«Delle cose che esistono alcune sono in nostro potere, altre no […] Le cose che sono in nostro potere sono per natura libere, prive di impedimenti e di interferenze, quelle invece al di fuori del nostro potere sono deboli, schiave, piene di ostacoli, estranee […] Non sono le cose a turbare gli uomini, ma i giudizi sulle cose.» Epitteto1
Il tempo non è là fuori, come una cosa, non si lascia toccare, né vedere, neanche odorare: è troppo vicino alla nostra carne, anzi il suo stesso scorrere è dentro di noi. Quando giunge la notte dei sensi, si manifesta nell’inerme nudità del battito cardiaco. Il tempo si lascia dunque ascoltare? Forse. Il tempo è forse una musica, il cui futuro si costruisce a partire dalla durata presente cogliendone attentamente le possibilità, le sfumature e le direzioni fondamentali.
Tuttavia, tutto cospira a ricoprire tale esperienza elementare del tempo come ritmo interiore, metronomo dell’organismo, a partire dal quale costruire liberamente la propria vita, cioè in fondo il tempo stesso. Addirittura, sento dire che ‘il tempo è denaro’, eppure è paradossale quanto l’accento sia posto sul ‘denaro’ al punto che si è sempre più disposti a cedere il proprio tempo-vita, financo il corpo, per ottenerne l’equivalente universale. Ma tale conversione di tempo in denaro è un fattore contingente, dipendente da circostanze esterne che sfuggono al proprio controllo. Non è insomma vero che quanto più vita-tempo cediamo, tanto più denaro otteniamo.
In nome di tale conversione ricamiamo perciò arabeschi di progetti e aspirazioni ricoprendo quel canto del ritmo interiore, cioè la durata del presente, attraverso infinite tentazioni di previsione, che sradicano il tempo come vita del corpo in anticipazioni ossessive del futuro, quasi che il tempo in cui vivere non è mai oggi, ma sempre domani. Pertanto, l’agire pianificato, ciò che l’economia comportamentale definisce agire razionale, è sovente un procrastinare la vita.
I sintomi più agghiaccianti si ritrovano facilmente nelle grandi metropoli: occorre però sapere osservare. La perfetta geometria dinamica di flussi di persone nelle arterie di trasporti pubblici testimonia quanto è l’imprevisto – un’inattesa disfunzionalità, un lieve ritardo, una deviazione, un inconscio errare la coincidenza prevista, un furto subito – che radica nuovamente il tempo nella presenza dei corpi, altrimenti sempre più aspirati nell’attesa dell’attimo successivo e quindi mai presenti a sé stessi. Il flusso del tempo non è una serie di fermate, non è una successione interscambiabile di stazioni o attimi.
L’attimo è una forma vuota, astratta, esso si ripete identico a sé stesso, posso riempirlo con qualsiasi evento o azione. Il tempo come successione di attimi è ciò che fonda la possibilità della previsione. Al contrario, l’ora o l’adesso è irripetibile. La fotografia ambisce a trattenere un tale momento nell’eternità del suo scatto: una concomitanza particolare di eventi, i giochi di luce nel suo danzare attraverso le finestre, i colori delle ore ermafrodite, le sfumature autunnali della natura, il sorgere della luna sullo sfondo ancora azzurro e diurno del cielo, eppure l’arresto del tempo prodotto dall’occhio meccanico rimane inerme di fronte alla durata del momento. Certo, mi si dirà che il cinematografo, in quanto immagine in movimento, trascrive esattamente l’esperienza della durata temporale. In alcuni esempi cinematografici, potrebbe essere effettivamente il caso – ma ci si domanda a questo punto, quale sia il senso di esperire la durata del tempo soltanto saltuariamente, quasi come un rifugio dalla vita che assume la forma di un’esperienza estetica artisticamente definita. Ciò equivarrebbe ad affermare che mentre si vive non si vive, giacché la vita non è altro che tempo.
