Il senso dell’avanguardia per la grande madre Russia

Dostoevskij, certo, ma anche Trubeckoj, Chlebnikov, Livšic. L'irriducibilità all'Occidente e al suo sistema di valori alligna nel profondo dello spirito russo.

Autore

Roberto Di Caro

Data

27 Febbraio 2023

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27 Febbraio 2023

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C’è un fondo inesausto dell’anima russa che a noi europei è a lungo sfuggito, e con il quale avremmo forse dovuto fare i conti per tempo: un senso di irriducibilità all’Occidente, esplicito in Dostoevskij, controverso nelle élite, ambiguo ma endemico nel popolo. Se lo ignoriamo, non riusciremo a farci una ragione del fatto che, almeno nei primi mesi della sua insana guerra di aggressione contro l’Ukraina, Putin godesse di un consenso popolare intorno all’80%, punto più punto meno. Entrato in crisi solo con le sconfitte sul campo, il palesarsi di una sconcertante impreparazione e inefficienza dell’Armata russa, la fuga dal paese di quasi un milione di giovani per non finire nelle maglie della mobilitazione forzata e morire nel pantano ukraino. Né ci si può arrabattare in spiegazioni di comodo, colpa della disinformacija, delle fake news, dell’Fsb, di un regime poliziesco, della paura: tutto vero, per carità, ma non sufficiente.

Quella rivendicazione di irriducibilità, infatti, di contrapposizione all’Occidente, di fastidio per le sue pretese di universalità, di rifiuto a far propri il sistema di valori e i paradigmi di comportamento propugnati da una cultura sentita come altra, a fasi alterne invidiata o detestata o entrambe le cose insieme, pervade sotto varie forme e maschere l’intero corso della storia russa e sovietica, dal panslavismo dell’Ottocento allo stalinismo fino al putinismo: come un fondamento, neanche così oscuro, sul quale ballano i diversi attori e si costruiscono fortune e tragedie. Ci inciampi, non senza un senso di sconforto, quando e dove meno te lo aspetti: che so?, scoprendo che Lev Nikolaevič Gumilëv, lui, il figlio di Anna Achmatova, con la sua idea di un super-ethnos panrusso legato a un destino da compiere, è stato il grande ispiratore della politica neoimperiale di Putin e del suo ideologo Aleksandr Dugin.

Non ne è immune neppure la strepitosa stagione dell’Avanguardia anni Venti. «La cultura europea non è la cultura dell’umanità: è il risultato della storia di un determinato gruppo etnico. I romanogermanici chiamano sé stessi ‘umanità’, la propria cultura ‘civiltà universale’, il loro sciovinismo ‘cosmopolitismo’». A pubblicare L’Europa e l’umanità, nel 1920 per la Casa editrice russo-bulgara a Sofia dov’è docente all’università, è Nikolaj Trubeckoj (per la cronaca, Einaudi lo tradurrà nel 1982, pieno clima terzomondista e di demolizione dell’eurocentrismo). Figlio di un principe, Trubeckoj è, con Jakobson, Tynjanov ed Ejchenbaum, uno dei grandi linguisti di quell’avventura intellettuale a cavallo della rivoluzione. La sua è «la generazione che ha dissipato i suoi poeti» raccontata da Roman Jakobson nel 1930, un mese dopo il suicidio di Majakovskij: «Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro, perché ci potesse restare un passato. S’è spezzato il legame dei tempi. Abbiamo perso il senso del presente. Neppure il futuro ci appartiene». 

Trubeckoj attacca a muso duro «gli ‘intellettuali’ dei popoli non romanogermanici, che si sono lasciati raggirare», vittime di una «ipnosi delle parole». Il loro «eccentrismo», il porre il centro fuori da sé (nel caso dato, nell’Occidente) è aspirare a essere ciò che non si è, e ciò è falso e dannoso. Dal Settecento in poi in Russia è stato «uno scimmiottamento indecoroso e superficiale dell’Europa». L’europeizzazione «è un male assoluto. Ciò deve essere non solo compreso, ma sentito, vissuto, sofferto. Niente compromessi: la lotta è lotta». L’unica possibile via d’uscita è una «rivoluzione nella coscienza, nella concezione del mondo dell’intelligencjia dei popoli non romanogermanici»; la difesa di una cultura nazionale originale; un «vero nazionalismo ancora da creare», in cui «ogni popolo apparterrà a una data cultura perché essa armonizza con la sua essenza interiore». 

