Il momento immortalato da Velázquez – 5 giugno 1625, Giustino di Nassau consegna le chiavi della città di Breda ad Ambrogio Spinola, comandante generale dell’armata spagnola delle Fiandre, dopo un cruento assedio durato nove mesi – si colloca lungo una linea temporale densa di eventi. Quelli di una guerra che durerà ottant’anni, dal 1568 al 1648 e che, pur con varie pause e con una tregua di dodici anni, dal 1609 al 1621, farà decine e decine di migliaia di morti, per concludersi poi con la sconfitta della Spagna e il riconoscimento dell’indipendenza della Repubblica delle Sette Province Unite nel quadro complessivo della pace di Vestfalia, che sigla anche la fine della Guerra dei Trent’anni (1618-1648), un conflitto ancor più esteso e sanguinoso.
La riconquista di Breda del 1625 segna forse il momento più alto delle fortune spagnole nella Guerra delle Fiandre e, insieme, anche l’inizio del declino: dopo ‘s-Hertogenbosch e Maastricht, anche la piazzaforte di Breda, che era già stata presa nel 1590 da Maurizio di Nassau, futuro principe di Orange, viene riconquistata da suo fratello Federico Enrico nel 1637. E pensare che Diego Velázquez aveva consegnato la tela che celebrava la vittoria spagnola appena due anni prima!
Osservato alla luce della catena degli eventi storici, il quadro si carica quindi di significati che vanno ben al di là delle intenzioni della committenza. Destinata al Salón de Reinos del Buen Retiro a Madrid, nuova residenza di piacere del re Filippo IV, La rendición de Breda era stata commissionata a Velázquez dall’arrogante Conte-Duca di Olivares, insieme ad altre undici opere richieste ad artisti diversi per celebrare le grandiose (ma già ‘datate’) vittorie militari della Spagna; tele realizzate in grande formato per impressionare visitatori e ambasciatori stranieri.
In questa celebrazione collettiva Velázquez gioca da grande maestro, usando un linguaggio fortemente allusivo e scartando una più facile esibizione della potenza del vincitore. Al centro geometrico del quadro, ciò per cui si è combattuto e per cui si sparso tanto sangue: le chiavi della città di Breda, che risaltano grazie a uno spicchio di colori chiari del fondo. Immediatamente intorno, l’azione che vede protagonisti assoluti il vincitore e il vinto, colta nel suo momento fondamentale: Giustino di Nassau porge le chiavi della città accennando a un inchino e lo Spinola, appoggiandogli la mano destra sulla spalla, lo ferma, guardandolo dritto in viso.
Lo spettacolo cui sono chiamati ad assistere, insieme a noi, i soldati e gli ufficiali di entrambi gli schieramenti è un incontro fra gentiluomini, dove l’eroe sconfitto che si è battuto con coraggio e lealtà vede riconosciute le sue virtù dalla magnanimità del vincitore, un po’ come se la guerra non fosse niente di diverso da un grande romanzo cavalleresco. Protagonisti del quadro, attraverso la figura di Spinola, sono i grandiosi valori di nobiltà e munificenza della Spagna, che può permettersi, come la Roma cantata da Virgilio, di parcere subiectis; questi ultimi consci però che la sua forza non va mai risvegliata né provocata, perché la Spagna può, in qualsiasi momento, debellare superbos.

Le lance (Las lanzas è l’altro titolo con cui è conosciuto il quadro) che si stagliano sullo sfondo come una selva fittissima e che sono tenute dai soldati spagnoli in posizione da fermo e non di combattimento dicono proprio questo: siamo più forti e agguerriti dei nostri nemici – non provocateci! Un altro avvertimento arriva dai molti fuochi che ancora si levano dalla città espugnata: il terribile scontro si è appena concluso ma può sempre riprendere forza.
Come può un incontro fra acerrimi nemici aver luogo solo a poche ore di distanza dall’avvenuto massacro? Forse lo comprendiamo meglio se collochiamo questa ‘scena’ sulla scena teatrale. Non è un caso, infatti, che il grande scrittore spagnolo Lope de Vega abbia composto proprio nel 1625 (e quindi quasi in diretta) l’opera L’assedio di Breda. Guardando la tela di Velázquez stiamo in realtà assistendo a un pezzo di grande teatro, a un duello fra attori recitato con suprema maestria e capacità di finzione; solo che la città che brucia non è un fondale scenografico e il sangue e la morte sono reali. Parafrasando un altro grande scrittore spagnolo dell’epoca, Calderón de la Barca, la vita non è sogno.
