Jonathan Franzen, la narrazione e la scienza

Considerazioni sulla funzione dello scrittore ed elementi di psicanalisi del cambiamento climatico a partire da Jonathan Franzen.

Autore

Edoardo Toffoletto

Data

13 Marzo 2023

AUTORE

TEMPO DI LETTURA

5' di lettura

DATA

13 Marzo 2023

ARGOMENTO

CONDIVIDI

Jonathan Franzen o la psicanalisi del cambiamento climatico

You can keep on hoping that catastrophe is preventable,

and feel ever more frustrated or enraged by the world’s inaction.

Or you can accept that disaster is coming, and begin to rethink

what it means to have hope.

Jonathan Franzen 1

L’8 febbraio 2023 avviene un serrato confronto tra lo scrittore americano Jonathan Franzen e il direttore delle Fondazione Eni Enrico Mattei, Alessandro Lanza. L’occasione è la pubblicazione nel 2019 da parte dello scrittore americano di un saggio dal titolo provocatorio: What if we stopped pretending? – E se smettessimo di fingere? Il titolo parla già da sé: esso si rivela un tagliente rasoio in nome di un principio di realtà che castra ogni possibile ottimismo rispetto al prevalente soluzionismo tecnologico al cambiamento climatico, al punto che Franzen suggerisce che soltanto l’accettazione che il «disastro stia arrivando 2» possa condurre ad un’autentica speranza nei confronti del futuro.

Il linguaggio usato fin qui – castrazione, principio di realtà – vuole essere un esplicito occhiolino alla psicanalisi, giustificato d’altra parte dall’epigrafe, giacché si intende qui brevemente mostrare quanto il gesto del saggista, affatto speculare al romanziere, e segnatamente nell’ultimo pamphlet, sia a tutti gli effetti una psicanalisi del cambiamento climatico. Dalle prime battute, in seguito ad un riepilogo del suo interesse per la scienza, Franzen ci racconta che il suo ingresso nell’agone pubblico del dibattito sul clima avviene per dirimere l’imponente dimensione retorica venutasi a costruire nel tempo attorno al racconto del cambiamento climatico

Indefinitiva, un’operazione di pulizia del linguaggio per corrispondere alla ‘frustrazione’ – questa la parola di Franzen – delle comunità per la salvaguardia degli ambienti naturali nei confronti della direzione assunta da parte di alcuni ambientalisti deviati dalla retorica infestante l’attivismo per il clima. 

Il saggio come forma e la funzione dello scrittore

E tale operazione di scioglimento dei fraintendimenti e delle insidie del linguaggio giustifica una prospettiva psicanalitica che si corrobora dunque nella misura in cui si rammentano i processi evocati da Franzen per descrivere il proprio processo di scrittura narrativa e saggistica:

1. la narrativa si radica in «un’auto-esaminazione, in una psicanalisi» per sondare ciò in cui si crede (belief): in Ten Rules for the Novelist (2018) l’autore l’affermava già che un romanzo «che non sia l’avventura personale dell’autore nel terrificante e nell’ignoto non vale la pena scriverlo, salvo per soldi 3». L’esigenza qui è radicale, altissima. Tranne che per denaro, nulla ha senso scrivere di narrativa se non proviene da un’avventura nel proprio spazio più intimo «nel terrificante o nell’ignoto». Insomma, la letteratura è un ecoscandaglio di processi emotivi e pulsionali suscettibili di assumere una validità se non universale, per lo meno tipica. Oppure, non lo è affatto. E qui si intravede la dimensione conoscitiva della letteratura.

2. i saggi invece nell’urgenza di scrivere dettata dalla rabbia: ciò che spinge a scrivere è qui una necessità interna di dovere rimediare al maltrattamento di una questione o di un problema, ad un’ingiustizia, ad un tema, in cui in fondo si ha un investimento libidico, cioè che tocca la vita affettiva. Non stupisce pertanto che al cuore del suo argomentare vi è l’accento sulle «battaglie locali, di cui si ha qualche realistica speranza di vincere», ma soprattutto «continuare a tentare di salvare ciò che si ama specificatamente 4». 

«Il cambiamento climatico mi provocava rabbia», così Franzen ci lascia una dichiarazione inequivocabile sulla radice negativa della pulsione alla scrittura di fronte al generale ‘negazionismo’ (denialism) al contempo di destra e di sinistra, espresso da un ottimismo ingenuo riguardo all’aumento delle temperature globali. A quest’altezza si pone l’esigenza di chiarire lo statuto del saggio come forma letteraria, la cui funzione in Franzen può essere proficuamente fatta interagire con la definizione del genere secondo Theodor Wiesengrund Adorno. «Credo che il mio lavoro», dice Franzen nel dibattito dell’8 febbraio, «sia quello di parlare di cose di cui la gente ha paura di parlare».

