltanto è frutto di un innovativo modello di politica culturale contemporanea, ma è anche l’accadimento che ha rivoluzionato maggiormente il senso e le modalità della partecipazione culturale.
Benché gli autori riconoscano il ruolo di precursori ad altre esperienze – internazionali e romane, su tutte Estate Romana e Romaeuropa – il libro è in larga parte un viaggio ragionato nelle week e nelle city di Milano. Gli alfieri per interpretare peculiarità, innovazioni, prospettive e limiti dei festival diffusi sono i festival scaturiti dal 2011 in poi, con l’elezione di Giuliano Pisapia a sindaco: Piano City, Bookcity, Prima Diffusa, a cui è seguita la seconda ondata, da JAZZMI alla Digital Week, Fringe Milano, l’Estate Sforzesca. Sullo sfondo il Salone del Mobile e lo speculare Fuorisalone, che troneggiano da decenni connotando l’identità di Milano.
Una navigazione ragionata – di più, un tentativo riuscito di sistematizzare l’analisi dell’intero fenomeno – in cui si riconosce lo sguardo da insider degli autori: Minetto è manager culturale da 20 anni e ha lavorato per l’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano, così come Silvia Tarassi, docente all’Università di Bergamo e alla Cattolica di Milano e membro di numerosi board di progettazione culturale. La prefazione di Stefano Boeri e la postfazione di Filippo Del Corno ci confermano che si tratta di pagine scritte da chi conosce da molto vicino le acque delle politiche culturali e il fermento che hanno conosciuto in anni recenti. Ogni sforzo di teorizzazione dei diversi elementi identitari del festival diffuso è inoltre sostenuto e arricchito dai virgolettati di organizzatori, creatori e curatori a vario titolo delle diverse rassegne.
Specie per chi riconosce nel software umano la vera e cruciale biodiversità che innerva i territori e la società nel suo complesso, i festival diffusi incarnano perfettamente lo spirito del tempo, segnati come sono da un articolato e innovativo sistema di relazioni orizzontali, che mettono in contatto attori molto diversi tra loro e trovano nella call al territorio e nel matching tra venue e proposte giunte dalle istanze cittadine i due momenti chiave dell’intera progettazione. «L’elemento di relazione e di gestione è perciò il tratto distintivo comune dei nuovi formati, a prescindere dal genere o dal focus del festival, perché racconta e individua una forma organizzativa estremamente specifica e nuova rispetto al modello dei festival tradizionali, in particolare rispetto proprio ai rapporti che sottintendono e governano il coinvolgimento del territorio», scrivono gli autori. «In questo scambio, la funzione di relazione culturale e partecipativa assume un’altra caratterizzazione distintiva, poiché i festival diffusi ancora di più dei festival tradizionali hanno, non solo come scopo ma anche come asset organizzativo fondante, il coinvolgimento della comunità circostante in un’esperienza di senso e di organizzazione biunivoca e speciale. Mescolano perciò in maniera naturale, necessità e piacere nella medesima pratica organizzativa.»
I vantaggi dei festival diffusi, ricostruiscono gli autori, sono di due tipi. Sul fronte economico, la nuova ottica di rapporti con i vari partner rappresenta un modo nuovo di reagire alla contrazione delle capacità di spesa, soprattutto del pubblico. Sul versante dell’engagement, il modello diffuso rappresenta poi un cambiamento profondo nelle «modalità di stimolare e coinvolgere attivamente il pubblico, i luoghi e i soggetti sul territorio, non con finanziamenti a pioggia o bandi a chiamata generica, ma con agevolazioni, coordinamento e co-produzioni specifiche tra partner anche molto diversi. (…) Un vero e proprio esempio concreto di ‘nuovo patto’ tra pubblico e privato, tra istituzioni e cittadini, tra sponsor e organizzatori, definendo una caratteristica estremamente peculiare del nuovo modello».
L’istituzione pubblica incarna così compiutamente il ruolo storico di ‘facilitatore’, che intende la cultura prima di tutto come strumento di crescita urbana e civile, mentre i festival diffusi si declinano in miriadi di microeventi che parlano a numerosi microtarget, spesso in luoghi soggetti a un temporaneo cambio d’uso rispetto a quello usuale. In questo modo, favoriscono l’emergere di quell’affascinante fenomeno che chiamiamo serendipity culturale, quel senso speciale di scoperta non pianificata di un luogo o un contenuto diverso da quello che si stava cercando. E si delineano come piattaforme per intercettare la creatività civica e per lo sviluppo di nuove prassi, anche amministrative. In esse converge e viene testato un ‘neopluralismo’ di fatto, caratterizzato cioè dalla compresenza di attori pubblici e privati che concorrono alla definizione delle politiche pubbliche.
Alimentare la piattaforma, però, richiede molta energia e la faticosa creazione di alchimie relazionali, perché supera il modello classico di soggetti simili che fanno rete tra loro, interconnettendo invece entità profondamente diverse per settore, storia, dimensioni, obiettivi. «Il paradigma è quindi rovesciato: l’evento in sé non è il fine ma è il mezzo attraverso il quale si produce una rete relazionale che include al suo interno sia i soggetti promotori che il pubblico fruitore o potenzialmente interessato. (…) È un cambio e passaggio notevole, perché si ampliano i contenuti dello scambio, si mischiano i pubblici, si incrociano le prassi, le relazioni, i budget.»
Il modello è tuttora in evoluzione. E sul tragitto sono emerse in maniera evidente alcune criticità, su tutte l’effettiva esportabilità del format in condizioni e contesti diversi rispetto a quello peculiare milanese, e il rischio di uno svuotamento della spinta iniziale di strumento di politica culturale, di uno sbilanciamento nei fatti su logiche da eventificio, commerciali o speculative, favorite dal fatto che i costi e i rischi imprenditoriali della gestione dei singoli eventi sono perlopiù demandati al privato. ‘I festival diffusi’ si chiude proprio affrontando tali complessità, senza la pretesa di trovare risposte univoche o definitive, ma con l’umiltà del ricercatore di verità e di autenticità che non possono non essere che molte.