Sui limiti della modernità – parte 2

Al tempo della globalizzazione i confini non spariscono. Si spostano in avanti e si moltiplicano: da materiali diventano immateriali e altro ancora.

limiti modernità

Autore

Franco Farinelli

Data

12 Settembre 2022

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6' di lettura

DATA

12 Settembre 2022

ARGOMENTO

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Soggetto e oggetto, causa ed effetto sono le strutture concettuali portanti del ‘mondo di ieri’, della modernità, finita nel 1969 con l’avvento della Rete proprio per la crisi di tali strutture: crisi allo stesso tempo causa e insieme effetto, soggetto e insieme oggetto della coerenza tra rappresentazione cartografica e realtà dal loro lavorio assicurata.

Nella mappa di Fra’ Mauro l’espulsione del Paradiso riduce la triplice dimensione temporale dei mappamondi medievali a una sola, priva di ogni natura storica e di ogni proiezione profetica o almeno prognostica. Ne risulta, con la Terra per la prima volta ridotta ‘a una dimensione’ nel senso concettuale e dell’immanenza, un’estensione continua e omogenea che trova all’interno della sua stessa materiale struttura (e non più in un riferimento trascendente) il proprio centro, la marca cui riferire il proprio grado di isotropismo. Manca soltanto la metrica perché l’immagine della Terra diventi propriamente spaziale, secondo un processo che  per secoli, a partire da quelli che intercorrono tra la mappa di Fra’ Mauro e il Leviatano di Hobbes, coinciderà con la messa a punto e la diffusione in Europa e poi altrove del sistema degli Stati territoriali moderni centralizzati, primo e formidabile risultato della riduzione della faccia della Terra a un’unica gigantesca mappa, cioè del processo che definisce la complessiva natura della modernità e insieme della statualità. E che in realtà, anche se in forma residuale, dura ancora: si pensi all’indipendenza, dieci anni or sono, del Sud Sudan. Formidabile esempio, anche quest’ultimo, di come lo Stato moderno sia la copia della sua mappa, nel senso che, per essere riconosciuto come tale, il suo territorio deve esibire almeno formalmente le tre caratteristiche che nella geometria euclidea distinguono ogni estensione: la continuità, l’omogeneità e l’isotropismo. Di fatto in nessun Stato le cose stanno mai davvero così, e si fa soltanto finta. Ma si diceva prima: lo spazio (cioè lo Stato) moderno nasce da un trucco.

La continuità vuol dire che il territorio statale dev’essere tutto e soltanto di un pezzo. L’omogeneità implica l’identità della sostanza di cui esso è fatto, identità che si esprime in due indici immediati: quella della lingua e quella della religione, ambedue supposte identiche per tutti i sudditi. Nel concreto, è un caso che, a dispetto di ogni coercizione, non si è mai verificato, e tantomeno è vero al giorno d’oggi. Ma fu in base a esso che nel 1933 Hitler giustificò l’Anschluss nei confronti dell’Austria, e oggi Putin può giustificare l’invasione dell’ Ucraina rivendicandone l’appartenenza alla nazione russa. L’isotropismo implica invece l’esistenza di una sola capitale, che appunto serve per orientare funzionalmente ogni parte del territorio verso un’unica direzione.

In altri termini: le nozze tra la mappa e lo Stato non sono mai state semplici. Ma tanto più non sono semplici adesso, al tempo della globalizzazione cioè della crisi della coerenza tra la formazione territoriale e rappresentazione cartografica che ha dato origine alla modernità. Crisi che dipende oggi dal fatto che a motivo della nascita della Rete nessuno Stato è più in grado di definire con precisione quel che è all’interno dei suoi confini da quel che invece è all’esterno.

In proposito la produzione dell’autorità sovrana tende sempre più a integrare i tradizionali marcatori territoriali passivi (i confini insomma) con una serie di pratiche tecnologiche usualmente denominate come ‘prestazioni confinarie’. Si tratta di attività fondate sulla proiezione e sulla estroversione materiale dei confini stessi dei singoli Stati, e riguardano in sostanza il tentativo di controllo delle nuove forme di mobilità umana che accompagnano l’intensa circolazione dei flussi di merci, informazioni e denaro da un capo all’altro del mondo.

A partire dai primi anni del Duemila, per esempio, velivoli europei hanno sorvolato il territorio africano con funzioni di sorveglianza, nel tentativo di distogliere potenziali migranti dall’intraprendere il viaggio attraverso il Mediterraneo, in una sorta di preventiva operazione di frontiera per cui il confine settentrionale di quella che all’Europa appariva come una minaccia sostituiva in pratica il confine europeo meridionale. Oppure si consideri il progetto EU NAVFOR (European Union NAVal FORce), che coinvolge navi, aerei e personale militare in base al principio che le frontiere marittime europee, poste di là dalle acque territoriali dei singoli Stati, sono ‘spazi ibridi’: al di fuori del nostro continente dal punto di vista legale ma funzionalmente collocate nella strategica zona d’interesse di quest’ultimo, responsabile perciò della loro stabilità. Come spiegava Ulrick Beck, la globalizzazione è il regno del paradosso. Ma andrebbe aggiunto: se e solo se il mondo è una mappa. 