Questa è la funzione dello scrittore in quanto saggiatore: perciò osserva nel 2018 che i tweet o i blog non hanno nulla di ‘saggistico’, anzi sembrano stratagemmi per evitare «ciò che un vero saggio potrebbe imporci» (what a real essay might force on us). In italiano lo dice la parola saggiare, cioè prendere una misura, come si è detto ‘scandagliare’, as-saggiare frammenti di realtà, timbro presente anche nell’inglese essay o il francese essai, e Adorno ne manterrà in tedesco la stessa radice col termine Essay, poiché esso «pensa in frammenti perché frammentaria è la realtà stessa, trova la propria unità attraverso le fratture, non attraverso il loro appianamento».

Analogamente, Franzen vede il saggio come qualcosa di ‘non definitivo’, la cui matrice è ‘l’onesta auto-esaminazione’, tanto quanto il saggio in Adorno che «non procede alla cieca, da automa, come invece fa il pensiero discorsivo, ma deve a ogni istante riflettere su sé stesso. E non riflettere certo solo sul rapporto che lo lega al pensiero stabilizzato, ma anche sul rapporto tra sé stesso, la retorica e la comunicazione 5».

In tal modo, si evince che il confine si sfuma tra narrativa e saggistica: l’auto-analisi dell’io è inesorabilmente al centro dell’attività dello scrittore. In effetti, il compito dello scrittore è secondo Franzen di essere a tal punto auto-biografico, che «il romanzo dovrebbe essere una lotta personale, un impegno diretto e totale della propria vita con la storia»: un engagement in cui «lo scrittore è personalmente a rischio» e in definitiva ogni prodotto letterario incarna «un superamento di una qualche grande resistenza». E in questo senso, quanto più è auto-biografico tanto più la somiglianza superficiale della trama con la vita dell’autore viene meno per toccare uno stato tipico, trascendentale. Negando che abbia senso parlare di influenze attuali in uno scrittore compiuto, Franzen ci rivela tuttavia i suoi modelli giovanili fra cui ritornano Karl Kraus e Franz Kafka. Ma si dovrebbero qui ricordare anche Herbert Marcuse e la Scuola di Francoforte 6.

La matrice dello sguardo diagnostico di Franzen consente di farne un intellettuale sartriano in quanto «uomo che prende coscienza dell’opposizione, in sé stesso e nella società», dove la scrittura diventa la scena del «disvelamento delle contraddizioni fondamentali della società». E ciò proprio in virtù di un’idea dell’arte che, secondo Kraus, «viene soltanto dal rifiuto. Solo dal grido, non dalla rassicurazione 7».

Negazione e speranza: psicanalisi del cambiamento climatico

Durante il dibattito dell’8 febbraio, Franzen pone – al di là della perdita di capitale politico – l’accento sulla componente emotiva dell’abbandonare il sogno del possibile arresto delle composite tendenze del cambiamento climatico, e quindi accettarne l’inevitabilità, il che ci porta al cuore della sua psicanalisi del cambiamento climatico. Benché scritto nel corso degli anni ’90 del secolo scorso il suo primo bestseller The Corrections (2001) dipinge dalle prime pagine la tonalità emotiva che struttura il pamphlet del 2019 – E se smettessimo di fingere? Quale è appunto l’oggetto della finzione, dell’atto di negazione (denial)? Franzen ci proietta nella follia (The madness) di una prateria d’autunno disabitata, un deserto traversato da folate di disordine. L’unico suono artificiale «la sveglia dell’angoscia», le prime comparse si sentono «prossime ad esplodere di ansia» e ancora «l’ansia of coupons 8».

L’angoscia è l’emozione che il ‘negazionismo’ criticato da Franzen cerca di ovviare. Ma la parola inglese denial traduce l’espressione tedesca Verleugnung, altrimenti anche tradotta con ‘rinnegamento’ o ‘rifiuto’, che Sigmund Freud introduce per marcare una differenza con un’analoga operazione, cioè la rimozione (Verdrängung). La negazione ha così come oggetto le rappresentazioni astratte e la realtà esterna, mentre la rimozione opera sulle richieste pulsionali interne 9.

In effetti, Franzen spiega che la negazione ha un perfetto senso psicologico, poiché «io vivo nel presente, non nel futuro» e così tra «un’allarmante astrazione» della fine del mondo (rappresentazione astratta provocante angoscia) e «la rassicurante evidenza dei miei sensi, la mia mente preferisce focalizzarsi su quest’ultima 10».

Il negazionismo opera qui una rimozione di rappresentazioni astratte che a loro volta causano l’angoscia. Ma si deve osservare appunto che tale rimozione non risolve l’angoscia. In effetti, il negazionismo in questione (del soluzionismo istituzionale o tecnologico) risulta nel feticcio della risoluzione sempre a venire.