Mi si potrebbe accusare di non essere di questo ‘tempo’, ma cosa significa qui ‘tempo’? E soprattutto ‘questo tempo’? Nulla – poiché ciascuno è il proprio tempo: nessuno può essere nel tempo, giacché si è tempo. Se proprio si vuole parlare del tempo come un oggetto, esso è l’unico, la cui alienazione è interamente in nostro potere. Cosa è dopotutto l’angoscia prodotta da quegli imprevisti se non appunto la manifestazione del presente come pura durata che emerge all’incepparsi dell’automatismo dell’anticipazione? Ed è così che l’angoscia non è che l’esperienza fattuale della libertà assoluta che abbiamo nell’uso del proprio tempo. Questo e nient’altro si annida nell’incessante domandare: ‘non so cosa devo fare?’, oppure ‘cosa faccio ora?’.
In effetti, l’abisso della scelta fa tremare l’essere fino a innervarsi in brividi al sole d’agosto o sudorazioni improvvise al gelo d’inverno: come usare questo tempo libero, questo tempo non pianificato? Inutile insistere che la pianificazione della vita mira ad annullare il tempo necessario, affinché possa sorgere una tale domanda. Tuttavia, il problema non è la costruzione o organizzazione della vita, ciò che gli antichi maestri chiamavano «l’uso delle rappresentazioni», ma semmai se il principio dell’organizzazione risulta fuori dal proprio controllo.
Non mi si deve spacciare per i tanti sofisti ambulanti nell’agorà virtuale del mondo, i quali predicano che «non si deve cambiare il mondo, ma la propria vita»: essi vendono trucchi per permanere sordi al proprio ritmo interiore. Neppure si sta qui suggerendo che la tranquillità dell’animo risieda nell’apatia, cioè nell’assenza di ogni sentire: si tratta piuttosto della liberazione dalle passioni tristi in nome di una felicità reale. Dopotutto, l’uomo non è turbato dagli eventi, bensì dai propri giudizi su di essi e tali giudizi si rivolgono sempre a eventi inesistenti: o passati o futuri. La vita nel suo durare presente – in questo fluire ora del mio scrivere o nella tua lettura – è scevra di impedimenti. Non esiste propriamente angoscia o turbamento alcuno nel presente, al massimo vi è paura del dolore, ma ancora una volta è paura della possibilità del dolore, quindi di qualcosa che non esiste. Ciò significa che il motto carpe diem – volgarmente tradotto cogli l’attimo o il giorno – comporta il naufragio dell’io nel godimento dell’attimo?
Questo ‘cogliere’ è semmai un mantenere, aver cura, di ciò che si dispiega nella sua durata. Non è per niente l’esaltazione dell’attimo che è invece incessantemente incentivata dalle attuali forme di interazione sociale, o meglio pseudo-sociale, attraverso i social media, dove si privilegia sempre più la brevità incisiva dell’istante, l’accumulo dispersivo di eventi, il cui senso è meramente dato dal loro riempire ‘questo tempo’ – creduto un bene infinito – che è altrimenti esperito come vuoto. La fame atavica per il nuovo, l’ebbrezza vana dell’avvenire, prende chiunque – pure il sottoscritto – eppure è proprio questa inquietudine che oblitera l’esperienza del tempo nel suo durare, impedisce di vivere e dunque di avere cura dell’ora attuale.
Gli effetti dell’evoluzione tecnica, e segnatamente tecnologica, sull’esperienza del tempo non sono da sottovalutare: c’è chi – come gli influencer – vende la propria vita, cioè il tempo stesso, allo sguardo virtuale altrui. In alcuni casi, la perversione giunge ad abdicare paradossalmente la libertà sull’uso della propria vita. Questo è, semmai altri, l’inveramento perfetto del famigerato detto ‘il tempo è denaro’, dove è appunto il tempo stesso della propria carne a sminuirsi fino ad essere ceduto o usurato al capriccio della maggioranza del pubblico.