Ancora più pervasivo, sempre in tema, risulta il progetto EUROSUR (EUROpean Border SURveillance System), lanciato nel 2008 all’interno dell’area Schengen e basato sulla messa a punto di sistemi di autorizzazione elettronica e controlli automatizzati che utilizzano dati biometrici e di altra natura per rilevare soggetti a rischio provenienti da paesi extraeuropei, allo scopo di impedire il loro viaggio addirittura prima che questo inizi, prima cioè che essi possano materialmente raggiungere il confine terrestre straniero desiderato. Da ciò va appresa una prima, evidente lezione: al tempo della globalizzazione i confini non spariscono ma si spostano in avanti e si moltiplicano, e da materiali diventano anche immateriali, da geometrici anche invisibili, da diretti anche indiretti, da visibili anche non appariscenti. Pur di continuare a svolgere la propria funzione essi si potenziano e articolano in forme diverse, soltanto in apparenza contrastanti ma in realtà cumulative, secondo un raggio d’azione che travalica di molto il singolo territorio statale di riferimento, e investe potenzialmente il pianeta intero. Perciò ovunque vanno sorgendo oggi, per migliaia di chilometri, nuovi muri, lungo i quali il filo spinato elettrificato, il cemento, l’acciaio, i dispositivi informatici e non di rado i bunker, i campi minati e la vigilanza armata si rinforzano a vicenda.

La più lunga di tali nuove muraglie è quella tra India e Bangladesh, che supera i cinquemila chilometri. In Africa più di tremilacinquecento chilometri di terrapieno munito di posti di osservazione, con truppe ogni cinque, separa in pieno deserto il Marocco dall’Algeria, dalla Mauritania e dalla Repubblica Democratica Araba Sahrawi. Mentre a sud sopravvivono ancora lunghi tratti della cortina elettrificata costruita alla fine del Novecento, al tempo dell’apartheid, al confine tra lo Zimbabwe e il Mozambico e il Sud Africa: il Serpente di Fuoco che fulminava chiunque si avvicinasse.

All’attuale proliferazione dei limiti statali indotta dalla globalizzazione si accompagna il loro progressivo slittamento dalla posizione periferica a quella centrale, se rapportata alla distribuzione della popolazione e alla densità del popolamento. In termini molto spicci: è sempre più frequente il caso di frontiere che invece di essere al margine delle formazioni statali, secondo il modello ideale della statualità moderna, spaccano a metà grandi agglomerati urbani. È il caso per esempio di Beirut nel Libano, Nicosia nell’isola di Cipro, Aleppo in Siria, Baghdad in Iraq, quest’ultima vittima da almeno trent’anni di un vero e proprio ‘urbanismo militare’, lascito di una guerra che ha disseminato l’intera città di alte mura di cemento, costruite dalle forze multinazionali di occupazione per proteggere gli abitanti dalla violenza urbana ma che oggi agiscono da linee di segregazione della società locale, acuendo le divisioni. 

Altrove invece non sono nuovi confini e recenti frontiere a disarticolare nell’intimo antiche città ma al contrario antiche linee di divisione a richiamare intorno a sé, e a concentrare, nuovo sviluppo urbano. Come accade in Asia nell’istmo di Malacca, la cui estensione include i bordi di altri due stati, la Malesia e l’Indonesia. Oppure in America centrale tra Nicaragua e Costa Rica, che entrano in contatto attraverso una stringa che si va configurando come un vero e proprio sistema urbano. Oppure ancora con La Frontera, come viene per antonomasia chiamata il tratto che divide gli Stati Uniti dal Messico: un corridoio binazionale che si estende per più di tremila chilometri e lungo il quale vivono più di tredici milioni di persone. È la frontiera più tecnologicamente avanzata che esista, fatta non soltanto di ferro e cemento ma anche di sensori in grado di distinguere da lontano le vibrazioni prodotte al suolo dal passaggio di una persona o un coyote, e sorvolata da droni dotati di un programma di riconoscimento facciale per filmare gli intrusi. Ed essa è in continua costruzione e ricostruzione.

La condizione postmoderna dipende insomma dal fatto che in un mondo organizzato a partire dall’immobilità del soggetto (condizione essenziale per la costruzione in termini spaziali cioè moderni del mondo) quest’ultimo è sempre più mobile. Di conseguenza l’originario ordinamento territoriale statale viene ribaltato (i confini passano per il centro delle città e le città si ammassano ai confini) e la struttura spaziale che lo regge(va) diventa ogni giorno meno significante dal punto di vista del funzionamento del mondo intero. L’ultimo a stupirsene sarebbe stato proprio Hobbes, per il quale lo Stato moderno era il ‘dio mortale’: invincibile finché in vita, ma anch’esso destinato, prima o poi, a perire.

Da quando esiste la Rete, in altre parole, la tavola non è più il talamo delle nozze della mente con l’universo, come per tutta la modernità invece è stata. Tanto più che ormai l’universo si è trasformato in un pluriverso, e qualsiasi tentativo di ricondurlo a ragione secondo la moderna strategia della produzione di tavole a mezzo di tavole appare destinato allo scacco. In termini operazionali sempre più soggetto e oggetto, causa ed effetto si trovano a coincidere, oppure a commutare reciprocamente il proprio ruolo all’interno dei nuovi mondi che nascono al confine tra il reale e il virtuale, e in cui attraverso un semplice clic possiamo entrare. Ma questo soltanto perché la tavola, ingenuamente ritenuta da secoli un semplice supporto, si è da tempo sostituita al reale, e ha messo al mondo il virtuale, ‘parto maschio’ non del tempo, come per Bacone era il progresso scientifico, ma dello spazio metrico.

È il virtuale che costituisce la logica della globalizzazione, cioè del globo ovvero della sfera, come lo spaziale costituisce la logica della tavola. Il problema è che dal punto di vista topologico, cioè matematico, la tavola e la sfera sono l’un l’altra irriducibili: è impossibile trasformare completamente l’una nell’altra, perché ogni trasformazione da una forma all’altra comporta una perdita. Nessuno sa, nel caso del passaggio da un mondo fatto di tavole ad uno sferico, di cosa si tratterebbe.

Leggi anche >> Sui limiti della modernità (parte 1)

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