Tuttavia, Franzen ricorda che siamo ‘creature di speranza’, ma il negazionismo pone la speranza in qualcosa che ‘semplicemente non esiste’: l’illusione della fuga in avanti. Per questo, l’appello di Franzen al principio di realtà, condizione di una speranza non illusoria, che implica rientrare dall’alienazione del ‘globalismo’ e del ‘climatismo’ (Like globalism, climatism alienates) e quindi «di non soltanto agire localmente, ma necessariamente, anche pensare localmente 11».

Franzen spiega che la sua posizione non comporta sminuire le attività svolte a livello globale e il coordinamento internazionale per la riduzione delle emissioni e per la transizione energetica. Tuttavia, tali sforzi non bastano, e qualora siano ritenuti sufficienti, ciò è dovuto alla sola retorica che si rivela uno strumento di una politica fondata sull’amministrazione della paura, descritta da Paul Virilio 12, dove l’angoscia non è tolta ma catturata dalla velocità di processi, di fughe in avanti, che si alimentano sulla sua rimozione.


Ascolta ‘E se smettessimo di fingere?’ il primo episodio del podcast di Equilibri Magazine che indaga gli ultimi articoli, eventi e riflessioni promossi dalla rivista, orientando l’ascoltatore nella complessità di uno sviluppo che, per essere sostenibile, deve ribaltare tutti i paradigmi del nostro tempo.

Note

  1. In J. Franzen, What if we stopped pretending?, London, 4th Estate, 2021, pp. 20-21.; il saggio fu originariamente pubblicato in J. Franzen, What if we stopped pretending?, in “The New Yorker”, 8 settembre 2019, https://www.newyorker.com/culture/cultural-comment/what-if-we-stopped-pretending
  2. Vedi nota 1.
  3.  J. Franzen, The End of the End of the Earth, London, 4th Estate, 2018, Ten Rules for the Novelist, p. 125.
  4.  J. Franzen, What if we stopped pretending?, cit., pp. 38-39.
  5. J. Franzen, The End of the End of the Earth, cit., The Essay in Dark Times, pp. 3-7, 14-15.; T.W. Adorno, Note per la letteratura, Torino, Einaudi, 2012, Il saggio come forma, pp. 17-18, 24-25.
  6. J. Franzen, Farther Away, London, 4th Estate, 2012, On Autobiographical Fiction, pp. 121-131.; J. Franzen, The End of the End of the Earth, cit., The Essay in Dark Times, pp. 3-7 e A Rooting Interest (on Edith Wharton), p. 111.
  7. J.-P. Sartre, L’universale singolare. Saggi filosofici e politici 1965-1973, a cura di R. Kirchmayr, Milano, Mimesis, 2009, In difesa degli intellettuali, pp. 39-40.; K. Kraus, Detti e Contraddetti, a cura di R. Calasso, Milano, Adelphi, 1977, Arte, p. 290.
  8. J. Franzen, The Corrections, London, 4th Estate, 2001, pp. 3-4.
  9. S. Freud, Opere, a cura di C. Musatti, Torino, Bollati Boringhieri, 1978, vol. X, Feticismo, pp. 492-493 (e nota 4).; J. Laplanche e J.-B. Pontalis, Vocabulaire de la psychanalyse, Paris, Presses Universitaires de France, 1967, Déni (– de la réalité), pp. 115-117.
  10. J. Franzen, What if we stopped pretending?, cit., pp. 22-23.
  11. J. Franzen, The End of the End of the Earth, cit., Save What You Love, pp. 43-66.
  12. P. Virilio, L’administration de la peur, Paris, Les Éditions Textuel, 2010, pp. 7-63.
Leggi anche
Cultura
Coordinate
8′ di lettura

Prospettive Africane nella Biennale ‘Laboratory of the Future’

di Alessandra Manzini
Cultura
Editoriali
8′ di lettura

Ripensare la moda

di Gulnazi Kenzhebay, Teresa Dianelly Flores Ramirez, Benedetta Zarpellon
Cultura
Territori
7′ di lettura

Il progetto Green Road Basilicata

di Angela Pepe
COP28
Viva Voce

COP28: tra contesto e contestazioni

di Roberta Bonacossa, Nadia Paleari
5′ di lettura
Clima
Viva Voce

Crediti di carbonio e carbon farming: come prevenire il greenwashing

di Simone Gazzea, Giorgia Lain
5′ di lettura
Economia
Viva Voce

Società benefit: modello di business per lo sviluppo sostenibile

di Matteo Taraschi
7′ di lettura
Economia
Viva Voce

Un check-up dei consumi di acqua domestici?

di Mirco Tonin
5′ di lettura
Scienza
Viva Voce

Gli enzimi mangia plastica

di Stefano Bertacchi
3′ di lettura
Economia
Viva Voce

La povertà infantile negli Stati Uniti

di Abigail Outterson
4′ di lettura

Credits

Ux Design: Susanna Legrenzi
Grafica: Maurizio Maselli / Artworkweb
Web development: Synesthesia