Sì, e forse a causa della mia debolezza e malinconia, poiché è su tali animi che è più potente, mi inganna per dannarmi.
Voglio fondamenti più sicuri di questo.
[Williams Shakespeare, Amleto]
Si è più insicuri oggi di quanto non lo fossimo un tempo, noi, noi umani dei nostri giorni?
Leggiamo Montaigne, saggio per tutti i tempi: «Non muori perché sei malato, muori perché sei vivo». Dunque è sempre in te stesso che trovi la sicurezza o l’insicurezza, purché tu comprenda la meraviglia d’esser vivo, appunto.
A differenza di quanto avveniva nel XVI secolo, da molte delle malattie, sconosciute o per le quali non esisteva una cura al tempo di Montaigne, oggi invece si può guarire. Pensare che sia la malattia a portare alla morte e non il corso stesso della vita è un grave errore. Preparati, dunque, alla morte, ma fai sì ch’essa non rappresenti più una minaccia per la tua vita, affermava il grande Montaigne.
Oggi, come secoli or sono, il problema è lo stesso: l’insicurezza è un’esperienza spirituale in mondi fisici diversi e cangianti. E ieri come oggi il ‘senso’ del vivere è oscuro, se non lo illuminiamo di una ricerca spirituale. Così evitiamo che la paura di morire si trasformi in paura di vivere. Eterna è stata ed è la paura di ammalarsi, di non essere all’altezza delle aspettative degli altri, di soffrire, di essere delusi, di perdere qualsiasi cosa: il lavoro, l’amore, lo status.
Ma esiste una storicità dell’insicurezza e ogni epoca storica ha elaborato delle rappresentazioni della medesima che sono nel contempo tentativi di spiegazione e di cura.
L’opera d’arte pittorica ne è un esempio lampante allorché si manifesta come ‘discorso sulla melanconia’.
Nel De Chirico di Malinconia ermetica, del 1919, la tristezza non è uno stato d’animo, ma una contemplazione di sé e del mondo: è melanconia ermetica non solo perché Ermes è il dio che custodisce questo sentimento, ma perché ha a che fare con l’ enigma, con l’ignoto, con l’inconoscibile che è la nostra coscienza nel mondo in ogni epoca storica.
È un discorso poetico ben diverso da quello dell’opera fondamentale con cui ci confrontiamo tutti: l’immagine di Dürer del 1514, dove la malinconia è la coscienza di sé, concetto ed esperienza straordinariamente moderni, attualissimi.
Ma oggi sono tempi di un nuovo romanticismo, ossia di uno stupore del soggetto dinanzi a un mondo in cui siamo – come nella Folla solitaria di David Riesman – consegnati a noi stessi nella solitudine (il Covid è proprio nella solitudine che ci ha ricollocati tutti, pur nel mondo degli eterni interconnessi).
Caspar David Friedrich, nel Monaco in riva al mare (1808-1810), enfatizzava la polarità tra io e mondo; polarità di cui è fatto l’immaginario romantico e in cui, appunto, la pandemia ci ha abbattuti. L’uomo contempla l’immensità dell’universo, l’immensità inarrivabile della natura che pare tutto distruggere: rimane una figura ritratta di spalle, una presenza umana di fronte all’ignoto.
La Melanconia, allora, è una nuova coscienza dell’io che nasce iconograficamente con Dürer e riappare in Van Gogh, in Munch, in Sironi. Un’iconografia che riapparirà come immagine dell’io melanconico (Arnold Böcklin in Ulisse e Calipso).
Oggi – nel pieno di ciò che rimane dell’angoscia della paura della contaminazione pandemica e della morte per guerra europea che è in corso con l’aggressione russa all’Ucraina – il nostro immaginario è quello dell’Ora blu (1890) di Max Klinger, che ci parla dell’ora del crepuscolo, della notte che sta arrivando.
Altro filo conduttore del nostro discorso è la ‘nuova coscienza dell’io che passa attraverso la natura’ e, quindi, ‘nuovo sentimento della natura’ che è disvelato dalla coscienza ambientalista e dalle sue paure. Un tema su cui scrisse pagine memorabili Francesco Arcangeli, per il quale il nuovo sentimento della natura portava con sé una nuova idea di spazializzazione e di panico naturalistico.
Pensiamo agli acquerelli di Turner , dove il vero sembra dissolversi: uno spazio ormai senza coordinate, senza confini, uno spazio in cui noi quasi ci perdiamo. Ieri e oggi.