Il fatto che Breda sia stata riconquistata dai ‘ribelli’ (e definitivamente persa dagli Spagnoli) solo un paio d’anni dopo la conclusione del quadro aggiunge una nota di macabro sarcasmo al tutto: contrariamente a quello che vorrebbe raccontarci, la tela di Velázquez finisce per dirci che ogni vittoria è un’illusione ottica e che ogni guerra non è soltanto crudele, è semplicemente inutile. A meno che, si sarebbe tentati di dire, non serva a conquistare la libertà, come per i ‘ribelli’ delle Fiandre che daranno vita alla prima (florida) repubblica indipendente del Nord Europa. ‘Ribelli’ che furono definiti ‘pezzenti’ dagli Spagnoli all’inizio del conflitto ma che di questo epiteto si fregiarono orgogliosamente. Un po’ sembra avvertirlo anche Velázquez, che veste i nemici in modo più sobrio, quasi umile (all’epoca, tra l’altro, non esistevano ancora le divise militari vere e proprie) rispetto a Spinola e al suo seguito.
I vincitori del momento non sembrano accorgersi di questi elementi esteriori. Meglio farebbero invece a notare l’unico difensore di Breda che sta guardando verso di noi: abito dimesso, cappello nero con la falda destra ripiegata per meglio prendere la mira e archibugio (o moschetto) a spalla. Sarà proprio Maurizio di Nassau (morto nel 1625 mentre stava portando aiuto agli assediati di Breda) a rivoluzionare il modo di usare la fanteria e le armi da fuoco leggere creando la devastazione nelle linee avversarie – una rivoluzione della guerra analizzata a fondo dallo storico inglese Geoffrey Parker. Dall’innovativa strategia militare di Maurizio di Nassau nasce infatti il cosiddetto ‘fuoco di fila’: da otto a dieci file di archibugieri schierati sul campo, dove la prima fila spara all’unisono contro il nemico e poi arretra, mentre la fila successiva si porta avanti e fa la stessa cosa e così via, con sequenze ravvicinate di fuoco e il tempo utile per tutti per ricaricare. È l’apoteosi della guerra come tecnica, come congegno di precisione composto di parti che devono incastrarsi alla perfezione fra loro.
Grandi incisori, oltre che grandi soldati e grandi mercanti, gli olandesi illustrano con chiarezza, proprio negli stessi anni, ‘tempi e metodi’ della guerra. Secondo un taylorismo ante litteram sarebbero ben quarantadue i movimenti in sequenza codificati da Maurizio di Nassau, dallo sparo alla ricarica completa dell’arma – comandi che un archibugiere deve saper eseguire in tempi brevissimi e costanti, all’unisono con i suoi commilitoni. Cosa possibile solo con un esercito di soldati sottoposti a un addestramento continuo, con un senso di appartenenza al gruppo e un insieme di valori consolidati e condivisi. Integrati da un piccolo numero di soldati armati di picche (si notano anche nel quadro di Velázquez, sulla sinistra) i soldati dotati di armi da fuoco individuali spezzeranno las lanzas e renderanno un’ecatombe gli attacchi della cavalleria.
Il cosiddetto Addestramento Mauriziano farà scuola: sarà esportato e perfezionato (per esempio, da Gustavo II Adolfo di Svezia) diventando una vera e propria catena di montaggio della morte. Termina così la finzione della guerra intesa retoricamente come un’estensione del duello e inizia la sua democratizzazione; insieme, aumenta esponenzialmente il massacro, dato che le ferite da arma da fuoco sono più difficilmente curabili, con le conoscenze mediche dell’epoca, rispetto a quelle prodotte dalle armi da taglio. In qualche modo La resa di Breda di Velázquez chiude simbolicamente un’epoca e ne apre contemporaneamente un’altra, ancora più sanguinosa. La nostra.
In tutto questo, dov’è finito il protagonista? Dov’è finito Ambrogio Spinola da Genova? Prima o poi lo abbiamo incontrato, tutti noi, fra le pagine de I promessi sposi. Nominato governatore di Milano, lo Spinola continua a fare quello che sa fare meglio: la guerra. Tutto preso dall’assedio di Casale Monferrato, resta sordo alle notizie sempre più insistenti sulla diffusione della peste e non prende alcuna iniziativa di salute pubblica, salvo però decretare, con una grida del 18 novembre 1629, i festeggiamenti solenni per la nascita del primogenito del re Filippo IV di Spagna. Un’ottima occasione per la diffusione del contagio, una sorta di prosecuzione della guerra con altri mezzi.