Cosa comporta il mantenere il momento nella sua durata? Il potere sul proprio tempo si esprime anzitutto sul fatto che il proprio passato si mantiene saldo nella memoria, che può richiamarne e trattenerne a piacere i momenti, giacché il passato non è una fonte di turbamento, ma è una parte del nostro tempo-vita al riparo dalle contingenze del ‘regno della fortuna’2. Al contrario, chi procrastina il vivere in un agire coatto è proiettato interamente sul futuro al punto che per lui il passato non esiste, poiché il proprio tempo-vita sfugge via dissolvendosi in un abisso, come l’acqua versata in un vaso senza fondo. Il richiamare tranquillamente senza nostalgia il proprio passato è l’indice del libero uso del proprio tempo ed è così che la memoria trattiene ancora il momento nella sua durata virtualmente eterna.
A questo punto, mi si chiederà come il presente nella sua durata si articoli con il futuro. Per questo, occorre comprendere che, come nella musica, è il presente nel suo durare a costruire il futuro e non il futuro a determinare il presente. Ora, la libertà dell’uso del proprio tempo implica, si potrebbe dire, la costruzione di una gerarchia di valori. Dopotutto, è il giudizio sulle cose e non le cose che turbano l’animo. In tal modo, l’allusione al ritmo interiore come figura dell’esperienza elementare della durata rinvia al fatto che l’uso del tempo è pienamente in nostro potere, cioè sono sempre io a dare e dedicare più o meno attenzione – cioè tempo – ad ogni evento. La libertà risiede dunque nell’usare il proprio tempo, laddove si è meno esposti alle contingenze esterne e quindi più potenti, affinché le proprie azioni possano effettivamente giungere a compimento e contribuire alla vita collettiva.
In questo senso, il libero uso del proprio tempo non è per niente a vocazione individuale. Certo, l’autonomia e quindi l’indipendenza della propria felicità rispetto a ogni fattore esterno (e quindi anche dagli altri) è una condizione per contribuire effettivamente alla collettività, altrimenti ogni agire sarà sempre unicamente per l’interesse del proprio io. Il potere sul proprio tempo e la libertà sul suo uso non è un libero arbitrio assoluto, come se io potessi decidere qualunque cosa, quanto piuttosto una libertà situazionale fondata sul potere assoluto sul proprio tempo.
La libertà ogni giorno si misura a partire dall’uso del proprio tempo, cioè della propria vita. E tanto alta sarà tale percezione quanto più si è espresso ciò di cui si ha effettivamente la capacità di fare al di là delle anticipazioni o attese esterne, a cui ci si deve adeguare fino al punto in cui non minano la propria autonomia e quindi la possibilità della felicità. In tal senso, credo si possa ben vedere quanto l’autarchia spesso associata al pensiero stoico è relativa all’uso del tempo. Nella condizione dell’autonomia è possibile infatti esperire la stratificazione della durata presente e costruire un futuro, non tramite anticipazione predittiva, ma attraverso la manutenzione della durata sviluppando così le effettive potenzialità del presente. Ogni mia azione o pensiero sono così volti nel godimento più profondo dell’ora nel suo durare al fine di occuparmi «ad un tempo delle cose umane e divine», benché ai più sembrerà che io non faccia nulla3.
Note
- In Epitteto, Manuale, a cura di M. Menghi con la versione di G. Leopardi, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2023 (1996), pp. 31-37.
- L. A. Seneca, La brevità della vita, a cura di U. Dotti, Feltrinelli, Milano, 2023 (2017), p. 47
- L. A. Seneca, Lettere a Lucilio, a cura di Luca Canali, Giuseppe Monti e Ettore Barelli, BUR, Milano, 1966, vol. I, Lettera 8. I veri beni dell’uomo, p. 25.