Non ci crede gran che neppure lui: il bolscevismo, scrive, è figlio di quella società europea il cui «spirito di rapina e di asservimento non è una proprietà di singole classi, bensì di tutta la civiltà romanogermanica in quanto tale»; e rischia di diventare «lo strumento più potente dell’europeizzazione persino di quei popoli che la rifuggivano». Si augura che la rivoluzione venga sconfitta in Germania, e che la Russia, «abbandonata per lungo tempo a sé e all’orientamento asiatico, costringerà i propri capi a effettuare il rivolgimento» delle coscienze. È ciò che avverrà, ma sarà una catastrofe, per la Russia e per l’Europa.

Trubeckoj tira all’estremo il ragionamento. Ma la percezione di una diversità del mondo russo, l’orgoglio delle radici, l’amore per il popolo minuto, la rivendicazione di un’identità che non venga spianata e azzerata dal nuovo in cammino, appartengono a tutta la generazione dell’Avanguardia: inclusi quanti, nelle parole di Jakobson, hanno «vissuto troppo del futuro, pensato troppo ad esso, in esso troppo creduto».

Velimir Chlebnikov, poeta vagabondo, inventore della lingua transmentale, padre dei budetljane, i cubofuturisti russi, scrive nel 1914: «Se un tale non ha il naso, lo compera di cera. Se un popolo non ha anima, si reca dal vicino, e la ottiene pagando, il privo d’anima»; Brutta gente, s’intitola la poesia. L’anno prima, quando Filippo Tommaso Marinetti aveva tenuto un giro di conferenze in Russia, a San Pietroburgo Chlebnikov e Benedikt Livšic avevano fatto irruzione in sala distribuendo un volantino che recitava: «Oggi, certi indigeni e la colonia italiana sulla Neva cadono, per ragioni personali, ai piedi di Marinetti, tradendo il primo passo dell’arte russa sul cammino della libertà e dell’onore, e piegando il nobile collo dell’Asia sotto il giogo dell’Europa!». 


Non smetteremo di leggere Dostoevskij e Gogol, di amare Chlebnikov e Bulgakov, di ascoltare Čajkovskij e Rachmaninov, di portare in scena il Boris Godunov e L’amore delle tre melarance: pretese del genere, pure periodicamente avanzate, sono insensate. Solo, non dovrebbe stupire più di tanto (e andrebbe probabilmente messo nel conto dell’equazione politica e diplomatica) che non solo nella Russia profonda distesa su 11 fusi orari ma in quella stessa Mosca in cui fino all’aggressione contro l’Ukraina le vetrine dei Magazzini Gum erano solo di marchi italiani di lusso e i McDonald’s erano l’emblema di un Bengodi popolare, in molti si siano lasciati irretire dall’apparenza di un Putin artefice di un ritrovato orgoglio nazionale panrusso.

Non dev’essere stato difficile, alla propaganda di Stato e di partito, supportata da una Chiesa ortodossa che promette salvezza eterna a chi muore combattendo per ‘denazificare’ l’Ukraina, convincere quei molti che le bandiere stellate dell’Unione europea a Kyiv in piazza Maidan fin dalla ‘rivoluzione arancione’ del 2004 altro non erano se non i segni di un popolo (peggio: di una parte del loro stesso popolo) anelante a mettersi «sotto il giogo dell’Europa». In cerca di sé stesso a casa d’altri. Anelante a comprare l’anima a Ovest invece di scegliere la Grande Madre Russia, cui lo lega l’origine remota e il mito di fondazione, la monarchia Rus’ di Kyiv del IX secolo. Dimenticando, o forse ignorando, l’Holodomor, lo sterminio per carestia di 4 milioni di ukraini attuato da Stalin nel 1932-’33 contro i contadini che resistevano alla collettivizzazione forzata. Come oggi tenta di fare Putin devastando il paese, le sue infrastrutture, le centrali elettriche, gli ospedali, le scuole, gli edifici residenziali: per piegare l’Ukraina con il freddo e la fame.

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